È dedicato alle parole di Guccini il secondo articolo della rubrica “Il poeta urbano. Parole poetiche in musica”. In questo caso il lutto non è inteso nel senso stretto del suo significato attinente alla morte fisica e definitiva di una persona cara. Ci muoviamo piuttosto nella dimensione della perdita, del distacco – tutto terreno – da qualcuno, da qualcosa o da una parte di noi stessi.
Storie urbane e di paludosi esili per spingerci a guardare dentro di noi senza temere il distacco
Il secondo appuntamento con la rubrica Il poeta urbano, asseconda nuovamente la linea editoriale di questo numero della rivista ancora dedicato alla tematica del lutto. In questo caso il lutto non è inteso nel senso stretto del suo significato attinente alla morte fisica e definitiva di una persona cara. Ci muoviamo piuttosto nella dimensione della perdita, del distacco – tutto terreno – da qualcuno, da qualcosa o da una parte di noi stessi.
Giorgio Lo Cascio non me ne vorrà se procrastino gli approfondimenti che spiegheranno come io mi sia ispirato ad un suo LP, il cui titolo dà nome a questa rubrica. Verosimilmente ci diamo appuntamento al prossimo numero di Poetry Therapy Italia perché io scopra le carte sul tavolo come “nella baracca del vino a via Imbonati”.
Adesso è il momento di farci accompagnare dalla straordinaria capacità narrativa di Francesco Guccini, forse il meno “urbano” dei poeti cantautori. La scelta cade sulle canzoni di un suo album Signora Bovary, pubblicato nell’ormai lontano 1987 ma di una potenza espressiva e di una efficacia poetica tali da rendere in realtà la maggior parte di quei brani attualissimi.
soffiasse davvero quel vento di scirocco
e arrivasse ogni giorno per spingerci a guardare
dietro alla faccia abusata delle cose,
nei labirinti oscuri della case,
dietro allo specchio segreto d’ogni viso,
dentro di noi...
Il disco inizia con Scirocco: più che una canzone è una vera sequenza cinematografica. Di questo mirabile piano sequenza Guccini è regista ma non sceneggiatore. La sceneggiatura è della vita. Sì, perché questo racconto (Jannacci avrebbe detto “questa non è una canzone… è un’opera”) è sceneggiato dalla vita, visto che si rifà ad una vicenda vera e a personaggi realmente esistiti.
Il racconto, con i suoi tre protagonisti principali, è ambientato nel centro di Bologna, in via dei Giudei volavan velieri come in un porto canale, in un’atmosfera rarefatta (le strade erano piene di quel lucido scirocco) sapientemente resa dall’ossimoro che trasforma il più umido e sabbioso dei venti associandolo all’aggettivo lucido. In un gioco di descrizione prospettica di chiara impronta pirandelliana, Guccini ricorda di un mancato incontro con il poeta Adriano Spatola, intravisto dietro al vetro di un bar impersonale, / seduto a un tavolo da poeta francese, che avrebbe voluto raggiungere per stare assieme a bere / e a chiacchierare di nubi.
Questa l’ambientazione e il preambolo. Va subito detto che nella prima canzone di questo album si percepiscono molte delle trasformazioni stilistiche del maestro bolognese. Alcune delle novità sono da attribuire alle contaminazioni musicali dato che in questo disco troviamo artisti di vecchia frequentazione ma anche di relativa nuova collaborazione. La scelta per questo brano di avvio della milonga, impensabile solo pochi anni prima nella essenzialità della cifra musicale di Guccini, la dice lunga sulla presenza di Flacco Biondini tra i musicisti che impreziosiscono il disco.
L’ambientazione musicale spinge decisamente sulle atmosfere struggenti che si creano, soprattutto per le sonorità della tipica fisarmonica del tango, il bandoneon, fatto vibrare dalle dita sapienti di Juan Josè Mosalini. Così la musica è già racconto, ricco di sfumature e di sottolineature, di pause riflessive e di accelerazioni emotive e questa competenza musicale arriva diritta al cuore attraverso i circuiti del sistema limbico.
Dicevamo che al tavolo da poeta francese Guccini vede Adriano Spatola, il poeta che “per sua stessa ammissione viveva sotto una campana di vetro, viveva di e per la poesia, con l’illusione che se egli vi si fosse dedicato anima e corpo, tutto il resto, di conseguenza, si sarebbe sistemato da solo”. A descriverlo così è la terza protagonista di questo racconto musicato, Giulia Niccolai. Anche lei poetessa, fu la sua compagna per più di un decennio.
