Poetry Therapy Italia

09 ET 12 GS

 

Ines Testoni, una delle massime esperte di Tanatologia, in quest’intervista mette in relazione questa disciplina che studia scientificamente la morte con le Arti e le Creative Arts Therapies (CAT), dove la poesia svolge un ruolo strategico. L’intervista è stata voluta e condotta per questo numero di Poetry Therapy Italia da Laura Liberale, scrittrice, tanatologa e indologa, docente ai master in Death Studies & the End of Life e in Creative Arts Therapies, ideati per l’Università degli Studi di Padova dalla stessa Ines Testoni.

 

Grazie, Ines, per avere accettato il mio invito.
Il titolo generale sotto il cui cappello è stata accolta la nostra intervista è molto suggestivo: “La poesia può trasformare la morte in fiori?”. Partirei, dunque, da qui. Può, e, se sì, in che modo, la poesia realizzare tale trasformazione?

Bella l’immagine della morte come fiore! Celebrata negli haiku giapponesi, come pure nella tradizione zen, ove la caducità del fiore è spesso metafora dell'impermanenza ma anche della morte naturale e serena. Non siamo da meno per tensione lirica in Occidente, pensiamo anche solo a Rainer Maria Rilke, il poeta che forse ha saputo intrecciare con maggiore intensità espressiva vita, morte e fioritura. Mi riferisco alle sue Elegie duinesi e ai Sonetti a Orfeo, ove la morte perde le caratteristiche di negatività per riconquistare la propria posizione nell'essenza della vita, quale linfa segreta che scorre nei petali del reale. Quindi non si tratterebbe di una trasformazione ma della capacità del poeta di intercettare l’esporsi della morte nell’essere del fiore. La poesia che profila la finitudine esprime l’aver colto una tale implicitezza. Esattamente quella che censuriamo nella vita quotidiana che ci chiama a esprimerci con performance finalizzate che assorbono interamente i nostri pensieri – perché pensare ad altro, stancandoci fino all’esaurimento, ci aiuta a sopportare il patimento causato dal sapere di essere mortali.

Emanuele Severino ci ricorda che l’uomo soffre per quel che crede di essere e se crede di essere mortale, ovvero che la morte sia sostanzialmente connaturata alla vita, la sofferenza oltre che essere atroce è altresì incurabile. Il filosofo affonda la lama della propria diagnosi facendo riferimento a Giacomo Leopardi, nel suo splendido Il nulla e la poesia, in cui viene scandagliato il nichilismo del poeta recanatese, il quale, a partire dal credere che morire significhi diventare qualcosa di diverso da sé e nello specifico “niente”, rintracciava nella poesia l’unico strumento possibile di consolazione. In tale orizzonte, che Severino definisce “nichilista”, la poesia come cura non basta per vivere, richiede un esercizio ulteriore, quello che Eschilo aveva già indiziato: dare alle parole della consolazione un fondamento indubitabile che permetta di guardare la morte e non rimanere annichiliti dal terrore, perché ci si può pensare salvi. Che la poesia in sé non basti viene testimoniato non solo dal mistero che avvolge la morte di Leopardi, ma anche i/le tant* poet* che invocano e cercano la morte fino al suicidio.

Partire da quanto indica Severino, ovvero dal discorso incontrovertibile il quale mostra che siamo già da sempre salvi perché l’essere non è e non può essere il nulla, è esattamente l’inizio di un modo ancora poco conosciuto di intendere l’arte e le sue manifestazioni, fino ad ora relegate nell’unica matrice sostanziale che abitiamo: il linguaggio nichilista basato sull’inconsapevole certezza che tutto oscilli tra essere e niente, per cui l’unico significato che si può attribuire alla morte non può che essere il tornare nel nulla. È da questo porto che salpo ogni volta che affronto con chi soffre il tema delle perdite, delle sconfitte, del lutto, del terrore: sapere che credere nell’annientamento è l’errore sostanziale da cui prende forma la sofferenza estrema legata appunto alla morte.

Peraltro, un aspetto fondamentale della vita consiste nel fatto che, in quanto eterni, siamo costantemente in contatto con il nostro essere già da sempre salvi. Poiché però siamo incapaci di capire che cosa questo significhi, in modo altrettanto inconsapevole accediamo alle sensazioni che derivano da questo contatto, senza poter trovare una corrispondenza linguistica al di là del nichilismo. Le arti possono proporsi come un tale strumento al di là del modo convenzionale di usare le parole per definire ciò che erroneamente intendiamo per finitudine. Discuto di questi concetti in tutti i miei libri, ma consiglio in particolare quello che uscirà il prossimo agosto: Essere immortali: Manifesto per attraversare l’eternità (Il Saggiatore).

