Paola Loreto ci introduce al mondo e alla poesia di Mary Olivier, variamente definito come un “misticismo pragmatico” o “ecocentrico” e un “panteismo ecologico”.
Mary Oliver è una degli ecopoeti più importanti degli Stati Uniti. Nata nel 1935 a Maple Heights, un sobborgo semi-rurale di Cleveland, Ohio, ha cominciato a scrivere poesia da adolescente. A soli 17 anni, durante una visita alla casa della poeta americana Edna St. Vincent Millay, che ammirava, a Austerlitz, nello stato di New York, strinse amicizia con la sorella, Norma, che le chiese di restare ad assisterla nel riordino dell’archivio di Edna. Oliver racconta di “avere praticamente vissuto lì per i sei o sette anni successivi, correndo in lungo e in largo per gli 800 acri della proprietà come una bambina, aiutando Norma, o per lo meno tenendole compagnia”.
La libertà nelle occupazioni e nello stile di vita è stata una sua costante: a casa Millay conosce la fotografa Molly Malone Cook, della quale si innamora istantaneamente e con la quale condividerà quattro decenni della sua vita, stabilendosi a Provincetown, su Cape Cod, in quella “convergenza di terra e acqua, di luce mediterranea, di pescatori che si guadagnano la vita con un lavoro difficile e duro su barche spaventosamente piccole, e degli artisti e scrittori che vi risiedono o la visitano”. Molly diventa la sua agente letteraria e Mary le dedicherà quasi tutti i suoi libri.
Altre scommesse con il destino si rivelano vincenti: Oliver frequenta la Ohio State University e il Vassar College senza mai laurearsi, e finisce – come ogni buon poeta americano – a insegnare in vari college e università, conquistandosi per titoli artistici una cattedra presso il Bennington College, dove resterà fino al 2001. Allo stesso modo – e al modo di Emily Dickinson, che conosceva bene – sembra rifuggire la fama per esserne inseguita. Ricordo ancora la delusione – che si tramutò nella gratitudine per un prezioso insegnamento – che provai quando rispose alla mia richiesta di concedermi un’intervista con un cordiale diniego, motivato dalla ragione che “avrebbe tolto tempo al lavoro vero”, evidentemente quello della scrittura. Eppure, nonostante sia stata a lungo guardata con sospetto dai critici letterari, che non amano la poesia apparentemente troppo facile da comprendere, a cominciare dalla sua quinta raccolta, American Primitive, uscita nel 1983, e vincitrice, l’anno successivo, del prestigioso Pulitzer Prize, Oliver ha sempre goduto di un enorme successo presso il pubblico, tanto da essere definita dal New York Times “di gran lunga il poeta americano più venduto”. Le sue case editrici, infatti (Houghton Mifflin, Harcourt, Little Brown e Beacon Press) sono sempre state tra le maggiori e le meglio accreditate degli Stati Uniti.
Riservata e appartata, dunque, Oliver ha tratto ispirazione dalle sue passeggiate sul Cape, i “rambles” di tanta scrittura della natura americana, a partire da Henry David Thoreau, che è uno dei suoi modelli più forti, insieme a Ralph Waldo Emerson, Walt Whitman, Marianne Moore, Elizabeth Bishop, e la già citata Millay. Come Thoreau, Oliver ha osservato e descritto i fenomeni più minuti del mondo naturale, avviando i suoi componimenti nel modo tipico della poesia della natura romantica.
A differenza della nature poetry tradizionale, però, Oliver assume un atteggiamento nei confronti delle entità animate e inanimate di quello che spesso chiama “il mondo” straordinariamente al passo con le ultime riflessioni filosofiche sul postumano, e sarebbe più corretto dire loro anticipatore.
All’opposto dei poeti romantici, infatti, che con una tecnica letteraria descritta da John Ruskin come pathetic fallacy proiettavano sulla natura i propri, umani, sentimenti, antropomorfizzandola, Oliver decentra, e ridimensiona, il soggetto umano, nella sua visione del mondo, e rappresenta un ecosistema nel quale animali, piante, fiori, ruscelli e sassi sono interconnessi in una rete di relazioni che non conosce gerarchie di importanza e di potere (o “potenza di agire”, agency, come si esprime la teoria contemporanea internazionale).