Nel bar di Bologna, dove Guccini propone l’ambientazione di questo racconto poetico, la loro storia è all’epilogo, come viene sottolineato magistralmente da un ritmo musicale che integra e completa la narrazione delle parole. Mentre il protagonista narrante esita nell’entrare all’interno del bar, ecco che, con plasticità teatrale, la protagonista femminile sopraggiunge affrettata danzando nella rosa / di un abito di percalle che le fasciava i fianchi. È come se nel sottofondo dello scirocco si venga a creare il mulinello di un turbine di vento. Ed è come se l’atteggiamento placido del poeta seduto di fronte al suo calice di rosso venisse sovvertito da quell’irruzione di energia, che egli cerca inutilmente di arginare o assorbire. Con la nota maestria descrittiva Guccini in poche pennellate propone il rabbioso sgomento, rappresentato dalle lacrime che si uniscono al latte del tè, di lei che non si vuole arrendere come dicono le mani che disegnavano sogni e certezze, e nel contempo l’impasse di lui che rimane inchiodato fra lei e quell’altra che non sapevi lasciare. Naturalmente Guccini non trascura nessun particolare e legge negli occhi e nelle preoccupazioni dell’amico poeta, altri protagonisti, non certo comprimari, anche se non compaiono sulla scena della canzone. L’altra che ha suscitato il nuovo amore che scompagina la relazione preesistente, non solo sentimentale ma anche poetica e professionale, e poi i figli che rappresentano l’altra polarità etica nel dramma del distacco.
Il culmine del racconto è nell’uscita dal bar e dalla scena di lei che comprende i termini della situazione e con una adeguata dose di risentito orgoglio non intende elemosinare nulla. Ed è ancora il vento che sospinge e sostiene riempiendo di ricordi impossibili, / di confusione e immagini. Guccini da abile regista spegne la sua macchina da presa lasciando aperto il finale, affidandolo alla fantasia di chi ascolta. Dichiara di non sapere dove lei sia finita e dà pochi cenni della routine di lui, infine rimasto solo. Auspica, in una considerazione piena di nostalgia, la presenza di quel benefico vento di scirocco per spingerci a guardare / dietro alla faccia abusata delle cose / (...) / dentro di noi. In realtà Adriano Spatola morirà solo un anno dopo la pubblicazione del disco di Guccini; Giulia Niccolai finirà per rifugiarsi in India dove divenne monaca buddista.
Le vicende di queste due persone ed anche l’amicizia tra il cantautore bolognese e Spatola sono un puro pretesto. La canzone racconta qualcosa di più profondo: la circolarità dell’amore e l’evidenza che il flusso bidirezionale dei legami d’amore non può bastare se non è suffragato da un terzo flusso che è quello dell’amore verso se stessi. Ed è per questo che quando un amore si impantana la sensazione che proviamo è quella che si spezzi qualcosa dentro di noi ancor prima e ancor più che nel rapporto con gli altri. Lei vola via non si sa dove, lui rimane come chi non sa proprio cosa fare, inchiodato alla sua routine.
Neanche il tempo di riprendersi da questo brano così denso e così pieno di vita che arriva il secondo, talmente potente da lasciare sospesi. Sospesi dall’effetto della ripetizione anaforica della domanda: ma che cosa c’è? Questa Signora Bovary, molto poco francese e molto emiliana, è un vero capolavoro che ci porta a confrontarci con il tema della ricerca di un senso. Ma che cosa c’è? Cosa c’è in fondo a questa notte / quando l’ora del lupo guaisce / e il nuovo giorno non arriva mai, mai. L'interpretazione forse più scontata può essere quella della notte che raffigura la morte. Sì una riflessione sullo sgomento che può cogliere quando ci troviamo a fare bilanci conclusivi. Ma a guardare bene probabilmente la morte con la quale dobbiamo fare i conti è quella dei quotidiani inferni. La declinazione degli scenari più difficili da affrontare è completa ed efficace. Il senso di solitudine, lo sfilacciarsi delle relazioni, anche quelle più profonde, la ricerca attraverso il vagare attraverso atrii a piastrelle di stazioni secondarie e lungo strade più strade di avventure solitarie, fino ad arrivare alla maschera clownesca di un Joker tutto italiano e poco hollywoodiano, con le sue valigie vuote / piene di trucchi per tragedie immaginarie…
Posta così, sembrerebbe una canzona “disperante”, dal messaggio che affossa. In realtà Guccini, con la sua potente capacità di chiamare le cose con il loro nome, rappresenta il significato profondo della ricerca di un senso, in contrapposizione alle facili verità e agli adattamenti comodi. Nella chiusa finale il citare la protagonista del celeberrimo romanzo di Flaubert c’è probabilmente un accenno alla reiterazione dei comportamenti, a quella che in psicologia viene definita “coazione a ripetere” gli schemi disfunzionali o funzionali che siano. Gli assassini e gli avventurieri sono le presenze con cui Madame Bovary colma i suoi vuoti, il suo bisogno di riempire una vita altrimenti insoddisfacente.
