Poetry Therapy Italia

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Ripubblichiamo qui il saggio di Paola Loreto già incluso nella pubblicazione “Miti della modernità. Scritti per Francesca Balestra”, a cura di Giovanna Mochi e Roberto Venuti, Editoriale Artemide (2015), corredato da una “minima” e preziosa antologia.

C’è un mito della modernità americano che sembra non tramontare mai. Suona come un paradosso ma non lo è, perché, come molti miti americani, anche questo, nel succedersi delle sue rivisitazioni, mantiene una perfetta aderenza al reale: è una risposta al mondo che evolve e al tentativo di una comunità di umani di abitarlo in modo consono, armonioso. È il mito della vita felice dell’uomo in seno alla natura, che si è evoluto dall’illusione di una pacifica sottomissione della natura da parte dell’uomo, alla speranza (non voglio chiamarla illusione) di una salvifica sottomissione dell’uomo alla natura. Forse il fatto che la natura americana fosse wilderness ha aiutato la nitida e pulita evoluzione del mito. Siccome la natura non era un giardino addomesticato, farne qualcosa era necessario: o domarla o farsene domare. Per questo la letteratura sulla wilderness americana passa dall’orgoglio euforico e un po’ esaltato della conquista di John Smith al contrito e caustico mea culpa per lo sfruttamento e la devastazione di W. S. Merwin; dalla proiezione tipologica sul paesaggio di uno scenario biblico delle prove divine del pastore puritano John Williams all’invito a entrare nelle Sierras come in luogo sacro, di culto, di John Muir. Il concetto di wilderness, e il ruolo che questo ha avuto nella formazione della “mente” americana, sono stati diffusamente, se non esaurientemente, studiati[1]. Leo Marx ha visto perpetuarsi nell’autore più rivoluzionario dell’American Renaissance, Henry David Thoreau, il mito della pastorale europea dentro una forma americana: l’esperimento di Walden, e l’esperienza della scrittura di Walden[2]. Ma Thoreau scrisse anche “Kataadn”, dove i conti cominciano a non tornare, perché in vetta al monte Katahdin, di fronte alla nebbia che gli vieta la vista della cima, comprende che la corrispondenza tra sensi interiori e sensi esteriori insegnatagli da Emerson è una proiezione della mente umana, che la natura sta negando.

È forse l’inizio del mito contemporaneo della natura americana (e spero non solo): una natura che il poeta cerca di pensare usando la stessa facoltà dell’immaginazione che in epoca romantica ha prodotto la pathetic fallacy per figurarsi, invece, come la natura pensi se stessa. Un atto gnoseologico nel quale l’uomo non solo osserva e produce significati, ma è osservato e contribuisce a produrre un senso complesso, che è l’esito di un delicato rapporto di equilibri. Il mezzo principale è una nuova, allargata, concezione della coscienza – come non più solo umana – e del linguaggio che la articola, che possiamo pensare come qualcosa di diverso dal codice strutturato ed efficiente, ma chiuso ed esclusivo, che serve alla nostra comunicazione. Per questo la ecopoetry arriva più vicina all’obiettivo di tutta la scrittura “eco”. A differenza dell’uso mimetico del linguaggio comune a molti scrittori della natura, gli ecopoets usano, secondo Scott Knickerbocker, una “poiesis sensoria” (sensuous poesis) che ri-materializza il linguaggio per dare voce, specificatamente, alla natura non-umana[3].

Come fa notare Laura-Gray Street, co-curatrice della prima antologia di ecopoetry americana, “il linguaggio – la Parola – non è qualcosa che ci separa dal resto del pianeta e ci eleva al di sopra di esso. Semmai, il linguaggio è una parte integrale del nostro io biologico. […] Siamo creature che producono linguaggio nello stesso modo in cui i ragni tessono la tela”.

E il linguaggio viene dalle cose: non è il linguaggio ad attribuire alle cose il loro significato. Per questo la poesia è sempre stata, in un certo senso, ecopoesia: il genere letterario che ha posto in primo piano la natura. Ma la ecopoetry contemporanea effettua un vero cambio di paradigma volgendo l’esercizio della facoltà empatica e della negative capability allo scopo di cogliere i soggetti biologici reali, e non immaginari, che popolano il pianeta, e di rappresentarli attraverso ritmi, immagini e articolazioni verbali che li collochino, nel nostro “sistema neuronale”, nel luogo che alimenta “l’immaginazione ambientale”, lo specchio della biodiversità del mondo[4].

