Un dialogo che svela non solo le fragilità di Francesca ma anche il suo coraggio nel trasformare queste fragilità in forza, esprimendole e dichiarandole in poesia. E ancora con coraggio parla del suicidio, senza mezzi termini ma nel contempo con delicatezza perché c’è bisogno, anche, di dare carezze al proprio dolore.
Mi sono sempre accostato a Francesca con delicatezza e quasi con timore. Fino dal 2013, quando iniziammo il corso di teatropoesia di Dome insieme e non ci conoscevamo, si coglieva in lei una fragilità. Col tempo e con la conoscenza questa qualità si è chiarita, si è definita e ha preso corpo. E con esso si è svelato anche il compagno di questa fragilità: il coraggio.
La storia di Francesca è fatta di salite e precipizi, ma l’aspetto costante è che la poesia si è affacciata in questa storia fin da subito, tanto che possiamo farne la terza compagna sul ring della vita di Francesca.
Da poco è uscito il libro che raccoglie i suoi testi più importanti. Il testo si chiama La tela ed è come un mettere un punto allo status quo fino ad ora: chi era Francesca, chi è diventata e cosa ha scritto finora. Una carta d’identità, ma dinamica. Come un’opera d’arte, Francesca dipinge dettaglio dopo dettaglio con segni forti, chiari, con toni accesi, generosi. E il dipinto non è finito, naturalmente. Ma ci viene consentito di dare uno sguardo nell’opera.
Fragilità e coraggio in poesia sono due ingredienti fondamentali. E già nell’articolo apparso su questa rivista nel gennaio 2024 si può cogliere la sua verve, la sua voglia di lottare, dentro un Io frammentato e sofferente.
Ecco allora che con alcune domande le ho chiesto di sviscerare il tema del lutto, della perdita, del suicidio. Seguendo il filo del titolo del suo libro, direi così: il vuoto prende colore, eccolo.
GN: Un tema dei tuoi testi è il lutto: ti riferisci a una perdita in particolare o allarghi il cerchio ad altro?
FA: Entrambe le cose. Ci sono un paio di poesie dedicate a mia nonna Iolanda, scomparsa a marzo 2024: è stata la prima nonna ad andarsene (ho avuto la fortuna di avere tutti e quattro i nonni per tutta la mia infanzia e adolescenza) e, nonostante la diagnosi di demenza senile avvenuta anni prima, è peggiorata velocemente al punto che ho dovuto mollare tutto per raggiungerla con l’aereo a Manduria (TA) per riuscire a darle almeno un ultimo saluto e un abbraccio. Io non andavo d’accordo con nonna Iolanda, eravamo diverse, lei mi voleva molto bene ma ha sempre avuto un carattere duro e a tratti distante. Penso siano così i rapporti umani, ci si trova e non ci si trova, a volte in più occasioni nell’arco di una giornata. Iolanda da anni stava perdendo progressivamente la memoria e la capacità di essere autonoma, ero andata a trovarla l’anno precedente alla sua morte per constatare che era come tornata a essere una bambina piccola, accudita in tutto dal marito, il nonno Teofilo, che ormai stava, come noi, accusando il colpo. Quindi posso dire che è stata per la nonna una conclusione quasi felice, siamo riusciti tutti a salutarla, anche mio papà e mia zia, e alla fine ha anche avuto un funerale in chiesa, nonostante il divieto legato alla Settimana Santa, grazie al prete che disse che una donna come lei lo meritava. Il testo poetico contenuto ne La Tela che rappresenta meglio questa perdita è Avevo già la Luna e Urano nel Leone, lì dico tutto e non trattengo nulla. Ho sempre odiato il tabù sulla morte e la convenzione sociale per cui bisogna sempre esaltare il proprio rapporto con la persona defunta. Ho detto solo le verità, in versi.
Un altro lutto che mi ha segnata è stato senz’altro quello dello zio Silvio, avvenuto quando avevo nove anni, i cui echi si ritrovano non solo in alcune poesie, ma anche nella maggior parte dei flussi di coscienza e, in generale, in tutta l’opera. La sua morte è stata per me evento catalizzatore e necessario per la nascita di questa raccolta. Ero piccola e nel giorno della sua dipartita ero a casa sua (appartamento accanto a quello dei miei nonni materni), ho assistito di persona all’intervento dei paramedici che gli praticavano un massaggio cardiaco, prima che il nonno se ne accorgesse e mi portasse subito in un’altra stanza. Un’immagine che non dimenticherò mai: lui con petto e braccia nude e la bocca semiaperta, inerte, e i medici che spingono – per me novenne – “picchiano” il petto di Silvio. Da quel giorno ho capito che volevo aiutare le persone. Che dovevo. Che i medici angeli che avevano cercato di aiutare mio zio dovevano assolutamente essere il modello a cui aspirare: pensieri forti per una bambina di soli nove anni. Ho tentato, con l’appoggio della mia famiglia, di avvicinarmi alle materie scientifiche, fallendo poi clamorosamente. Ero sicura che sarei diventata medica, ma poi così non è stato. Questo apparente fallimento mi perseguitò per anni e minò gravemente la mia autostima, mi sentii come se avessi tradito la memoria dello zio. Poi scoprii la poesiaterapia e tutto cambiò.