In quello che è stato variamente definito come un “misticismo pragmatico”, o “ecocentrico”, e un “panteismo ecologico”, Oliver ha scritto un innario di lode alle creature naturali in cui la tentazione della fusione nasce dal sentimento della co-estensione, fisica, del proprio corpo, con il loro e si arresta sulla soglia dell’indistinzione. Pensatrice lucida e rigorosa, infatti, Oliver non cede all’illusione dell’identità con il non-umano ma rivendica la possibilità di considerarne le radici in larga parte comuni nell’esperienza biologica e cognitiva. È così che, in White Flowers (Fiori bianchi), rappresenta la propria metamorfosi in un vegetale, immaginando il punto in cui il suo corpo termina e cominciano le radici, gli steli, i fiori. Si sente “vellutata”, “scivolosa”, “risplendentemente vuota”. In The Sea (Il mare), esprime la nostalgia per le proprie origini nelle stesse origini del mondo, in questo caso il “grembo materno” del mare, una “casa dei sogni” di sale ed esercizio fisico, un altro corpo, più grande, che è una “genesi risucchiante”. Ed è sempre il corpo a denunciare il desiderio profondo di una ibridazione con uno degli “altri della terra”, gli earth others della studiosa del postumano Rosi Braidotti, in questo caso un pesce:
il mio corpo ricorda quella vita e reclama
le parti perdute di sé –
pinne, branchie
che si aprono come fiori nella
carne – le gambe
vogliono serrarsi ed essere
un muscolo solo.
Come nella affect theory, o teorie dell’affetto, la conoscenza per Oliver avviene attraverso la propria immersione nella materia di cui è fatto il mondo: è incarnata, imbrigliata nel reale e nelle sue relazioni, e coinvolge, perciò, tutte le nostre sensazioni ed emozioni, la parte non esclusivamente razionale del nostro essere.
In nome dell’interezza dell’essere umano, infatti – e di quello non-umano – Oliver ha in primo luogo negato la posizione “specista” dei teorici della “questione animale” e cioè del dibattito sulla presunta superiorità dell’uomo basata, da Cartesio in poi, sulla sua supposta prerogativa del linguaggio e della ragione logica. I modi di espressione degli uccelli, nella raccolta Owls (2006), così come quelli dei cani, in Dog Songs (2013), se ascoltati con un’attenzione coinvolta si dimostrano codici semiotici che la biosemiotica ha ormai sdoganato, come testimonia la rapsodia notturna di Percy. Alla ragione puramente logica Oliver sostituisce, come unico reale tratto distintivo della “specie” umana, l’immaginazione, che paradossalmente volge allo scopo di valicare il divario tra specie, in un “salto” cognitivo che solo gli esseri umani possono effettuare per avvicinarsi, appunto, alla coscienza degli “altri della terra”. Le oche selvatiche ci insegnano che il mondo si offre alla nostra immaginazione e che dobbiamo soltanto lasciare che il “tenero animale” del nostro corpo ami ciò che ama: la conoscenza partecipativa, che passa in primo luogo dai sensi ed è una forma di amore, di adesione alla vita – il “fuoco bianco” che arde in tante poesie di Oliver. È l’intuizione salvifica che ci consente di vedere che “il nome segreto/ di ogni morte è una nuova vita” (Skunk Cabbage, Cavolo di palude) e che invece di dibattere la natura e la forma dell’anima umana potremmo provare a pensare che una forma di sensibilità, affettività, intenzionalità e coscienza – di soggettività e agency – sia un potenziale di tutto il mondo organico e inorganico, perché nel mondo ri-animato di Oliver anche il formichiere “ama i suoi figli” e i sassi “se ne stanno soli alla luce della luna” (Some Questions You Might Ask, Qualche domanda che potresti fare).
In uno dei due manuali di lettura del testo poetico e di metrica che ha affiancato alla sua vasta produzione poetica, il prezioso A Poetry Handbook (1994), Oliver scrive:
Nessuno riuscirebbe a pensare, senza avere prima vissuto tra le cose viventi. Nessuno avrebbe bisogno di pensare, senza l’iniziale profusione di esperienze percettive.