Ma è qui che Guccini riapre ad una visione non disperata, dal momento che la ricerca continua: Signora Bovary, coraggio, pure / tra gli assassini e gli avventurieri / in fondo a quest’oggi c’è ancora la notte / in fondo alla notte c’è ancora, c’è ancora. In fondo alla notte c’è ancora: il cercare. Con la necessità di prendere consapevolezza e abbandonare gli schemi di funzionamento che non portano a nulla, gli orpelli di una vita apparentemente tranquilla ma non piena. In fondo alla notte riecheggia nuovamente la stessa domanda: ma che cosa c’è?
La proposta di Guccini nella ricerca degli elementi del distacco e del giusto distanziamento passa da un altra figura, storicamente esistita. Van Loon è il titolo del terzo brano di quest’album e lo stesso Guccini descrive il personaggio che dà titolo alla canzone: “era un olandese (o un fiammingo, non ricordo bene) divulgatore di storia, geografia e umanità varia”. Lo stesso Guccini rivela che il riferimento è un artificio, poiché la canzone è di fatto dedicata al padre “che leggeva le opere di questo Piero Angela dei suoi tempi, cioè gli anni ’30”. Gli scritti di questo olandese “si trovavano di frequente nelle case di chi, come mio padre, aveva molti interessi ma non aveva avuto l’occasione e i soldi per studiare”. Ecco che la canzone è un personalissimo spaccato che ricostruisce il dinamismo del rapporto tra generazioni, come spiega sempre l’Autore: “uno scrittore della generazione dei nostri padri: io l’ho identificato con quella generazione che da giovane pensi fatta di perdenti. Ma crescendo ti accorgi che tuo padre non era un perdente, era semplicemente uno costretto a vivere così. Da giovani si pensa che mai si scenderà a compromessi, che nessuno potrà costringerci. Col tempo si cambia idea. [...] Più l’età si allunga e più capisci quei padri che anni prima avevi rifiutato o combattuto, soprattutto perché le loro sconfitte sono diventate poi anche le tue e così le piccole, tempo prima non riconoscibili, vittorie”.
La canzone racconta il distacco dal pregiudizio giovanile di sapere esattamente tutto sulle figure paterne (o materne). Guccini nella impersonificazione del padre con il giornalista a lui caro esprime un chiaro giudizio sulla propria presunzione di giovane. È solo col tempo che si riesce a dare contorni più nitidi e un po’ più veritieri.
Van Loon viveva e io lo credevo morto / o, peggio, inutile, solo per la distanza / fra i suoi miti diversi e la mia giovinezza e superbia d’allora / la mia ignoranza.
La riflessione che si sviluppa nel divenire della canzone porta a rivalutare intanto le conoscenze sul mondo del padre, mediate dalla divulgazione del giornalista olandese, ma soprattutto la saggezza concreta di chi vive a contatto con una natura esaustiva, senza sovrastrutture tanto complesse quanto a volte poco utili. Alla fine Guccini arriva alla piena rivalutazione del genitore, ormai giunto a completamento del suo corso di vita: vai, vecchio, vai / non temere, che avrà una sua ragione / ognuno ed una giustificazione / anche se quale non sapremo mai, mai. E chiude il cerchio, per un congedo rasserenato dal padre, accompagnandolo all’appuntamento con l’infinito attraverso l’immagine di lui che cammina sulla neve dell’appennino tosco-emiliano con le scarpe chiodate dei suoi diciotto anni.
Questa canzone non è certo tra le più note per il grande pubblico. Guccini ha avuto modo di raccontare come non gli sia mai riuscito di inserirla nella scaletta dei suoi concerti per il forte coinvolgimento emotivo che lo assale quando la canta e per questo ha sempre scelto di non piangere in pubblico.
Ed eccoci arrivati al bandolo della matassa, al brano che mi ha portato a scegliere questo album per parlare di distacco, di perdita, di trasformazione: Keaton.
