Un manualetto – per aiutare gli altri e se stessi – su come vivere gli ultimi giorni coi malati a fine vita, sul trovare ragioni nella morte e sulla consapevolezza della condizione umana: il tutto servito con delicatezza e professionalità da Frank Ostaseski insegnante buddhista e docente, che è stato fondatore dello Zen Hospice Project per malati terminali negli USA.
Guardare dritto negli occhi la morte.
Usando le parole, Ostaseski ci porta sul terreno in assoluto più spinoso, quello del confronto con la fine della vita biologica. Ma non è roba da medici. È affare di tutti. È la condizione umana. Tanto che senza gli esempi vissuti in prima persona da Ostaseski nelle stanze dell’Hospice, questo libro non sarebbe stato scritto. È lui stesso ad ammetterlo: il libro nasce dall’esperienza coi malati. Sono loro il “contenuto”.
Il testo è diviso in tre parti: preparazione, servizio, lutto.
Ognuna delle tre parti si conclude con una proposta di meditazione sulla questione più importante e che necessita di più esercizio.
Nella prima parte l’autore mette in evidenza i cinque concetti per lui basilari dell’assistenza, portando esempi vissuti in Hospice: accogli tutto, porta nell’esperienza tutto te stesso, non aspettare, impara a riposare nel pieno dell’attività, coltiva una mente che non sa.
Nella seconda parte, intitolata Il servizio, l’autore chiarisce che coi pazienti terminali non è coinvolto solo il paziente, ma anche il datore di assistenza. Non potrebbe essere altrimenti in quella situazione: la sofferenza dell’altro è anche la mia. Prendersi cura degli altri è un lavoro a due cuori.
I pazienti dell’Hospice con diagnosi di vita di poche settimane, a volte giorni, hanno le reazioni più varie, come è logico che sia, data la varietà delle percezioni umane davanti alla forza della malattia. Ma un soccorritore deve essere una persona inerme, che non applica pensieri giudicanti e gesti già preparati, anche inconsciamente. Non si può essere addetti che puntano ad una prestazione di livello, quello che accade è un processo e lo si deve seguire da compagni compassionevoli. Bisogna vigilare per restare liberi da un pensiero in cui c’è un guaritore e un guarito; invece è uno scambio reciproco, dentro un canale di compassione che pone tutto in parità, mentre se ci si ponesse in una prospettiva di aiuto, ciò implicherebbe un senso di superiorità verso il paziente. L’aspetto potente e un po’ perturbativo è che per questo servizio serve tutto di noi, servono le ferite, i limiti, i lati oscuri: la nostra interezza serve l’interezza dell’altro.
Nel servizio il primo modo per esprimere compassione è il dono del contatto. Essere toccati è un bisogno fondamentale per ogni essere umano. E il primo contatto è lo sguardo. Poi la voce e certamente anche le mani a seguire. Bisogna lasciarsi guidare dalla consapevolezza che si può fare del bene anche solo tenendo una mano: tutti lo possono sperimentare senza corsi particolari. Delicatezza naturale e reazioni di chi riceve il contatto ci indicano la strada giusta.
Il secondo modo per esprimere compassione è il dono dell’ascolto: ascoltare è dare. Sembra impossibile, ma è così. Siamo abituati a pensare il contrario. Ma entrare in risonanza con l’altro mantenendo aperti tutti i canali verso fuori e verso sé stessi è una forma di dono di sé intensissima e gratuita. Accanto al paziente, occorre respirare con calma, mettere da parte ciò che ci è successo prima, le aspettative e capire come si sta; i moti dell’animo che emergono in noi sono la chiave per l’empatia giusta. Vanno ascoltati senza giudicare. Ma bisogna entrare in questo percorso con tutto di sé, con sincerità e leggerezza. È un viaggio in un mondo alieno – l’altro – senza giudizio, da cui si può tornare quando si vuole.