Ed è la percezione intensa, concentrata, dell’intento di morte degli uccelli predatori che fa pensare a Oliver che perfino dare la morte, nella logica istintuale della natura, è una forma di vita. Ne sono l’esempio più soggiogante gli owls (gufo, civetta, allocco), “i cacciatori puri, selvaggi, del nostro mondo”, il cui grido non è quello della preda, che è di dolore, disperazione e paura, ma della “pura gloria esultante del portatore di morte”, che è ancora più terribile e lascia la poeta sull’orlo del mistero, “dove il terrore è naturalmente e abbondantemente parte della vita”. Oliver non si rifiuta mai di vedere “l’inarrestabile/ rovina” delle cose, ma continua a volere “essere abbagliata” dal fuoco bianco del loro mistero, perché “la luce è tutto” (The Ponds, Gli stagni). E la luce è anche “un invito/ a essere felici/ e essere felici,/ quando lo si fa bene/ è una specie di santità/ palpabile e redentiva” (Poppies, Papaveri).
Affermare, in un discorso metapoetico, che “Questa è una poesia sul mondo/ che è nostro, o potrebbe esserlo” (Five A.M. in the Pinewoods, Alle cinque del mattino nel bosco di pini) può sembrare semplice fino alla banalità, e sentimentale. Eppure il vangelo ecocentrico della mistica del Cape è un messaggio oggi indispensabile, che il pubblico degli Stati Uniti ha accolto con entusiasmo. Per fortuna i numerosi premi che le sono stati assegnati dimostrano che anche l’establishment letterario del paese lo ha riconosciuto, attribuendole, tra gli altri, non solo il Pulitzer Prize ma anche un National Book Award (per i New and Selected Poems del 1992) e il Lannan Literary Award alla carriera.
Mary Oliver ci ha lasciati il 17 gennaio del 2019, a 83 anni, nella sua casa a Hobe Sound, in Florida, dove si era trasferita dopo avere abbandonato, in seguito alla scomparsa di Molly, quella che per lungo tempo aveva condiviso con lei. Le parole di una sua famosa poesia, When Death Comes (Quando la morte arriva), sono il lascito testamentario più elementare, e determinato, di una vita spesa bene, votata alla curiosità per ogni cosa che ci circonda e impermeabile alla inconsapevolezza che anche Thoreau aborriva quando scrisse di essere andato nei boschi di Walden per “vivere deliberatamente”:
Quando sarà finita, voglio poter dire: tutta la vita
sono stata una sposa della meraviglia.
… Non voglio finire con l’avere solamente visitato questo mondo.
§
Le poesie che seguono, liberamente tradotte da Paola Loreto, sono tratte da i seguenti libri di e su Mary Oliver: Dodici lune (1979), Primitivo americano (1983), Il lavoro dei sogni (1986), Casa di luce (1990), Poesie scelte e nuove. Volume primo (1992), Gufi ed altre fantasie (2003), Cigno. Poesie e poesie in prosa (2010), Poesie dei cani (2013), Devozioni (2020).
Le traduzioni sono qui effettuate ai soli fini divulgativi e a integrazione del saggio, in forma di citazione.
Il saggio e la rivista Poetry Therapy Italia che lo ospita non hanno fini commerciali. I diritti restano ai legittimi proprietari.
Dormendo nel bosco
Ho pensato che la terra
si ricordasse di me, mi
ha riaccolta così teneramente tra
le sue gonne scure, le sue tasche
piene di licheni e di semi. Ho dormito
come mai prima, un sasso
sul letto del fiume, niente
tra me e il fuoco bianco delle stelle
salvo i miei pensieri, che galleggiavano
leggeri come falene tra i rami
degli alberi perfetti. Tutta la notte
ho sentito i piccoli regni respirarmi
attorno, gli insetti e gli uccelli
fare il loro lavoro nel buio. Tutta la notte
mi alzavo e cadevo, come nell’acqua, lottando
con un luminoso destino. La mattina
ero svanita almeno una dozzina di volte
dentro qualcosa di meglio.
da Dodici lune, 1979
•
Cavolo di palude
E adesso, quando la crosta di ferro
sugli stagni comincia a sciogliersi,
ti imbatti, sognando felci e fiori
e il dispiegamento delle foglie nuove,
nel cavolo di palude,
vistoso, dal cuore di rapa,
che butta mazzi di foglie in alto
attraverso il fango freddo.
Ti inginocchi a fianco. L’odore
è orrendo e si effonde nel modo
più sfacciato, attraendo
dentro di sé spruzzi continui
di proteine. Schifosi
le sue cavità verdi e il pensiero
della spessa radice annidata al di sotto, tenace
e potente come l’istinto!
