Poetry Therapy Italia

07 FOCUS 12 GS

 

Una riflessione che parte dal respiro come confine tra vita e morte ed esplora la paura dell’ignoto rispetto all’unico evento certo nell’esistenza di un essere umano. Un invito a praticare la consapevolezza anche attraverso la parola poetica, che aiuta la meditazione e l’osservazione dei pensieri, come allenamento al passaggio scandito dall’ultimo respiro.

 

Ridere, ridere, ridere ancora,
Ora la guerra paura non fa,
Bruciano nel fuoco le divise la sera,
Brucia nella gola vino a sazietà,
Musica di tamburelli fino all’aurora,
Il soldato che tutta la notte ballò
Vide tra la folla quella nera signora,
Vide che cercava lui e si spaventò.
 
Roberto Vecchioni, Samarcanda, 1997

Questo breve articolo nasce come una riflessione personale, stimolata da diverse letture ed esperienze formative recenti, oltre che da un confronto e un dialogo aperto e rispettoso con chi condivide la necessità di diminuire la diffidenza sul tema della morte, sul suo tempo e il nostro modo di percepirla. Ma è poi diventata una meditazione, un invito a osservare da vicino, con consapevolezza, per cercare risonanza dentro di noi ed essere presenti al nostro pensiero, anche riguardo la nera signora.

Meditare, nella concezione occidentale contemporanea del termine, assume due significati. Il primo, derivante dalla categoria del pensiero filosofico-teologico di matrice greca, poi passata al latino (meditari, da mederi “curare”, raccostato nel significato al greco μελετάω) significa appunto curare, portare attenzione, fissare il pensiero su qualcosa fino a coglierne l’essenza: un riflettere nel senso di piegarsi e tornare in sé, per ben deliberare e prepararsi all’azione.

E, quindi, quale miglior riflessione a precedere l’azione del morire, se non la meditazione? Una domanda retorica che abbraccia anche il secondo significato, questa volta di matrice orientale poi adattato, legato all’attenzione portata all’osservazione di un oggetto o un pensiero, alla piena presenza nel qui e ora, e per estensione uno spazio in cui, secondo Ines Testoni, intercettare la luce di eternità e intuire l’eternità che ci spetta. La meditazione è teoria, pensiero, ma è anche azione, contemplazione, sguardo attento dentro e fuori da noi, capacità di ritagliarsi uno spazio per osservare ciò che supera l’immediatezza della realtà fisica. E la contemplazione è lo sguardo, citando Christian Bobin, con cui possiamo abitare poeticamente il mondo, ritrovando il significato di ogni dettaglio apparentemente insignificante, disinnescando il pilota automatico e rispondendo a quella chiamata alla bontà – sempre secondo Testoni – che la consapevolezza della morte ci offre.

La poesia ci educa alla meditazione, alla contemplazione e, per estensione, alla morte. La poesia, nel suo gioco di pieni e vuoti, parola e silenzio, inspirazione ed espirazione, ricorda la danza tra vita e morte, quel gioco alla pari, quel dialogo ininterrotto tra lo stare sulla soglia e varcarla. E offre uno sguardo consapevole. Ed è forse l’unica che può avvicinarsi alle parole per raccontare la morte, perché poesia è l’anima che si fa parola. La poiesis è l’azione creativa che dà una nuova forma contrapposta all’azione finalizzata, la praxis. È lo stare oltre il fare.  È lo spazio di vera conoscenza, quella che permette di sostare nella paura e ascoltarla, senza rifuggirla o negarla. Lì c’è la conoscenza di noi. L’atteggiamento di presenza che è fondamentale anche quando accompagniamo qualcuno ad attraversare quella soglia, a respirare un’ultima volta, a lasciarsi andare. Una presenza che dovrebbe essere più che mai nel corpo, nel calore, nel contatto, più che nella parola. Nell’esserci.

La paura della morte, la paura derivante dal non sapere, il tentativo di trovare spiegazioni – attraverso concetti definiti nella scienza, nella religione o ispirazioni nell’arte – spesso si fondono con la mancanza delle parole per raccontare la morte. Ogni termine sembra troppo banale e nel contempo troppo rigido e, come un dardo, incrina il nostro vetro, quella più o meno sottile e fragile corazza con cui tentiamo di proteggerci dall’inevitabile, dall’unica certezza del vivere di cui è essenziale prendere consapevolezza, per cogliere appieno il valore della nostra esistenza.