Il Maestrone bolognese dichiara subito la paternità della storia. Non è suo il soggetto, bensì del suo amico Claudio Lolli, tormentato poeta di quegli anni settanta che fanno da sfondo alla storia. Keaton è un musicista, si potrebbe dire un musicista vero (Keaton si presentò come un jazzista / appassionato e puro, in stile Rete Tre / coi pregiudizi di chi si sente artista / perché non faceva soldi, lui, con le canzoni, come me). È la storia di un incontro e di una perdita tra due acrobati della malinconia, una storia che inizia tra le note jazz, l’avorio consumato di certe tastiere, la musica come impegno civile e finisce in una provincia lontana come una palude, dove la musica è solo il volo delle zanzare. Dopo tante vicende di condivisione e di alti e bassi, nel segno più di una differenza caratteriale che non nella similitudine, l’io narrante di questa storia, densa e ricca come solo l’amicizia vera sa costruire, non si rassegna alla sparizione dell’amico artista che si era meritato il soprannome di Keaton, naturalmente perché non sorrideva mai. La ricerca diventa persino spasmodica. Ed è in quella provincia che suona come una sconfitta che avviene il ricongiungimento. È lì che si compie il distacco, l’accettazione che ci porta a vedere gli eventi, gli incontri, le storie in una prospettiva che non è cristallizzata. Siamo destinati alle trasformazioni. La vita col suo scorrere ci induce ad un adattamento che non è mai certo nell’esito. E non è detto che i finali siano quelli da noi auspicati: e nel lasciarmi all’inizio della sera / è come, dice, alla fine del cinema muto / c’è il sonoro, non serve una tastiera / ci salutiamo nel silenzio più assoluto.
Ed è la metafora del cinema muto che chiude in un finale, persino epico. Guccini chiude il cerchio in una sovrapposizione veramente poetica: Keaton, quello vero, l’ultima volta che lo hanno visto passeggiava... Non è un semplice soprannome, è un destino, una profezia che si auto-avvera. Se per il Keaton musicista, dimenticato il jazz, ci son parole, tempi e ritmi anche dentro un ospedale, per il Keaton vero, il cineasta geniale, che teneva grandemente al suo pubblico, gli elettricisti di Cinecittà sono gente simpatica.
A Claudio Lolli non era riuscito di pubblicare questa ballata di commovente poesia per la sua lunghezza; fu per questo che Guccini gli chiese il permesso di rimaneggiarla e di trasformarla in un’opera (sempre nell’accezione di Enzo Jannacci) di soli dieci minuti.
L’ascolto in cuffia, nell’edizione originale, è d’obbligo per apprezzare la maestria alle tastiere di Vince Tempera.
Vi ho parlato di quattro dei sette brani di questo disco a mio avviso fondamentale nella parabola del cantautore bolognese, naturalmente al buon cuore di chi legge la scelta se completare l’ascolto. Anche negli altri tre le acrobazie sullo stato d’animo della malinconia fanno da filo rosso con dei contrappassi di intuizione mirabile, come nel far seguire alla canzone sul padre, Van Loon, quella sulla propria figlia, Culodritto; anche qui il soprannome fa da da cartina tornasole.
Il senso profondo della mia scelta è quello di proporre, attraverso la straordinaria capacità di Guccini di raccontare storie, una chiave di lettura che tenga lontano il pregiudizio e l’aspettativa che l’essere umano rimanga fermo e aggrappato a ciò che esperisce e ciò che gusta. La vita ci porta ad evolvere, a trasformarci, a perdere, a ritrovare ma nella trasformazione, ad abbandonare, a lasciar andare, a morire a noi stessi, a ritrovarci in uno sguardo diverso, sempre più autentico e consapevole. In questo i distacchi e le morti quotidiane assumono il poetico senso della trasformazione, nella capacità di vedere attraverso prospettive sempre rinnovate e vivificanti.
Bibliografia
Giulia Niccolai, Esoterico Biliardo, Archinto, Milano 2001.
Massimo Cotto, Francesco Guccini. Un altro giorno è andato; Giunti Editore, Firenze, 2001.
Paolo Jachia, Francesco Guccini, Editori Riuniti, Roma 2002, p. 145.
Federico Pistone, Gli 80 anni di Francesco Guccini. La sua storia (e la nostra) in 20 canzoni, Corriere della Sera, 13 giugno 2020.
Paolo Maria Manzalini (Napoli 1963) medico, psicologo clinico, psicoterapeuta si occupa di cura e riabilitazione psichiatrica dal 1992, prima in contesti residenziali e da dieci anni in contesti territoriali. Attualmente Responsabile della Struttura Semplice dell’Area Territoriale Psichiatrica della ASST di Vimercate. Promotore con l’Equipe del CPS di Vimercate della rassegna Far Rumore – Azioni per la salute mentale. Da sempre attento alla parola come fondamento dell’incontro e della comunicazione tra gli umani, negli ultimi cinque anni ha ripreso ad approfondire l’espressione teatrale e ha preso parte alla edizione 2017-18 del Corso di TeatroPoesia condotto da Domenico Bulfaro presso il Teatro Binario 7 di Monza. Responsabile Comitato Scientifico di Lì sei vero – Festival Nazionale di Teatro e Disabilità.
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