Ma questi sono i boschi che ami,
dove il nome segreto
di ogni morte è una nuova vita – un miracolo
certo operato non da una semplice trasformazione
ma da una rimessa in scena densa, bruciante. Non
tenerezza, non desiderio, ma una spinta audace, muscolare
lungo la cascata di ghiaccio, il passato.
Felci, foglie, fiori, le ultime sottili
finezze, eleganti e quieti, attendono
di sollevarsi e fiorire.
Quello che infiamma il sentiero non è
necessariamente carino.
da Primitivo americano, 1983
•
Il mare
Bracciata dopo
bracciata il mio
corpo ricorda quella vita e reclama
le parti perdute di sé –
pinne, branchie che
si aprono come fiori nella
carne – le gambe
vogliono serrarsi ed essere
un muscolo solo, giuro che
conosco
l’esatta sensazione
di squame blu-grigio
sul resto di me!
un paradiso! Distesa
in quel grembo materno,
in quella casa dei sogni
di sale e movimento,
che spargimento
di nostalgia implora
dalle ossa stesse! come
anelano a rinunciare alla lunga marcia
nell’entroterra, la fragile
bellezza dell’intelletto,
per tuffarsi
e semplicemente
tornare a essere un corpo fiammante
di sensibilità cieca
che scivola lungo
la fibra luminosa del corpo del mare,
svanite
come una vittoria dentro
quella genesi risucchiante, quel
fragore sgargiante, quegli stessi nostri
perfetti
inizio e
conclusione.
da Primitivo americano, 1983
•
Oche selvatiche
Non devi essere buono.
Non devi fare penitenza
camminando in ginocchio per cento miglia nel deserto.
Devi solo lasciare che il tenero animale del tuo corpo
ami quello che ama.
Raccontami della disperazione, la tua, e ti racconterò della mia.
Nel frattempo, il mondo continua.
Nel frattempo il sole e i sassolini chiari della pioggia
si muovono attraverso i paesaggi
le praterie e gli alberi profondi
le montagne e i fiumi.
Nel frattempo le oche selvatiche, alte nell’aria tersa e blu,
tornano verso casa.
Chiunque tu sia, per quanto solo,
il mondo si offre alla tua immaginazione,
ti chiama come le oche selvatiche, stridule ed eccitanti,
annunciando continuamente il tuo posto
nella famiglia delle cose.
da Il lavoro dei sogni, 1986
•
Qualche domanda che potresti fare
L’anima è solida, come il ferro?
O è tenera e friabile, come
le ali di una falena o il becco del gufo?
Chi ce l’ha, e chi non ce l’ha?
Continuo a guardarmi intorno.
La faccia dell’alce è triste
come la faccia di Gesù.
Il cigno apre le ali bianche lentamente.
In autunno, l’orso nero porta le foglie al buio.
Una domanda porta all’altra.
Ha una forma? Come un iceberg?
Come l’occhio del colibrì?
Ha un polmone solo, come il serpente e la capasanta?
Perché dovrei averla io e non il formichiere
che ama i suoi figli?
Perché dovrei averla io e non il cammello?
Adesso che ci penso, e gli aceri?
E tutti i sassolini, che se ne stanno soli alla luce della luna?
E le rose, i limoni, e le loro foglie luccicanti?
E l’erba?
da Casa di luce, 1990
•
Fiori bianchi
La notte scorsa nei campi
mi ero sdraiata al buio
a pensare alla morte
e invece mi sono addormentata,
come in una grande stanza inclinata
piena di quei fiori bianchi
che si aprono tutta l’estate,
appiccicosi e disordinati,
nei campi caldi.
Quando mi sono svegliata
la luce del mattino scivolava
davanti alle stelle
e io ero coperta
di fiori.
Non so
come è successo –
non so
se il mio corpo si è immerso
sotto i tralci zuccherini
in un’affinità con le profondità
affilata dal sonno o se
quell’energia verde si è
sollevata in un’onda e
mi ha avvolta, reclamandomi
nel cartoccio delle sue braccia.
Le ho spinte via ma non mi sono alzata.
Mai nella vita mi sono sentita
così vellutata
o così scivolosa
o così risplendentemente vuota.