Ines Testoni ricorda come la nostra vita quotidiana e la produttività che la impregna, con azioni finalizzate allo stare nella materia, hanno il solo e unico scopo di mantenere a livello inconscio il discorso sulla morte, senza dedicargli il tempo di narrazione utile e necessario per renderci consapevoli. Il nostro modo di difenderci e “restiamo nel mondo con le pareti, nella fuga dall’inesorabilità della vita che muore, senza accogliere il dono della trasformazione, dell’invisibile continuità di senso, della visione in cui nel pieno dell’essere incontriamo il non-essere e nel cuore del non essere l’essere e essere e non-essere si generano scambievolmente” (Candiani, 11).

Alle volte percorriamo una via, quella della ritualità, della costante ma inconsapevole riflessione sulla morte, tanto fisica quanto spirituale, attraverso prassi sociali e culturali. Da qui, a mio parere, la necessità di riappropriarsi, intenzionalmente, non solo dei riti collettivi ma di cogliere una nostra personale ritualità individuale che dialoghi con la morte in vita, in modo che l’automatismo diventi consapevolezza attraverso l’intercettazione di quella percezione personale di eternità cui accennavo prima.

Ecco il senso di un personale meditare sulla morte che può iniziare osservandola come il varcare la soglia di un istante che è solo un istante del cerchio della vita, un punto di quella circonferenza che è il tempo dell’essere umano nel corpo. Un passaggio, un passo, come i molti che facciamo ogni giorno, un andare altrove da cui siamo spaventati, da cui fuggiamo col pensiero o da cui siamo ossessionati. La ciclicità del “tutto va, tutto torna indietro; eternamente ruota la ruota dell’essere. Tutto muore, tutto torna a fiorire, eternamente corre l’anno dell’essere” (Nietzsche, Così parlò Zarathustra, III, 58). Ritornare ad essere, per onorare la nostra natura.

Perché la tanatofobia, l’angoscia che vive l’uomo rispetto alla morte, è solo dell’uomo. Nessun’altra specie si affanna rispetto alla sua transitorietà e alla sua finitudine – legata peraltro all’evoluzione, alla scoperta di nuove strade e nuovi orizzonti – perché non ne è cosciente. Ma se l’uomo fosse realmente consapevole che il suo divenire “è sempre un morire parziale e continuo” e che “rinunciamo a parte della nostra vita, proprio per procedere in avanti” (Di Nola, 12), forse la paura non troverebbe così tanto spazio e le domande si trasformerebbero in un pacato accogliere.

 

La morte è la curva della strada,
morire è solo non essere visto.
Se ascolto, sento i tuoi passi
esistere come io esisto.
La terra è fatta di cielo.
Non ha nido la menzogna.
Mai nessuno s’è smarrito.
Tutto è verità e passaggio.
Fernando Pessoa

La curva, l’angolo cieco, ciò che non si vede e non si prevede, ma comunque, si sa. Accettare la caducità della condizione umana è quanto di più complesso e difficile, soprattutto nel mondo contemporaneo, nell’occidente contemporaneo. Non siamo abituati al dolore, non siamo abituati alla vecchiaia, non siamo abituati alla morte. E non vogliamo abituarci. Tutto ciò che la riguarda, in qualsiasi ambito, viene prontamente segregato, come una vergogna, come un delitto, come una bugia. Se la morte è un tabù, allora dovrebbe esserlo anche la vita. Ma sappiamo bene che non è così, perché “la vita è vastissima e si chiama anche morte” (Candiani, 86). Lo sguardo contemplativo di Bobin, con la tenera ingenuità che caratterizza l’azzurro del suo cielo, si interroga sul perché due termini diversi per indicare i due lati di uno stesso specchio, perché due parole per esprimere quell’unico bagliore? E allora osservare il buio e la luce che vivono in noi, e che vivono fuori di noi, con compassione, riconoscendo quella sofferenza condivisa per una condizione universale, diventa una pratica di ancoraggio, diventa un modo di conoscere. E conoscere è l’antidoto alla fuga dalla paura. È proprio la trasmutazione del buio – convenzionalmente, folkloristicamente, culturalmente nel mondo occidentale associato alla morte – il processo di conoscenza e di consapevolezza che permette di scorgerne una scintilla salvifica, un’opportunità. E lo spazio-tempo in cui attuare questa consapevolezza non può che essere quello della vita, che si esperisce un giorno alla volta.

