Vivere la morte della propria madre dovendola fronteggiare quando si è messi davanti al responso medico, durante il traghettamento e nel dopo. C’è chi, di questo evento, riesce a farne - pur nel dolore - esperienza plasmante. La poesiaterapia rappresenta, in tal senso, la preziosità d’una mano che carezza e sorregge le spalle quando queste s’incurvano. L’articolo che segue è una testimonianza di come l’uso terapeutico della parola poetica possa aiutare ad alzare lo sguardo e a riprendere il cammino.
Silenzio a ogni fase: sentirmi domandare dal medico “Avrà due o tre giorni di vita: la ricovera o la porta a casa?”, sentirmi rispondere: “A casa”. E poi – sgomenta – ascoltarmi tacere; andare verso di lei in silenzio, muovendomi piano per non disturbare neppure l’aria; nel silenzio della camera restare seduta in veglia accanto a lei e far fruttare il poco tempo rimasto, per rielaborare; accudire il respiro che, giunto al termine, non fa più rumore; infine rendere il post mortem al silenzio, perché la parola di chi resta ha abdicato. La parola proferita, non quella scritta.
Aveva 96 anni, mia madre, il 9 luglio 2023, giorno della sua morte. Un bel traguardo, mi sono sentita spesso dire. Senza dubbio la longevità dà un senso al dolore, ma non è sufficiente, per tutto ciò che implica un rapporto madre-figlia, soprattutto se la prima è affetta da malattia psichica.
La parola proferita ha abdicato, ho detto, ma non quella scritta. E di abdicazione debbo parlare anche riferendomi al lungo periodo precedente gli ultimi giorni di vita di mia madre: quando cercavo una cura psichiatrica per lei. Mi sono trovata in faccia alla sua pazzia e ho dovuto governare la mia paura: lei era divenuta altro da sé e, all’interno di me stessa, supplicavo che tornasse quella di prima. Così come, successivamente, ho avuto paura di affrontare il passaggio dalla – pur folle – vita alla morte.
Nel ricordo, morte e follia per me si fondono tragicamente.
La parola scritta è uscita copiosamente dal mio silenzio, supplice e affranta e spaventata, colma di rabbia e nel contempo di rassegnazione. Parola che – in forma di versi – ha raccontato la morsa della paura e il tempo che scorreva inesorabile verso la fine, senza che mi fosse dato conoscere l’istante in cui mia madre se ne sarebbe andata. In quei momenti il passato e il presente coesistevano, mentre il futuro era in attesa di uno spazio ottriato.
La osservavo mentre respirava, gli occhi semiaperti. Le prendevo la mano, la carezzavo, le parlavo, le deponevo baci leggeri sulla guancia e sulle mani. Non reagiva. A volte sembrava arrestarsi: credevo che stesse spirando, poi si riprendeva. È sconvolgente osservare come la vita fatichi ad andarsene, a staccarsi dal corpo: non si rassegna.
Poi c’è stato il momento della dispersione delle ceneri nel cinerario comune del cimitero, come mia madre aveva disposto. È stato uno scombussolamento constatare che un’intera vita, che tutto ciò che lei è stata, che ha sofferto e amato si sono ridotti a un sacchetto di cenere.
L’ho preso, quel sacchetto. Ignara delle norme, ho immerso la mano destra (quella con la quale tenevo la mano di mia madre, durante i nostri ultimi giorni insieme) nella cenere e sono stata subito fermata dall’addetto. Un privilegio, questa mia non pianificata trasgressione. Poi ho rovesciato il contenuto del sacchetto, piano piano, nel cinerario comune: un nome altisonante per indicare una buca buia che contiene infinite ceneri.
Che cosa ha rappresentato, per me, la corposa silloge poetica dal titolo #martellamenti, che ho scritto nei giorni della follia (prima parte, intitolata Martellamenti), dell’attesa della morte (seconda, Traghettamento) e del post mortem (terza, Silenzio)? Uno sfogo non fine a se stesso, che ha assunto il valore di cura. È stato un doloroso ma terapeutico rileggere – attraverso la poesia – il passato trascorso con mia madre la quale – lo ricordo perfettamente, da quando ho il lume della ragione – viveva in equilibrio instabile, nutrendosi, e nutrendomi, dello strazio doloroso e del diverso. È stato fare i conti con il macigno di quel passato, con la spaventosa stasi del presente, con un futuro non prefigurabile. È stato, scrivendo, dare cittadinanza all’impotenza e alla rabbia, legittimare la paura, essermi accanto e ripetermi “io ci sono”, come un mantra, per non perdermi e giungere al perdono.
Nella silloge sono riscontrabili alcuni filoni, che la poesiaterapia ha permesso di evidenziare e di inserire nella giusta luce curativa. Filoni riconducibili alla forza di vivere consapevolmente in fieri, per non smarrire nulla di una drammatica realtà che, raggiunto il suo epilogo, è diventata esperienza profonda d’amore (“Amore sorpreso. / Sei qui per me, per togliermi / l’ansia dalla testa / il peso dalle scapole / che diverranno ali?”), di resilienza (“Raddrizzati / con la lentezza del bradipo, / madre, /ma fallo. / Non so / quanto resisterò / al morso del leopardo.”), di lucidità (“Nelle estremità / qualcuno di lucido / c’è sempre. / Qualcuno / che sa cosa fare dove andare chi chiamare. / Oggi / sono io.”). Mi ritengo privilegiata per aver potuto trascorrere gli ultimi giorni di vita di mia madre nel suo accudimento: giorno e notte, senza soluzione di continuità, senza voler trascurare nemmeno uno dei suoi faticosi respiri (“La luce / del lampadario / mi ferisce / ma mi permette di vederti. / Di vedere il tuo respiro. / La vita che non molla.”), non la sua voce flebilissima mentre mi chiedeva acqua (“La tua vita / ha sete per istinto.”), non le sue dita ossute abbarbicate al lenzuolo (“Fra poco / tutto sarà finito. / Le lenzuola / non suderanno più, / il tuo respiro perderà l’affanno. / Uscirai da questa casa / senza andartene / da dentro me.”).