Mai nella vita mi sono sentita così
prossima a quella linea porosa
dove il corpo aveva finito
e le radici e gli steli e i fiori
iniziavano.
da Poesie scelte e nuove. Volume primo, 1992
•
da Gufi
Di notte, quando il gufo è meno che squisitamente rapido e perfetto, il grido del coniglio è terribile. Ma il grido del gufo, che non è di dolore e di disperazione, e della paura di essere strappato fuori dal mondo, ma della pura gloria esultante del portatore di morte, è ancora più terribile. Quando lo sento risuonare nel bosco, seguito dai cinque proiettili neri del suo canto che cadono come sassi nell’aria, so che sto ritta sulla soglia del mistero, dove il terrore è naturalmente e abbondantemente parte della vita, parte perfino della vita più tranquilla, intelligente, solare – come, per esempio, la mia. Il mondo in cui il gufo è eternamente affamato ed eternamente a caccia è il mondo in cui vivo anche io. C’è un solo mondo.
da Gufi ed altre fantasie, 2003
•
Il cigno
L’hai visto anche tu, scivolare, tutta notte, sul fiume nero?
L’hai visto al mattino, alzarsi nell’aria d’argento –
una bracciata di fiori bianchi,
una commozione perfetta di seta e di lino piegata
al giogo delle ali; un mucchio di neve, un mucchio di gigli,
che morde l’aria col suo becco nero?
L’hai sentito, un flauto che fischia
una musica stridula e oscura – come la pioggia bersaglia gli alberi, una cascata
affetta le cenge nere?
E l’hai visto, alla fine, proprio sotto le nuvole –
una croce bianca che scorre nel cielo, i piedi
come foglie nere, le ali come la luce che si tende sul fiume?
E hai sentito, nel cuore, come riguardava tutto?
E hai capito, finalmente, a cosa serve la bellezza?
E hai cambiato la tua vita?
da Cigno. Poesie e poesie in prosa, 2010
•
Rapsodia notturna del cagnolino
Appoggia una guancia contro la mia
ed emette dei piccoli suoni espressivi.
E quando sono sveglia, o sveglia abbastanza,
si volta a pancia in su, le quattro zampe
all’aria
e gli occhi scuri e ferventi.
Dimmi che mi vuoi bene, dice.
Dimmelo ancora.
Potrebbe esserci un accordo più dolce? Tutte le volte
lui me lo chiede.
Io glielo dico.
da Poesie dei cani, 2013
•
Quando la morte arriva
Quando la morte arriva
come l’orso affamato in autunno;
quando la morte arriva e tira fuori tutte le sue monete luccicanti
per comprarmi, e chiude di scatto il borsellino;
quando la morte arriva
come il morbillo;
quando la morte arriva
come un iceberg tra le scapole,
voglio attraversare la soglia piena di curiosità, chiedendomi:
come sarà, quel cottage di oscurità?
E quindi guardo ogni cosa
come un fratello o una sorella,
e guardo al tempo come se non fosse che un’idea,
e considero l’eternità come un’altra possibilità,
e penso a ogni vita come a un fiore, comune
come una margherita di campo, e altrettanto unica,
e a ogni nome come a una musica bella nella bocca,
che tende, come tutta la musica, al silenzio,
e a ogni corpo come a un leone di coraggio, e qualcosa
di prezioso per la terra.
Quando sarà finita, voglio poter dire: tutta la vita
sono stata una sposa della meraviglia.
Sono stata lo sposo, e ho preso il mondo tra le braccia.
Quando sarà finita, non voglio chiedermi
se ho fatto della mia vita qualcosa di speciale, e reale.
Non voglio ritrovarmi a sospirare, spaventata,
o in preda a una controversia.
Non voglio finire con l’avere solamente visitato questo mondo.
da Devozioni, 2020
Paola Loreto insegna Letteratura americana all’Università degli Studi di Milano. Ha pubblicato case | spogliamenti (Aragno 2016), In quota (Interlinea 2012), La memoria del corpo (Crocetti 2007), Addio al decoro (LietoColle 2006), L’acero rosso (Crocetti 2002), le plaquette Spiazzi dell’acqua e Ascesa (pulcinoelefante 2008 e 2018), e Avola (Volo) (Luciano Ragozzino, 2019), le sillogi Conoscenza della neve (Poesia, gennaio 2012) e Transiti (Almanacco dello Specchio Mondadori 2009), oltre a una silloge di poesie sulla montagna (Premio Benedetto Croce 2003) e numerosi testi in rivista e in volumi collettanei.