Ma allo stesso tempo, dire che ne La Tela parlo solo di morte, sarebbe riduttivo; infatti, tocco profondamente anche il tema della perdita della mia felicità e dei miei partner romantici e in alcuni casi di amici, i cosiddetti “mini lutti”. Tante persone nella mia vita mi hanno deluso o se ne sono andate o, ancora, mi hanno costretta ad andarmene per salvarmi da una situazione malsana. Poi c’è il lutto per la me stessa piccola piccola, pre elementari, che era felice, di cui mi rimangono schegge confuse di emozioni che non riesco a ricordare. La sua felicità, ormai irrecuperabile, mi manca sempre, spesso, profondamente.
GN: Suicidio è un altro tema forte. Vuoi raccontare come hai vissuto questo momento della tua vita?
FA: Suicidio non è sintomo di debolezza ma di troppo amore per la vita, amore per una vita e una versione di se stessi idealizzata, che si capisce, un giorno, che non si raggiungerà mai. Allora si sceglie di “alzarsi dal banchetto dal quale ormai si è nauseati” (parafrasando liberamente Seneca). Posso dire che la vita sia degna di essere vissuta, anche se si fallisce, anche se si soffre, ma non giudico chi decide di andarsene e porta fino in fondo il desiderio di smettere di provare quel costante, immenso dolore. Io posso dire, per la mia esperienza, che vivere ogni giorno con pensieri suicidari sia una delle cose più difficili in assoluto, soprattutto perché ci si sente soli, sempre, sempre, enormemente soli. Nessuno capisce perché metti sempre gli stessi vestiti, perché fai fatica a lavarti, perché non mangi o mangi in continuazione, perché crolli addormentato tutto il pomeriggio e la notte fissi il soffitto con gli occhi rossi. Avere una parte di te che, costantemente, ti sussurra all’orecchio tutti i modi e i motivi per suicidarti è un paradosso impossibile da comprendere per chi non l’ha vissuto. Ciò che vedono gli altri è solo mancanza di energia e non perdono occasione per ricordartelo. Come mai non fai questo e quello, come mai non lo fai bene, abbastanza o abbastanza spesso. Per questo, ero arrivata a prendere tutte quelle pastiglie che poi, però, ho deciso di vomitare. Amavo una vita che non c’era, persone che non c’erano. Avevo solo e soltanto un incommensurabile paura della vita e delle persone che, invece, c’erano, anche di me stessa.
E si è ancora più soli quando non si trova il terapeuta giusto, che minimizza o addirittura colpevolizza e, allora, si impara a cacciare tutto sotto il tappeto, tanto non si viene ascoltati nemmeno da chi dovrebbe, quindi perché anche solo tentare di dare voce alla propria sofferenza? O ancora, pensare che forse hanno ragione loro ed è tutto nella mia testa e non esiste. Si impara a continuare a rispondere che si sta bene, finché corpo e mente esplodono.
Penso che il suicidio sia ancora un grandissimo tabù perché la società think-positivista, ottimista a tutti i costi, positiva a livelli estremamente tossici non vuole fare i conti col fatto che potrebbe, teoricamente, succedere a chiunque di svegliarsi una mattina con quella vocina nella testa che gli dice di autodistruggersi e quella vocina, potrebbe non andarsene mai via.
GN: Al cuore di tutto poi sta la morte, questa grande “cosa”… come l’hai presa? Poeticamente? Come si può dire la morte in versi?
FA: Penso che nell’arte, in versi, si possa dire tutto ciò che nella vita non ci è concesso. Già “sta male” dire che qualcuno sia morto, no, bisogna usare sempre un eufemismo. Ritengo che la morte nella poesia debba essere lo schiaffo in faccia che realmente è, un pugno nello stomaco, non bisogna mandarle a dire, nella poesia, se si soffre e quanto si soffre. Certo, non dico che sia vietato un approccio più delicato o dolce, ma mi preme che sia vero, nella poesia. Se per qualcuno la perdita di una persona cara è stata un accompagnamento verso l’alto, magari un alto pieno di stelle, buon per loro, ma vorrei che allora la poesia che ne risulta sia veritiera, anche in questo. Non bisogna avere paura di dire la verità, di sembrare maleducati o troppo schietti quando si scrive una poesia, perché alla fine la morte è per ognuno una verità diversa: è la tua personale verità che si trasforma in versi e ognuno ha diritto a esprimerla. Non c’è spazio per la falsità o le costrizioni sociali nella poesia, solo umanità forte e autentica, anche nella morte e nel lutto.
