Poetry Therapy Italia

22 PR 12 GS

 

L’ultimo libro di Eugenio Borgna, uscito poco prima della sua morte, è interamente attraversato dal tema del suicidio, che attraversa anche tutte le nostre vite.

 

Se riuscissi / spesso / a ritrovare questa calma quiete / dentro
attraverso la musica / del non tormento
attraverso le parole / che ritrovo ogni volta / dette per me
e attraversare queste immagini / fotografie in bianco e nero
sguardi rupestri / oceani profondi
Questa mia bianca casa / che dovrò lasciare
sia sguardo e voce / per chi mi ha amata
Non distruggete altari / e anche se sconosciute le parole
comprendetele nel vostro cuore
Io sarò candela / cornice e vetro / pentola da frittata e cielo.

22 BorgnaL’ultimo libro di Eugenio Borgna ha riportato alla luce questa mia poesia, scritta molti anni fa, in uno di quei momenti dove il buio si fa profondo, dove l’altro “noi” sembra troppo lontano per aggrapparci alle sue vesti.

Il tema del suicidio attraversa tutto il libro di Borgna e attraversa anche tutte le nostre vite, tanto è per me vera la domanda che Borgna si e ci pone: “il suicidio è una dimensione quotidiana e fatale della vita?”

Nelle stanze dell’analisi una domanda s’alza sempre: “chi suicida chi?”

Che parte di noi esiliamo, che parte di noi sceglie la patologia, che parte di noi sceglie il suicidio? Che parte di noi sceglie la vita? Come non riflettere su “siamo legioni”, diceva l’indemoniato di Cerasa, e dunque è questo stare con dentro e dentro tutti questi volti che ci chiamano, che ci sfidano, che ci amano e che ci odiano, il compito della nostra vita.

Borgna tocca sempre con la sue “piccole mani” (“nemmeno la pioggia ha così piccole mani”, scrive E.E. Cummings) questo tema.

Antonia Pozzi è nel libro la più raccontata, ma si aprono al nostro sguardo anche i visi e le anime di Virginia Woolf, di Simone Weil, di Marina Cvetaeva, di Sylvia Plath, di Amelia Rosselli. E delle donne che Borgna ha via via incontrate nella sua professione di psichiatra dentro il manicomio di Novara, giovani donne come Emilia, Stefania e Margherita che scrive:

“si tocca il fondo / quando si diventa indifferenti / anche al proprio dolore / Quando non si ha più niente da ascoltare /più niente da dire / più niente da vedere / Quando una bocca parla / e non se ne sentono i suoni / Quando l’indifferenza / ti strappa alla vita / negli acquitrini del nulla / Quando il disgusto è tanto forte / che non da spiegazioni / Quando il dolore tace sommesso / e annientato dal suo stesso silenzio /diventa come pietà / Quando hai le braccia distese / e non sai che fartene / Quando le lacrime si sono come rapprese / negli occhi / Quando quell’urlo di disperazione / è diventato afono/ e tu gridi / gridi / ma non ti sentono / Ma continui a sprecare la tua lealtà / e aspetti nel tempo / con umiltà/.”

A mano a mano che leggi le pagine di Borgna sei catturato da un’estrema tenerezza per l’essere mortale che siamo, per il dono che siamo alla Vita e l’incapacità di accoglierci: “dalla disperazione alla grazia”, come scrive Hermann Hesse, un uomo che ha avuto molto a che fare con il suicidio, il suo, tentato in giovane età, e quello del fratello Hans, riuscito nell’intento in più tarda età.

Nel piccolo libro Ricordo di Hans (pubblicato in Italia da Interlinea nel 2000, con un testo dello stesso Borgna), Hesse ricuce lo sfilacciato tessuto del suo rapporto con il fratello, mostrando a noi tutti quanto non sappiamo ascoltare dell’altro, dove uno sguardo diverso e velocemente intravisto, sia stato lasciato cadere nell’incapacità di accogliere il vento della disperazione che chiamava la nostra vela a soccorso.

Ma imparare dai naufragi è il cammino, non girare il timone, ma seguirne il canto dove prima eravamo stati incapaci di ascoltarlo.