Si impara a vivere quando si impara a morire.
Alda Merini

Già Seneca, in diversi scritti, dalle Lettere a Lucilio a Sulla brevità della vita, aveva concluso come l’uomo affronti una morte costante e quotidiana, che corrisponde al passare degli anni; cresciamo noi e decresce la vita. Ed è proprio nel vivere che il filosofo dice di coltivare l’esperienza per imparare a morire, come molti poeti e pensatori dopo di lui. Se è vero che impariamo attraverso l’esperienza, infatti, morire non è qualcosa di cui possiamo fare esperienza nel senso letterale della parola – escludendo alcuni rari casi di NDE, Near Death Experience – possiamo però considerare la vita come una costante opportunità di allenamento alla morte. Proprio a partire dal nostro respiro, che in moto continuo e perpetuo ci ricorda come il confine – “dove nasce o dove viene visibile o palpabile quello che distingue una cosa da un’altra, il confine è la premessa per l’incontro” (Ørstavik) – è nel respiro, quello a cui tornare quando la paura di ciò che non conosciamo ma che fa parte di noi più di ogni altro aspetto della vita – la morte – ci impedisce la vita autentica.

Proprio nel “vivere il buio come fosse luce” (Candiani, 85) si apre un nuovo orizzonte, una nuova visione e una nuova narrazione possibile della morte. Che diventa opportunità, alla stregua della vita. Perché ne è complemento e polarità. Perché ne è estensione ed esaltazione.

Al pari della parola, poetica e non, al pari dell’immagine, metaforica e non, il silenzio e il vuoto sono spazio di consapevolezza. E forse proprio superare il timore del silenzio e del vuoto permette di aumentare la confidenza e diminuire la paura verso la morte. Il non fare, il riposo, il silenzio, l’inverno del corpo e della mente – a cui non siamo né abituati né educati come occidentali – è uno stato ideale per familiarizzare con la morte. Laddove cerco il movimento, riporto la stasi. Laddove cerco la produttività, riporto il riposo. Laddove cerco una spiegazione, riporto il riconoscimento. E la meditazione, l’osservazione profonda della natura, delle cose così come sono, oltre la mera accettazione, ma nell’accoglienza, è uno stato che allena all’essere e al non-fare. E’ un atto che allena alla vita così come alla morte. 

Perché se conosciamo il nostro traguardo ultimo dell’esistere umano – inteso come punto di arrivo ma anche nuovo inizio – possiamo allenarci al meglio: vivendo pienamente la vita per riuscire a vivere pienamente la morte, non avendo paura della vita per riuscire a non avere paura della morte, accogliendo la vita per riuscire ad accogliere la morte, non solo come fenomeno astratto, concetto filosofico, condizione connaturata, ma come esperienza.

Esperire la vita significa poter esperire la morte. E nel cogliere con pienezza il singolo giorno, il momento presente – proprio come ci allena a fare la meditazione – possiamo esperire con più vigore la vita e forse dirci pronti a vivere la morte. Ma questa può solo essere un’ipotesi, di cui ciascuno e ciascuna di noi troverà verifica in quel momento. 

Ciascuno muore a modo suo e nessuno ci insegna a farlo. La scelta di prepararci è individuale e non sindacabile, ma possibile: meditare, contemplare, respirare, vivere e un giorno morire. Sempre riconoscendoci mentre lo facciamo.

La riflessione sulla morte è un atto d’amore verso di noi, per trovare la scintilla che nel buio ci permetta di non fuggire, di non spaventarci, di conoscere e di riconoscerci in una condizione universale, in una dimensione umana che è nel contempo individuale e personale.

Meditare sulla morte è respirare, chiedendosi: Che seme voglio piantare per una prossima primavera? E poi vivere di conseguenza.

 

Bibliografia

Bobin, C. (2019) Abitare poeticamente il mondo/Le plâtrier siffleur. AnimaMundi.
Candiani, C. (2024). I visitatori celesti. Einaudi.
Ørstavik, H. (2023). “Il confine è dove capisci che le cose son legate. Intervista a Hanne Ørstavik a cura di Nicolò Saverio Centemero”. Forward, 29, pp. 43-45, forward.recentiprogressi.it
Di Nola, A.M. (2001). La nera signora. Antropologia della morte del lutto. Newton & Compton.
Testoni, I. (2015). L’ultima nascita. Psicologia del morire e Death Education. Bollati Boringhieri.

 

 

 


 

Giulia Tosolini

Giulia Tosolini  è vicedirettrice e referente internazionale della rivista Poetry Therapy Italia.
Nata e cresciuta a Udine dove si è formata e ha conseguito il Dottorato in Scienze Linguistiche e Letterarie; fino al 2022 ha coniugato la didattica e la ricerca accademica. Si occupa di insegnamento delle lingue straniere agli adulti, lifelong learning, approccio esperienziale alla didattica e lavora con la parola consapevole come strumento di benessere attraverso progetti personali e numerose collaborazioni nazionali e internazionali con professionisti degli ambiti sanitari, educativi e umanistici.
Facilitatrice in Poesiaterapia di primo livello e in formazione continua – attualmente frequenta un master in Meditazione e Neuroscienze –, si definisce un’esploratrice di mondi e parole.


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