Da molti anni sei in prima linea nella ricerca e nella didattica tanatologica e il tuo impegno si è profuso generosamente anche nel diffondere l’utilizzo delle CAT (con un posto di rilievo dedicato alla poesia) per l'accompagnamento nel fine-vita e il sostegno al lutto. Puoi dirci alcuni degli interventi realizzati o in corso di realizzazione?

Ecco, io declino le Creative Arts Therapies (CAT), che metto a disposizione nel master all’Università di Padova, come spazio in cui il dolore prende forma, colore, suono, movimento, mettendoci in modo sorprendente in contatto con il nostro essere già da sempre salvi. In siffatto contesto, il lutto e il terrore per le perdite possono essere espresse senza bisogno di rigidi codici e modelli preordinati, perché ci si può affidare al linguaggio dell’immaginazione per intercettare la luce che nessuno può toglierci.

In questo scenario di fondo, attraverso le arti visive, il teatro, la musica, la poesia, la scrittura, la danza, chi ha subito una perdita riesce a entrare in contatto con emozioni altrimenti inaccessibili, riconoscendole nel proprio significato più profondo. Le CAT non si limitano a lenire il dolore: accompagnano l’elaborazione di ciò che più temiamo facilitando la ridefinizione dell’identità dopo una perdita o dinanzi a una minaccia. Il gesto artistico diventa così un atto di memoria e di presenza, un ponte tra ciò che è stato e continua ad essere oltre il visibile permettendoci di ascoltarne l’insegnamento. E la poesia è la tappa più importante da guadagnare perché appunto permette di accedere alla parola liberata dal terrore dell’impossibile.

Credere nell’impossibile, ovvero che l’essente sia nichilisticamente mortale, è causa certa di dolore e di azioni che vengono compiute per evitarlo. Quando si crede nell’errore è inevitabile errare: se si interpreta male la causa del dolore anche la cura sarà errata e causerà ulteriore dolore, come, per esempio, sui pregiudizi da cui deriva la discriminazione sociale di intere categorie di persone. Le ideologie della salvezza, quelle perlopiù legate a modi erronei di intendere Dio e la sua rivelazione salvifica, causano orrori sempre molto difficili da gestire, perché il terrore della morte, per essere sopito, ha bisogno di narrazioni rassicuranti quali sono quelle che conosciamo e che appartengono alla tradizione. Ebbene, mi sto impegnando affinché la parola Dio non legittimi più evidenti manifestazioni di violenza quotidianamente compiute in nome suo: dalle discriminazioni che sembrano meno sanguinarie, come per esempio quelle che in Italia riguardano l’autodeterminazione degli individui o l’orientamento sessuale, a quelle più tragiche che vediamo in corso nel Medio Oriente. Dio non è maschio e non ha bisogno del sacrificio di nessuno per imporre un proprio punto di vista attraverso politiche fasciste, sempre destinate a far soccombere i più deboli. Ne discuto in un altro mio libro: Il terzo sesso (Il Saggiatore), drammaticamente sul pezzo.

Com’è nata in te l’ideazione di un master dedicato alle CAT, con l’esplicito obiettivo del sostegno alla “resilienza” (termine oggi inflazionato, che ti chiedo dunque di ridefinire e contestualizzare)? 

L’idea di un master dedicato alle CAT è nata da un’esigenza profonda: ridare voce al linguaggio originario dell’essere umano, quello che precede l’errore nichilista e sopravvive al trauma. In un’epoca in cui la sofferenza rischia di essere silenziata, anestetizzata o trasformata in funzione produttiva e di consumo o più banalmente sopportata in nome dell’obbedienza, mi sono resa conto che era venuto il momento di aprire uno spazio in cui l’arte non fosse strumento, ma testimonianza della presenza di ciò che sta oltre le nostre fedi erronee e sempre pericolose perché accecanti. Volevo offrire l’opportunità di ritrovarsi non attraverso l’efficienza, ma nella fragilità condivisa per scoprire che cosa significa essere più grandi di ciò che crediamo di essere.