Il terzo modo per esprimere compassione è il dono della consapevolezza: esso ha a che fare con la serenità, per lasciare i malati senza angoscia e paura. Anche in questo caso occorre essere disposti a rinunciare al bisogno di controllo. Il paradiso è qui e ora e il malato può assaggiarlo prima di morire. Anche se il malato morirà. Una guarigione è possibile: si tratta di quella della persona intera, non del suo corpo biologico.
Grande aiuto possono fornire due pratiche che valgono a partire da qualsiasi tradizione spirituale si professa. La prima è la riflessione. La seconda è quella del perdono.
La riflessione ha a che fare con la ricerca di senso sulla vita nel momento cruciale della fine. Nella pratica si traduce in conversazioni, immersioni in vecchi album di foto, ricerca di conoscenti di vecchia data. Le possibilità sono molte. Di base, bastano poche domande aperte e non giudicanti, che facciano spazio a ciò che emerge. Le narrazioni di solito schiudono possibilità bellissime per i pazienti che riescono a vedere – proprio alla fine della vita – gli eventi di un’esistenza intera con occhi diversi.
E se raccontarsi fa emergere ricordi dolorosi, c’è bisogno di perdono e riconciliazione. E qui infatti Ostaseski presenta la seconda pratica. Quella del perdono.
Nell’assistenza ai malati terminali è di importanza cruciale, perché guarisce le fratture interiori, sblocca la paura, che ci separa da noi stessi e dalla realtà.
Ostaseski racconta storie stupende di pazienti che sono riusciti a perdonare in un istante anni di risentimenti e violenze. Il segreto è perdonare la persona e non l’atto, altrimenti si rimane agganciati al dolore emotivo del passato. Il perdono non giustifica mai la crudeltà. Spesso noi vogliamo che l’altro si scusi, che soffra un po’ per aver causato il male. Ma noi vogliamo essere liberi, per questo perdoniamo. La giustizia rispetto al male compiuto segue un altro percorso. Di certo ci vuole tempo ed esercizio, ma la forza del perdono consapevole fa emergere la sofferenza, che così può essere “trattata” con la compassione.
Chi accompagna deve aver prima attraversato questo territorio, per portarci un’altra persona. E ci si arriva per gradi, usando più carità che volontà. Qui Ostaseski propone la meditazione sul perdono, in tre fasi: chiedere perdono agli altri, perdonare le altre persone, infine perdonare noi stessi.
Questa pagina di meditazione guidata spiega i semplici passaggi per arrivare ai tre gradi di perdono.
La terza parte sul lutto esplora il momento della morte e le sue conseguenze.
Una parabola indiana su una donna che cerca aiuto dopo aver parlato col Buddha fa emergere il fatto ineludibile: la morte riguarda tutti e la sofferenza ci accomuna. E si può tornare a vivere dopo un lutto solo quando si è compresa la verità sull’impermanenza e sul dolore della perdita.
Nella vita quotidiana confiniamo i lutti che ci capitano negli angoli bui della mente. E quando perdiamo una persona cara tutti i piccoli lutti si riaccendono: sono frammenti di vita non vissuta che ci appesantiscono e con cui bisogna riconciliarsi. Sono le cose andate storte, la negligenza, l’indifferenza verso gli altri, qualcosa che ci manca e che avevamo, o qualcosa che avremmo sempre voluto e non abbiamo, l’autocritica, il senso di colpa. Il lutto è come un fiume che ci attraversa, imprevedibilmente. Resistere e scontrarsi non fa altro che esasperare il dolore.
Invece la guarigione passa attraverso l’andare incontro, non il rifuggire. Prima ci si deve arrendere, poi lo si lascia andare. Anche qui il racconto di un episodio vissuto è di grande conforto e chiarezza.
Segue una meditazione guidata sul lutto. Ma non c’è un decalogo “giusto” per affrontare il lutto. Ci sono però fasi riconoscibili e sono state codificate da Eric Poiché, coordinatore dei volontari allo Zen Hospice: accusare il colpo, vivere la perdita, la distensione.