Prima Robert Langbaum, con un prezioso saggio pioneristico sulla “nuova poesia della natura”, che sembra mettere in discussione il concetto monolitico di coscienza come prerogativa umana; poi John Elder, con l’anticipazione straordinaria della ricomposizione della frattura tra cultura e natura; e infine J. Scott Bryson, con la sistemazione degli studi sulla ecopoetry hanno tentato di formulare una definizione[5]. Per il mio scopo, che è cominciare a tradurre questa poesia in italiano, credo sia sufficiente arrivare a individuarla come quella poesia che, a partire soprattutto dal modernismo (ma con qualche punta di avanguardia nel romanticismo) sostituisce una prospettiva ecocentrica a una antropocentrica e, soprattutto in epoca contemporanea, comincia a distinguersi da quella precedente – che ha ricevuto grande impulso, e un orientamento attivista, dai movimenti progressisti degli anni Sessanta – perché comincia a pensare davvero, di nuovo, a una nuova forma di armonia tra cultura e natura. Non si tratta, però, più, di un ritorno della pastorale europea camuffata all’americana. La gerarchia del rapporto è capovolta: è l’uomo che ascolta la natura per capire dove inizia la propria cultura, e non la natura a dovere patire gli effetti di una cultura che è solamente dell’uomo e gli è imposta, e sovrapposta, da lui. La poesia è questa forma di ascolto, che cerca di scoprire, e non di inventare, un concetto diversificato e interrelato di coscienza e un concetto altrettanto complesso, e pluriforme, del linguaggio che la fa emergere.

Scegliere che cosa presentare in uno spazio così esiguo non è semplice. Adotto allora i due criteri che mi sembrano cruciali: la rappresentatività e la qualità estetica. I testi che ho scelto sono rappresentativi di posizioni al tempo stesso fondamentali e tipiche nella storia della ecopoetry americana, come la misantropia scontrosa e amara di un padre conclamato, Robinson Jeffers; la quieta pastorale del contadino Wendell Berry; la paradossale comprensione delle cose di A. R. Ammons, che combina l’intuizione unificante del poeta a quella disgregante dello scienziato; il misticismo carnale e lucido, spietato, di Mary Oliver e la meditazione profonda, orientale, basata su una percezione finissima della realtà, di Jane Hirschfield. Il criterio della qualità estetica mi ha fatto scegliere tra i testi di ogni autore quelli che formalmente giudico più compiuti, e per esempio includere una poesia di Gary Snyder che non sia solamente rappresentativa del suo attivismo, che è il motivo principale per cui l’ho incluso, come poeta rappresentativo, in questa minima antologia[6].

 

[1] Tra gli studi fondamentali: Roderick Frazier Nash, Wilderness and the American Mind, Connecticut 1967 (rev. ed. 2011); Max Oelschlaeger, The Idea of Wilderness from Prehistory to the Age of Ecology, Yale University Press 1993; William Cronon, “The Trouble with Wilderness, or, Getting Back to the Wrong Nature”, Environmental History 1:1 (January 1996), pp. 7-55; Michael P. Nelson, J. Baird Callicott, The Wilderness Debate Rages on: Continuing the Great New Wilderness Debate, 2008; Michael Lewis, ed., American Wilderness: A New History, Oxford University Press 2007.

[2] Leo Marx, The Machine in the Garden: Technology and the Pastoral Ideal in America, Oxford University Press 1964 (35th ed. 2000).

3 Ecopoetics: The Language of Nature, The Nature of Language, Amherst and Boston 2012, p. 2.

[3] Ecopoetics: The Language of Nature, The Nature of Language, Amherst and Boston 2012, p. 2.

[4] Anne Fisher-Wirth & Laura-Gray Street, The Ecopoetry Anthology, San Antonio, Texas 2013, pp. xxxvii-xxxviii.

[5] Robert Langbaum, “The New Nature Poetry”, American Scholar, 1959; republished in The Modern Spirit: Essays on the Continuity of Nineteenth-and Twentieth Century Literature, New York: Oxford, 1970; John Elder, Imagining the Earth: Poetry and the Vision of Nature, 1996; Scott Bryson, ed., Ecopoetry: A Critical Introduction, Salt Lake City 2002.