Il termine “resilienza”, ormai abusato, è spesso frainteso come sinonimo di “adattamento”, quasi fosse un invito a tornare come prima, a reggere l’urto e andare avanti sopportando violenze e abusi. No, non è a questo costrutto che faccio riferimento, bensì a quella dimensione abissalmente più profonda che ci riguarda e che possiamo scoprire solo lasciando che la ferita si esprima. Questo significa abitare il dolore senza venirne spezzati, attraversare il buio permettendo alla luce di trovare nuove aperture in noi per manifestarsi. In tal senso, la resilienza è l’annunciarsi dell’eterno che ci abita e che l’arte sa intercettare.

Le CAT sono dunque il luogo in cui gli archetipi, intesi come le forme dell’originario di cui siamo parte, non vengono spiegati, ma vissuti. Non si tratta di pensarli, ma di lasciarli emergere, come forme che attraversano il corpo, la voce, l’immagine. Quando una persona danza, dipinge, scrive, canta, non sempre sa da dove viene quell’azione,  ma sente che quel gesto la riguarda intimamente. È lì che l’archetipo si annuncia, non come concetto ma come esperienza incarnata. Le CAT quindi non curano, ma aprono varchi nel tempo, accessi su luoghi ove la parola torna corpo e il corpo si esprime come ascolto. È in questa dinamica qualcosa si ricompone non come forma da ripristinare bensì come apparire del ricordarci che siamo già da sempre salvi. E allora anche il silenzio in cui abbandoniamo ciò che sembra perduto diventa parte di un canto più grande. Questo master è nato per ascoltare quel canto. Un ascolto che precede il giudizio, un’attenzione che si affida al simbolico senza volerlo impietrire, una comprensione che significa abitare consapevolmente, uno stare nel silenzio che precede la parola. In tale immersione, qualcosa appare ed è l’archetipo che si mostra, come guida silenziosa.

La resilienza che passa attraverso le arti espressive non consiste dunque in una mera resistenza all’urto della vita, bensì nella forza dell’invisibile testimonianza del nostro essere eterni che si dischiude nel danzare anche nel dolore. È un lavoro di rivelazione, non di costruzione. In questo senso, gli archetipi sono nostri ospiti. Antichi eppure sempre nuovi, ci abitano nel momento stesso in cui li invochiamo. E quando l’arte è autentica, li lascia passare.

A settembre, l’11 e il 12, si terrà a Padova il Convegno, da te organizzato, “Eternità e morte tra religione, arte e pace”. Tra le performance conclusive hai previsto delle letture poetiche e dei canti tradizionali dedicati alla pace. Parlaci di come vedi questo connubio fra poesia e canto.

Questa sezione del convegno vuole mostrare come le diverse forme di musicalità possono compenetrarsi per esprimere una intensità lenta, capace di incarnare la fragilità e la potenza della vita quando è esposta al pericolo della guerra. Per questo ho voluto che queste due espressioni dialogassero tra loro, stando entrambe sul limes, quello della minaccia di morte, per erigere una barriera contro il deflagrare della violenza. Poesia e canto come espressione di resistenza, quella che solo la sinergia può garantire. In questo nostro tempo segnato da politiche nazionaliste che celebrano in modo trionfale la resurrezione del fascismo in Occidente, abbiamo bisogno di riportare l’armonia come denuncia al centro dell’esperienza di pace. Ma non una quiescenza apatica e superficiale, bensì una condizione che nasce dallo sguardo sulla ferita, dal riconoscimento dell’altro come parte del nostro stesso destino. Si tratta di un connubio, quindi, che non nasconde, ma mette in luce quanto siano irrimediabili gli effetti dell’azione distruttiva delle armi, attraversando l’orrore con grazia spietata, come solo la poetica e la musicalità possono fare.  Pensiamo alla poesia haiku che, pur appartenendo a un linguaggio molto distante da quello occidentale, di fatto insegna la postura di base davanti al mistero dell’esistere, esprimendolo in modo essenziale: il non sprecare parole non significa non dire. L’haiku non descrive, ma lascia affiorare un’immagine che custodisce la nostra essenza più intima e a noi ancora così sconosciuta. Questi semplici componimenti poetici sono fenditure nel tempo, brevi sospensioni in cui l’eternità si lascia intravedere con la propria promessa di pacificazione. La sua forza sta proprio nell’essenzialità: tre versi, pochissime sillabe, eppure in quel frammento si apre uno spazio in cui il pensiero tace e qualcosa di più originario emerge. Tra canto e poesia, il tempo si contrae e si espande dove la fragilità è forza, e la pace è rivelazione. 