Personalmente, ho preso la morte come una grande vergogna sublimata nella poesia. Vergogna di non avere più un vestito che mi coprisse, vergogna di non essere mai stata abbastanza vicina a chi se n’è andato, ma il filo spinato della vergogna dal mio cuore si è avvolto intorno alla penna e al foglio e infine al libro. Il vuoto nero del lutto va evacuato ogni giorno dalla nostra anima e credo che in questo la poesia aiuti immensamente, senza preoccuparsi di scrivere bene dal punto di vista estetico. A chi sta leggendo questo articolo direi: non avere paura, butta giù tutto come la pioggia di aprile che porta i fiori di maggio (come dicono proverbialmente gli anglosassoni).
GN: I traumi che hai descritto lasciano in chi li vive ferite laceranti. Non tutti riescono a mettere in parole quello che vivono. Come sei arrivata alla poesiaterapia? E come ti ha aiutato?
FA: Per caso. È iniziato tutto dall’incontro con Domenico Bulfaro. Mia madre scopre grazie ai social che ci sarà un poetry slam vicino a casa nostra, noi non sapevamo neanche cosa fosse, e decide di portarmi. L’abbiamo salutato a fine evento e poi abbiamo scoperto che organizzava corsi di teatropoesia al Teatro Binario 7 a Monza e ci siamo iscritte. Da lì è iniziato il contatto anche con la poesiaterapia. La prima esperienza devo dire che è stata quella con la poesia kintsugi e in particolare con un esercizio legato a Spoon River Antology, dove ci era stato chiesto di immedesimarci in un personaggio e scrivere la sua storia in versi. Questi due esercizi, in particolare l’ultimo, mi hanno fatto capire che il vuoto che avevo dentro potevo buttarlo fuori. Così ho iniziato a scrivere tutti i giorni, soprattutto nei momenti più duri. Il resto è storia.
Alcune poesie dalla raccolta
Fiori verdi blu raccoglierò su quella tomba
Il giorno che hai riempito la mia bocca di sale
Né il mare, né il fiume, né l’oceano
Tanta sete potevano placare
So a memoria tutti i canti del tuo coro
Stoffa e anelli avrei voluto gettare
In fondo al fiume, all’oceano, al mare
Nel giorno è continuo susseguirsi della notte
Luna nuova, nebbia bassa, nuvoloso
Nel vento, per le strade è un timido barlume
Senza mare, né oceano, né fiume.
La verità
È che esplose ogni cosa
Le luci, l’asfalto
Persino le automobili
Il cielo azzurro di piena estate
I muri di un orrido rosa pastello
Ma di fuori tutto,
rimase intatto
Come a prendersi gioco
Di me.
Voglio urlare il mio dolore
A chi odia la mia voce
A chi mi dice che non reagisco
A chi mi vende un “passerà”
A te che non vuoi
E ti farò ascoltare
Voglio urlare il mio dolore
Fin sulle cime degli alberi
Rotolandomi nell’erba
Nelle foglie secche e i fiori
E urlarlo anche a loro
Agli insetti che strisciano nel prato
Voglio urlare il mio dolore
A queste quattro mura
Allo stucco alle pareti
Alle ragnatele negli angoli
Alle macchie di umidità
Voglio urlare il mio dolore
Alla nuvola che passa avanti al sole
Alla pioggia che cade di sbieco
Al raggio di sole distratto sul muro
Voglio urlare il mio dolore
E sì lo urlerò forte
Da scardinare gli atomi.
Luce urbana
dall’abisso
ripesco i pezzi.
I testi sono tratti da La Tela, Provaci ancora Bill editore, Milano 2024
Giacomo Nucci insegna lettere alla scuola secondaria di 1° grado dopo la laurea in Lettere Classiche in Statale di Milano. Dal 2009 fa teatro e dal 2013 teatro-poesia, sotto la guida di Dome Bulfaro. Ha pubblicato una raccolta di poesie, Sabbie e sorgenti, nel 2013 con Steber Edizioni. Dal 2017 è membro del gruppo editoriale e di ricerca Millegru, con cui ha pubblicato Così va molto meglio. Nuove pratiche di Poetry Therapy e con cui pratica poesia ad alta voce, laboratori per bimbi, massaggio poetico con donne incinte e con adulti.
» La sua scheda personale.