Poetry Therapy Italia

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Un canto funebre: così Vinicio Capossela ha definito nella postfazione il libro di Clelia Marchi, che poi si è disteso per intero in un lenzuolo-poesia della stessa autrice, simbolo potente, che suggella un amore durato una intera vita. Un canto che ricorda le prefiche e le figure in nero degli antichi riti che accompagnano alla morte.

 

Nella produzione di Benatti Anteo Clelia Marchi – così si firmava Clelia Marchi – c’è tutto. Un lenzuolo, il passaggio dell’inchiostro su un simbolo potente, quello che suggella un amore durato una intera vita. C’è il gesto del fare, quello che in greco antico veniva denominato proprio ποιησις, [poièsis], che deriva dal verbo ποιέω [poièo], fare, creare. È un gesto artistico che richiama l’art brut di Dubuffet, l’artefatto che, come nelle opere degli allievi della corrente citata, diventa atto terapeutico.

 

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Ho visto, dal vivo, e ascoltato, dopo diversi anni dalla lettura del libro di Clelia, il lenzuolo esposto a Pieve Santo Stefano, al Piccolo Museo del Diario, un miracolo della cultura popolare italiana voluta da un giornalista di guerra, Saverio Tutino, negli anni Ottanta. Tutino scelse quasi per caso Pieve Santo Stefano, un paese devastato a suo tempo dalla Seconda Guerra Mondiale, bombardato, privo quindi della memoria degli edifici; che paradossalmente, grazie alla lungimiranza delle istituzioni, divenne sede della memoria di tutta la penisola, l’Archivio dei Diari che è preziosissima testimonianza di migliaia di storie incredibili e memoria e coscienza collettiva della storia d’Italia.

 

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Me la immagino, Clelia, che nella notte tratteggia, per due anni, le sue parole sull’oggetto che più caratterizza la vita matrimoniale: il lenzuolo. E lo fa con una tenacia, con una forza forse discendente da quel mondo contadino di cui fa parte, novecentesco; non ha paura di far scorrere le parole, degli inevitabili errori di grammatica – deliberatamente lasciati in tutte le pubblicazioni dell’archivio diari di Pieve Santo Stefano, a cui Clelia consegnò il proprio lenzuolo nel 1992. Nel gesto della scrittura forse libera la manualità della ricamatrice e la sincerità del raccontare, narrazioni che fluivano oralmente e che decide di fissare sul lenzuolo quasi a voler preservare intatti i ricordi così come sono.

 

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Clelia racconta la sua umile esistenza in quello che Saverio Tutino definisce nell’introduzione un “poema”, una “poesia di lungo respiro”. E lo fa iniziando con un vero e proprio manifesto programmatico, come in qualunque prefazione d’autore alla propria opera:

… ogni riga si svolge sul filo della sincerità: come pure il titolo del mio lenzuolo libro: ‹ Gnanca nà busia › non o raccontato: gnanca nà busia nè par mi; né ai lettori!!!

Lo stesso Gnanca na busia che è il titolo scelto dall’autrice per la sua opera/poema. 

Ogni riga su quel lenzuolo è un lunghissimo dispiegarsi di pensieri, parole, un flusso di coscienza che segue una sua linearità, un racconto indipendente, numerata (ma non subito, solo dopo aver capito che essendo così lunga, ci si poteva perdere) dalla sua autrice. Un lungo spazio è occupato dalla prosa, nel quale Clelia narra gli eventi principali della sua vita, che dalla metà in poi, spiega Tutino, diviene “un moto circolare, sinuoso e come ripiegato su se stesso, quasi a preparare il lettore all’annuncio di una futura ricongiunzione con l’essere amato”.

È in fondo al lenzuolo che si leggono, una di fianco all’altra, tutte le poesie scritte da Clelia. Si parte da una constatazione del reale:

Non ti cancellerò mai dal mio cuore;
come una bimba cancella con
la gomma la parola sbaliata;
[…]
Ma quando il mio cuore sarà stanco;
smetterà di battere: mi addormenterò,
e mi svelierò lassù; solo all’ora…
Potrò essere vicino a chi un tempo…
Mi aveva tanto amata…
Che mai dimenticherò…

Il sole e la luna sono, come nella tradizione lirica, testimoni muti delle tragedie umane:

Caro mio sole
[…]
pure lò sai
che è il tuo destino…
camminare camminare
piano, piano, piano…
raccoliere tutte le parole
del villano…
L’e Preghiere: le ingiurie
le lacrime i patimenti
i buoni i cattivi e gli imprudenti.
Cara luna mia
Se sapesti quante notti
sei stata in mia compagnià
nei momenti più tristi
della mi vita: [Più ero triste; più ti guardavo
tu leggevi il mio dolore.
Mia cara luna.
E a chiudere, circolarmente, c’è una consapevolezza che gnanca na busia potrebbe rivelarsi un compito più arduo del previsto. In Cosa vorrei aver fatto l’autrice fa un bilancio della sua vita, dicendo:
Ma la mia vita è stata
tanto dura; speravo che
un giorno si cambiasse;
ma pure le cose belle un giorno
finiscono troppo in fretta…
[…]
E dura anche dire il vero
O la sincera verità

 

17 Clelia Marchi con Rosanna Mai a Pieve nel 1986 foto Livi

17 Clelia Marchi davanti al Lenzuolo nel 1992 foto Livi

 

Un canto funebre, lo definisce Vinicio Capossela nella postfazione, studiandone in modo meticoloso i passaggi più importanti. Un canto che ricorda le prefiche e le figure in nero degli antichi riti che accompagnano alla morte. Aggiunge significativamente il cantautore queste parole in merito al valore della creazione poetica e del racconto autobiografico: “La scrittura e il racconto sono i soli modi di recuperare l’esistenza, per questo ci devono essere cari. E dobbiamo avere orecchie e occhi, ancora più che penna e parole, perché nessun racconto può spezzare il cerchio chiuso dell’esistenza, se non c’è qualcuno ad ascoltare.”

Occhi e orecchie, per leggere, ascoltare, osservare un’opera che diventa una sindone laica, un dono per i visitatori.

Clelia Marchi, Gnanca na busia. Il romanzo di una vita scritta su un lenzuolo, Il Saggiatore, 2024

 

 

 


 

anna castellariAnna Castellari Nata in Friuli, ha studiato traduzione e interpretazione all’università di Trieste, si è laureata in spagnolo con una tesi-traduzione di un libro per adolescenti, Violeta en el País de Nunca Jamás, di María Eleonora Sánchez Puyade, e si è trasferita a Milano per amor dei libri. Appena arrivata si è unita all’associazione Mille Gru e ha iniziato a muovere i primi passi nell’editoria per l’infanzia come redattrice e traduttrice. Dal 2016 insegna – presso la struttura carceraria di Bollate – francese e spagnolo nelle scuole superiori. Nella scuola tenta di applicare una didattica “umanistica” e umana, in cui l’alunno è al centro e l’insegnante è un suo accompagnatore nella conoscenza e nell’educazione. Per Mille Gru si occupa della parte editoriale per l’infanzia, rivede le bozze dei libri, cura i contenuti web e social, di laboratori con i bambini, nei centri di cura e nelle biblioteche.

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