[6] Sono riconoscente ai miei studenti del corso di Letteratura angloamericana per la Laurea Magistrale 2014-2015 per la collaborazione alla traduzione di alcuni dei testi.

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Le poesie che seguono, liberamente tradotte da Paola Loreto, sono qui effettuate ai soli fini divulgativi e a integrazione del saggio, in forma di citazione. Il saggio e la rivista Poetry Therapy Italia che lo ospita non hanno fini commerciali. I diritti restano ai legittimi proprietari.

Robinson Jeffers (1887-1962)

Carmel Point

The extraordinary patience of things!
This beautiful place defaced with a crop of suburban houses –
How beautiful when we first beheld it,
Unbroken field of poppy and lupin walled with clean cliffs;
No intrusion but two or three horses pasturing,
Or a few milch cows rubbing their flanks on the outcrop rockheads – Now the spoiler has come: does it care?
Not faintly. It has all time. It knows the people are a tide
That swells and in time will ebb, and all
Their works dissolve. Meanwhile the image of the pristine beauty
Lives in the very grain of the granite,
Safe as the endless ocean that climbs our cliff. – As for us:
We must uncenter our minds from ourselves;
We must unhumanize our views a little, and become confident
As the rock and ocean that we were made from.

Carmel Point

La straordinaria pazienza delle cose!
Questo posto stupendo sfigurato da una messe di case residenziali –
che bello la prima volta che lo vedemmo,
un campo ininterrotto di papaveri e lupino murato da nitide scogliere;
nessuna intrusione tranne due o tre cavalli al pascolo,
o qualche vacca da latte che si sfrega i fianchi sulle rocce sporgenti. Adesso è arrivato il predatore: gliene frega?
Neanche un po’. Ha tutto il tempo. Sa che la gente è una marea
che si alza e col tempo si abbasserà, e tutte
le sue opere si dissolveranno. Intanto l’immagine della bellezza pristina vive in ogni granulo di granito,
al sicuro come l’oceano infinito che scala la nostra scogliera. – Quanto a noi: dobbiamo scentrare la nostra mente da noi stessi;
disumanizzare un po’ le nostre vedute e diventare sicuri
come la roccia e l’oceano di cui siamo stati fatti.

da Hungerfield, 1954

§

Wendell Berry (1934-)

The Peace of Wild Things

When despair for the world grows in me
and I wake in the night at the least sound
in fear of what my life and my children’s lives may be,
I go and lie down where the wood drake
rests in his beauty on the water, and the great heron feeds.
I come into the peace of wild things
who do not tax their lives with forethought
of grief. I come into the presence of still water.
And I feel above me the day-blind stars
waiting with their light. For a time
I rest in the grace of the world, and am free.

La pace delle cose selvatiche

Quando il timore per il mondo cresce in me
e mi sveglio di notte al minimo rumore
con la paura di cosa sarà la mia vita e la vita dei miei figli,
vado a sdraiarmi dove il maschio dell’anatra sposa
riposa nella sua bellezza sull’acqua, e l’airone maggiore mangia.
Entro nella pace delle cose selvatiche
che non gravano la loro vita con l’anticipazione
del dolore. Entro alla presenza dell’acqua ferma.
E avverto sopra di me le stelle cieche al giorno
in attesa con la loro luce. Per un momento
riposo nella grazia del mondo, e sono libero.

da Openings: Poems, 1968

§

A. R. Ammons (1926-2001)

For Harold Bloom

I went to the summit and stood in the high nakedness:
the wind tore about this
way and that in confusion and its speech could not
get through to me nor could I address it:
still I said as if to the alien in myself
     I do not speak to the wind now:
for having been brought this far by nature I have been
brought out of nature
and nothing here shows me the image of myself:
for the word tree I have been shown a tree
and for the word rock I have been shown a rock,
for stream, for cloud, for star
this place has provided firm implication and answering
     but where here is the image for longing:
so I touched the rocks, their interesting crusts:
I flaked the bark of stunt-fir:
I looked into space and into the sun
and nothing answered my word longing:
     goodbye, I said, goodbye, nature so grand and
reticent, your tongues are healed up into their own
element
and as you have shut up you have shut me out: I am
as foreign here as if I had landed, a visitor:
so I went back down and gathered mud
and with my hands made an image for longing:
      I took the image to the summit: first
I set it here, on the top rock, but it completed
nothing: then I set it there among the tiny firs
but it would not fit:
so I returned to the city and built a house to set
the image in
and men came into my house and said
      that is an image for longing
and nothing will ever be the same again