Quando una parte prende il sopravvento, quando le allucinazioni e i deliri ci sovrastano, l’umana capacità di tenere in equilibrio la polarità che siamo, cade e nessun giudizio può uscire dalle nostre bocche. L’altro, fuori e dentro di noi, è un mistero; accoglierlo, averne cura, ascoltarlo sarebbe il quotidiano nostro compito, sempre tradito da quegli agiti che ci fanno perdere il vero significato del vivere e della comunione, nonostante il faticoso, zigzagante, perturbante cammino che dobbiamo compiere per noi esseri mai finiti, eppure infiniti...

Borgna si interroga su che cosa abbia a che fare il tema del suicidio femminile con il tema della gentilezza e scrive:

“la vita di oggi è contrassegnata dalle forme infinite, che l’aggressività assume, anche senza trasformarsi in concrete azioni aggressive, e auto aggressive. Le parole sono creature viventi, e quelle aggressive lasciano tracce indelebili nel cuore e nella memoria. Le parole gentili ci difendono da quelle aggressive, che fanno parte del modo di comunicare di oggi. L’aggressività è nelle parole, che si dicono, ma anche nei modi, con cui si dicono. Sì, solo la gentilezza può arginare modelli di vita aggressivi. Se si vuole essere gentili è necessario saper ascoltare, sapersi adattare al modo di vivere delle persone che incontriamo, e non lasciarsi divorare dalla fretta. Una vita che non conosce la gentilezza, diviene arida, incapace di carità e di speranza. La gentilezza è come una grande finestra che ci apre alla conoscenza dei nostri pensieri e delle nostre emozioni. La gentilezza ci fa conoscere le ombre della fragilità e del dolore, della tristezza e dell'angoscia, della nostalgia e della disperazione, che gridano nel silenzio, chiedendo aiuto. Non saremo mai capaci di ascoltare se nel nostro cuore non abita la gentilezza, emozione così impalpabile e luminosa, così simile alle stelle del mattino. La gentilezza è come un ponte che ci fa uscire dai confini del nostro io, e ci fa mettere in relazione gli uni con gli altri… siamo tutti chiamati a un comune destino di dignità e solidarietà.”

In questo prezioso libro Borgna tocca soprattutto il tema del suicidio femminile, dicendo anche che, secondo lui, c’è diversità tra il suicidio femminile e quello maschile, che nel libro non viene indagato, ma accennato.

Ma è proprio così? Mi chiedo. C’è davvero una differenza, pur nella differenza?

Il titolo del libro “L’ora che non ha più sorelle”, l’ultima ora della vita, quando l’ora del vivere diviene l’ora del morire, è una immagine di Paul Celan, uno dei grandi poeti di lingua tedesca, che scelse di morire nelle acque della Senna.

Cesare Pavese lasciò un biglietto, nella camera d’albergo dove lo trovarono morto, con scritto “non fate pettegolezzi”.

C’è forse una differenza tra la sofferenza di una donna e di un uomo che hanno scelto di morire?

Forse sono scritte sulla carta in modo differente: la “relazione”, che è insita nella natura femminile, è forse d’aiuto alla donna anche con la morte? Le lacrime maschili trattenute in tutta la vita dove erano nascoste?

Io sento che lo strazio che pervade uomini e donne ha la stessa matrice matrigna, la stessa incapacità di vedere l’invisibile, di sapere che c’è qualcosa di più generoso che sa accogliere la nostra disperazione.

L’irruenza dell’adolescenza butta sull’ancora immatura anima un’ombra troppo grande, che copre anche la piccola feritoia da dove esce la luce della guarigione. Ci si suicida perché crediamo il nostro dolore unico e incomprensibile, non solo all’altro, ma soprattutto a noi stessi, ed è vera questa verità, ma non è la sola verità. Ogni uomo, ogni donna ha un destino unico e irripetibile e le proprie storie sono uniche e irripetibili e, traducendo e tradendo Tolstoj, uniche e irripetibili sia nella felicità che nell’infelicità.

Si tratta di comprenderla questa verità, la solitudine è la nostra condizione umana, ma abbiamo molti aiuti per non cadere nell’isolamento, per non buttare addosso a noi e all’altro quel che dentro di noi ancora non è nato: l’amore della conoscenza e la conoscenza dell’amore.