Nel progetto del convegno, questo accostamento nasce dal desiderio di risvegliare nello spettatore un’esperienza di presenza. In queste performance artistiche non ci sarà da capire, ma da lasciarsi toccare. Come il respiro di un fiore che si apre nel buio, come il silenzio che resta dopo un discorso che ha permesso di incontrare qualcuno. Il convegno sarà anche questo: un tentativo di pensare la pace non come assenza di conflitto, ma come forma superiore di consapevolezza, che passa attraverso l’arte, la spiritualità, la parola ispirando armonia

Stai contribuendo anche in modo notevole all’apertura dell’Occidente alle filosofie e alle arti orientali (penso, per esempio, ad alcuni orientalisti in dialogo con il pensiero del tuo maestro, Emanuele Severino, e all’impiego degli haiku, come abbiamo detto, e della meditazione nei tuoi master). Vuoi parlarcene?

Sì, è un tema cui tengo molto. Il dialogo con le filosofie e le arti orientali non è per me un semplice interesse accademico, ma una necessità esistenziale. Ho cercato di intrecciare questi saperi con il pensiero di Severino, non per sincretismo, ma perché credo che ci sia un punto profondo in cui la sapienza d’Oriente e la filosofia dell’Occidente si sfiorano e si interrogano vicendevolmente. Alcuni orientalisti vicini al pensiero severiniano – penso ad esempio al lavoro di chi ha esplorato il buddhismo zen alla luce della destinazione dell’essere – hanno mostrato come certe intuizioni sull’eternità, sul non-attaccamento e sull’apparire possano essere messe in risonanza con il destino della verità. Nei master che coordino, ho voluto dare spazio anche a linguaggi non discorsivi, come gli haiku o la pratica meditativa, per permettere ai partecipanti di vivere su di sé un’esperienza di sospensione, di ascolto, di presenza. Le CAT permettono infatti di ascoltare la spiritualità più profonda che sgorga dal nostro essere eterni, quindi una dimensione molto diversa dalla religiosità come credenza o adesione a un sistema di valori, bensì come esperienza vivente del senso che affiora quando smettiamo di identificare l’essere con il divenire, e lasciamo che l’apparire delle cose ci parli nel silenzio prodotto dal non avere le parole per definire ciò che più autenticamente siamo. In un Occidente che ci spinge costantemente a correre, l’Oriente ci invita a fermarci: a vedere una foglia che cade, a sentire la luce del mattino, a percepire l’eco dell’infinito nelle cose più semplici. In questo senso, le CAT sono una pratica filosofica e spirituale, un piccolo varco attraverso cui l’eterno si rivela. Abbiamo bisogno di restituire profondità al tempo che rimane inaccessibile se non attraversiamo il respiro. Nel mio lavoro, nell’arte, nella filosofia, nella cura, cerco proprio questo: quella soglia in cui ciò che è unico si esprime anche come condivisibile, dicibile, visibile. E quando questo accade, non è mai frutto di calcolo. È un incontro. È ascolto. È la meraviglia dell’apparire.

 


Ines Testoni. Professoressa ordinaria di Psicologia sociale presso il Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata (FISPPA) dell’Università degli Studi di Padova. Dirige due distinti Master in seno all’Università di Padova: quello in “Death studies & The End of Life” e quello in “Creative Arts Therapies per il sostegno alla resilienza”. Le sue pubblicazioni rappresentano un contributo significativo al campo delle scienze sociali e umane, con particolare attenzione agli studi sulla morte, la tanatologia, e le questioni etiche e psicologiche connesse al fine vita. I suoi lavori includono articoli su riviste indicizzate e peer-reviewed, dimostrando un costante impegno nella ricerca accademica di alta qualità. Ha contribuito con articoli a riviste nazionali e internazionali, che le hanno permesso di diffondere le sue ricerche a un pubblico più ampio e di dialogare con la comunità scientifica globale. Oltre alla produzione accademica, il suo impegno è rivolto alla divulgazione scientifica, con contributi destinati a un pubblico non specialistico.

Laura Liberale. Scrittrice, tanatologa e indologa, è docente ai master in Death Studies & the End of Life e in Creative Arts Therapies (Università degli Studi di Padova); tiene corsi di formazione nell'ambito filosofico e in quello delle Medical Humanities.