La prima è quella del colpo allo stomaco. Quello che ti toglie il fiato. Non vogliamo accettare la realtà, il distacco senza ritorno. In questi momenti si può solo offrire una presenza. E nella durezza delle reazioni spesso le persone si mostrano spietate contro sé stesse, mentre ci vorrebbe il massimo della gentilezza; invece usiamo la massima autocritica. Bisogna riconoscere le emozioni per non farsi sopraffare. Ma è ovvio che sia un periodo di disorientamento. È normale cercare ricordi, oggetti, luoghi cari alla persona scomparsa, fa parte del bisogno di equilibrio e di stabilità nel mezzo degli scossoni emotivi e fisici dei giorni del dolore.
La seconda è la fase della durata del fatto in noi e nel tempo. È il periodo della solitudine. Spesso intorno – a caldo – non c’è comprensione reale. Ed è il momento in cui occorre avere accanto persone che capiscono lo stato emotivo e non cercano facili scorciatoie. In questo dolore che permane, alcune strade di ripresa passano dal disegnare volti e luoghi cari al defunto, dallo scrivere il non detto o dal ripetere ciò che di bello ci ha unito al defunto, dal costruire oggetti che possano far parlare del mondo del defunto. Raccontare la perdita crea spazi per la consapevolezza del dolore.
Infine la distensione è il periodo del rinnovamento, in cui la morsa del dolore si allenta. Non si può tornare indietro, ma si può tornare ad essere vivi. Si comprende che la morte non mette fine alla relazione, che viene ora interiorizzata. L’esperienza del lutto è un fuoco che può sempre esporci alla paura e alla disperazione, perciò occorre piano piano abbassare la difesa corazzata del cuore e spostare l’energia resistente verso una tensione alla vita rinnovata. Il traguardo – dice Ostaseski in chiusura del testo, è avere meno paura di vivere, anche se continueremo a temere la morte. Se cediamo al dolore e lo includiamo nello spazio più grande della vita in cui siamo immersi, esso ci apparirà come una parte di noi, non come il tutto.
La speranza dell’autore è che dentro l’esperienza certamente dolorosa si possa trovare anche un amore che va oltre la morte, perché capace di illuminare le parti di noi che non conosciamo e che sono un dono gratuito.
Mi pare che il punto di forza di questo libretto sia la forza delle testimonianza dei malati riportate dall’autore. Da lì la sapienza di Ostaseski ha tratto gli insegnamenti essenziali per la pratica clinica in Hospice, anche se appare evidente che si tratta di gesti e movimenti che non sono di un mestiere e basta, ma possono - devono? - appartenere a tutti, visto che tutti ci confrontiamo nella vita con la perdita o le perdite di persone care.
Per i poeti terapeuti questo libretto costituisce un’ottima base di lavoro per le diverse attività legate alla Poesiaterapia, perché le “regole” di Ostaseski sono perfette in molti altri contesti diversi dagli Hospice. Chi lavora sulla scrittura, sulla memoria, sul contatto corporeo può trarre da qui un chiaro fondamento.
Frank Ostaseski, Saper accompagnare, Mondadori, Milano, 2023.
Giacomo Nucci insegna lettere alla scuola secondaria di 1° grado dopo la laurea in Lettere Classiche in Statale di Milano. Dal 2009 fa teatro e dal 2013 teatro-poesia, sotto la guida di Dome Bulfaro. Ha pubblicato una raccolta di poesie, Sabbie e sorgenti, nel 2013 con Steber Edizioni. Dal 2017 è membro del gruppo editoriale e di ricerca Millegru, con cui ha pubblicato Così va molto meglio. Nuove pratiche di Poetry Therapy e con cui pratica poesia ad alta voce, laboratori per bimbi, massaggio poetico con donne incinte e con adulti.
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