Scrive ancora Borgna:

“Ci sono suicidi che nascono sulla scia di scelte istantanee e suicidi che sono programmati con ferma intenzione, e che falliscono senza che si ripetano. I suicidi che non giungono a realizzarsi sono dotati talora di una funzione catartica, riaccendendo speranze solo temporaneamente perdute. Nelle famiglie e nelle scuole si dovrebbe senza fine insegnare a essere gentili, come a essere capaci di tenerezza e di mitezza, che sono molto più importanti di quelle che sono le conoscenze tecnologiche.”

E si dovrebbe anche insegnare che cosa sono i sentimenti, come farli nascere in noi, come saper giocare con i tanti dei e le tante dee affinché non si trasformino in malattie.
La grande importanza delle parole, sia di quelle che diciamo che di quelle che ascoltiamo, nell’influenzare l’andamento delle differenti forme di sofferenza, le sofferenze di ogni giorno, le sofferenze che nascono dalla malattia, le sofferenze che nascono da un vuoto che non vediamo come utero creatore e creativo.
La parola misericordia significa proprio questa generatività che abbiamo in noi e che affonda sempre le radici nella relazione, è qui che si cela ogni volta anche una rivelazione.
Le nostre ferite dell’anima sono frutto nei valori perduti della società di oggi. Quei semplici valori che ci facevano vicini, prossimi a tutto: all’amico, alle piccole stanze, ai profumi della primavera, all’incanto della neve.
L’amore per il nemico è soprattutto per quello che in noi ospitiamo incapaci di accoglierlo. Con-versione, convergere la nostra energia verso il dentro di noi, uscire dall’ossessione oggi imperante del di-vertimento, una forma diabolica chi ci invita a smarrirci invece che a ritrovarci.
E sono sempre i Poeti, quelli che sanno estrarre dal baratro la voce riparatrice, quelli che ci possono aiutare: “resistere è tutto”, scrive Rainer Maria Rilke.
Resistere a tutto, all’infelicità, al dolore e al richiamo della morte.

“Sedevi e ragionavi al tuo dolore / per non darci dolore custodivi / il tuo dolore tutto dentro al cuore / e quella poca vita benedicevi/ e la perdevi quasi con onore / giorno per giorno / per noi così vivi / nell’estate dei morti / al sole d’oro / Forse dicevi il tuo dolore a loro.”

Queste parole di Patrizia Valduga tratte dal piccolo libro Requiem (Einaudi, 2002), parla di una morte riguardata dalle ultime trincee della vita, nella relazione tra padre e figlia.
Ma riguarda anche ognuno di noi, non solo sul letto di morte, ma in ogni momento della nostra vita e ci induce a meditare sul senso del vivere e del morire, e a ricercare le ragioni che mantengono aperto il cuore alla speranza anche nelle ore dolorose e oscure della vita.
Quando non ce la facciamo più, quando non sappiamo più con chi condividere il nostro dolore, quando tutto pare perduto, c’è sempre in noi la possibilità di sconfinare nell’invisibile ed è in questa zona la salvezza: è di nuovo passeggera resurrezione (“è di nuovo passeggera resurrezione” è un verso di Livia Candiani, dal libro Bevendo il tè con i morti, Interlinea, 2022).

Eugenio Borgna, L’ora che non ha più sorelle. Sul suicidio femminile, Einaudi, 2024

 

 

 


 

azzurra d agostinoPatrizia Gioia, designer e poetessa, cofondatrice di Mille Gru (2006), è responsabile del settore arte e cultura di Fondazione Arbor, che ha avuto come primo presidente Raimon Panikkar. Opera per diffondere il dialogo inter/intra culturale e religioso, organizzando giornate di lavoro e incontro con studiosi di fama mondiale. Membro di ARPA ( Associazione per la Ricerca in Psicologia Analitica ) scrive libri di poesia e articoli per riviste e giornali web, rivitalizzando il pensiero mistico simbolico al crocevia tra oriente e occidente. Nel 2000 fonda SpazioStudio13 a Milano, luogo di incontro e confronto.
» La sua scheda personale.