Rileggendo la silloge, a distanza di quasi due anni dalla scomparsa di mia madre, ciò che mi è balzato all’occhio è proprio quella forza – di cui ho riferito sopra – di stare in ciò che accade, sostenuta da un amore privo di ogni egoismo, che mi ha condotto alla pietas nei confronti di una donna che, a causa della sua psiche gravemente malata, non ha saputo educare le proprie orecchie all’ascolto dei suoi bisogni, affondando sempre più nelle sabbie mobili della sua “mente altrove”. Un amore che mi ha permesso di rileggere il nostro – difficilissimo sempre, troppo spesso invischiante – rapporto e perdonare (“Tutto […] si chiarisce e si sistema.” “[...] nulla di ciò ch’è stato / conta più.”).
Meno di due anni dopo la sua morte ho iniziato a frequentare i corsi di poesiaterapia della scuola di PoesiaPresente di Monza, dove ho trovato riscontro alla mia esperienza, così intima e drammatica, che mi ha concesso il privilegio di provare sulla pelle la valenza terapeutica della poesia.
Mia madre – non fra parentesi – si chiamava Celeste.
SONO QUI
mi cerchi sono qui
Le tue braccia ossute
e piene di lividi e rossori, di vene.
Me le butti al collo, mi dici che son la vita tua
gridando muta aiuto.
mi cerchi sono qui
Madre son qui. Esci
dalla lontananza, dalle forre.
Guarda in alto, madre.
mi cerchi sono qui
Aiutami, madre, ad aiutarti.
VERSI
Questi versi
che scrivo del continuo
mi ancorano alla riflessione stupefatta
di ciò che sta accadendo.
Riuscirò mai
a mettere di nuovo
le gambe giù dal letto?
ABIATICO
Non esiste
il figlio di mio figlio.
Non esiste neppure il figlio mio.
M’hai fagocitata
inghiottendomi di nebbia, madre.
Hai stretto le mani
attorno alla mia vita
rendendo difficile il respiro.
Polmoni costretti
a nascondersi per rifiatare.
Adesso, affranta, non chiedo più il perché:
accudisco la pazzia, fatale aureola
che ti circonda.
Mi guardi
come mi guardavi allora
con gli occhi del cane
che supplica non giunga l’abbandono
ma ora la tua supplica
ha il senso della follia
in cui non posso
lasciarti naufragare.
PREPARARSI
alzarsi
deglutire
stringersi le spalle, su ognuna una mano
lasciare che la pioggia s’asciughi
che la rabbia divenga
serpente senza veleno
dirsi
che il vuoto ha il senso della costernazione
e dell’adattamento
poi
raccogliere gli splendori e le misericordie
ascoltare il cammino delle lacrime
attendere
FOTOGRAFIE
La fotografia di mio padre
appesa accanto al letto di mia madre.
L’ho sempre vista lì
da quando sono nata.
Mia madre.
Forse
è questione solo di ore, non di giorni, non so.
Non appenderò
la sua fotografia.
Toglierò anche quella di mio padre.
Voglio restare sola
per capire
la cosa che sarà.
SILENZIO
Un silenzio accanito
intorno.
Noi due. Sole. Insieme.
SEDAZIONE
Ti sei addormentata.
Guardo nella stanza
e poi, fuori, il sole che s’impone sul giardino.
Ci siamo salutate
senza alcun addio
e neppure arrivederci.
Come se niente fosse
come se io non sapessi.
Chissà se qualcosa hai intuito.
Forse. Non so.
Hai detto solo
che ti stavi addormentando.
POLVERE
Spolvero il pianoforte.
Mia madre non c’è più.
Nella sua stanza
è rimasto il suo corpo piccolo.
Domani
quello neppure.
FRATTURA
Ieri
ho toccato la nebbia
che ha consunto di lontananza
la carne viva delle mie fratture.
Oggi,
diradando,
fronteggio la Fenditura.
È come un tirare le somme
su tutto questo bianco d’ospedale:
la memoria
che si mesce alla ragione,
il Lete alla parola scritta.
A pelle nuda
scortico le rocce
per carpire
dove si sono annidati i cretti.
FILI
Ho sistemato
i fili aggrovigliati
che hai raccolto lungo gli anni,
madre.
Non è stato facile.
Forse
non ho neppure terminato.
Gloria Chiappani Rodichevski Giornalista pubblicista, laureata in Lingue e letterature straniere moderne, operatrice olistica a mediazione artistico-relazionale, in formazione come facilitatrice in poesiaterapia e operatrice olistica del suono, fondatrice e direttrice del portale d'arte e di cultura https://morfoedro.art Si occupa di poesia, danza, musica e fotografia, improntando le sue ricerche sulla sinergia fra linguaggi artistici e sul valore terapeutico della poesia. Ha indagato la poesia e il suo rapporto con la musica per comprendere i risvolti psicologici dell'ispirazione.