Per Harold Bloom

Salii in vetta e stetti lì, nell’alta nudità:
il vento infuriava a destra e a
manca confuso e le sue parole non
mi arrivavano e non riuscivo a parlargli:
eppure dissi come all’alieno in me
       non parlo al vento adesso:
la natura mi ha portato tanto lontano da
portarmi fuori dalla natura
e niente qui mi mostra la mia immagine:
per la parola albero mi è stato mostrato un albero
e per la parola roccia mi è stata mostrata una roccia,
per ruscello, per nuvola, per stella
questo posto ha procurato una risposta e un’implicazione certa
     ma dov’è qui l’immagine per desiderio:
e così palpai le rocce, la loro crosta interessante
feci a scaglie la corteccia dell’abete stentato:
guardai nello spazio e nel sole
e niente rispose alla mia parola desiderio:
      addio, dissi, addio, natura così grandiosa e
reticente, le tue lingue si sono rimarginate nel loro
elemento
e chiudendo la bocca mi hai chiuso fuori: sono
straniero qui come se fossi sbarcato, un visitatore:
e così tornai giù e raccolsi del fango
e con le mani feci un’immagine per desiderio:
portai l’immagine in vetta: prima
       la misi lì, sull’ultima pietra, ma non completò
niente: poi la misi là tra i piccoli abeti
ma non stava bene:
così tornai in città e costruii una casa per metterci
l’immagine
e vennero degli uomini nella mia casa e dissero
        questa è un’immagine per desiderio
e niente sarà più uguale a prima

da Sphere: The Form of a Motion, 1974

§

Gary Snyder (1930-)

Song of the Taste

Eating the living germs of grasses
Eating the ova of large birds

         the fleshy sweetness packed
         around the sperm of swaying trees

The muscles of the flanks and thighs of
                    soft-voiced cows
          the bounce in the lamb’s leap
         the swish in the ox’s tail

Eating roots grown swoll
                  inside the soil

Drawing on life of living
         clustered points of light spun
                out of space
hidden in the grape.

Eating each other’s seed
                      eating
          ah, each other.

Kissing the lover in the mouth of bread:
                      lip to lip.

Canto del gusto

Mangiare i germogli vivi dell’erba
mangiare le uova di grandi uccelli

         la dolcezza carnosa ammassata
         attorno ai semi di alberi oscillanti

I muscoli dei fianchi e delle cosce
                    di vacche sommesse
         lo slancio nel salto dell’agnello
         la sferzata nella coda del bue

Mangiare radici gonfiate
                  nella terra

Trarre vita dai vivi
         grappoli di punti di luce filata
                 dallo spazio
dentro l’uva.

Mangiare l’uno il seme dell’altro
                      mangiarsi
           ah, l’un l’altro.

Baciare l’amante nella bocca del pane:
                   labbro a labbro.

da Regarding Wave, 1970

§

Mary Oliver (1935-2019)

Agosto

Quando le more penzolano
rigonfie nel bosco, nei rovi
che sono di nessuno, io passo
tutto il giorno tra i rami
alti, allungando
le braccia graffiate, pensando
a niente, pigiandomi
il miele nero dell’estate
nella bocca; tutto il giorno il corpo
accetta quello che è. Nei ruscelli
scuri che scorrono vicino c’è
questa grossa zampa della mia vita che sfreccia
tra le campanule nere, le foglie; c’è
questa lingua felice.

da American Primitive, 1978

Qualche domanda che potresti fare

L’anima è solida, come il ferro?
O è tenera e friabile, come
le ali di una falena o il becco del gufo?
Chi ce l’ha, e chi non ce l’ha?
Continuo a guardarmi intorno.
La faccia dell’alce è triste
come la faccia di Gesù.
Il cigno apre le ali bianche lentamente.
In autunno, l’orso nero porta le foglie al buio.
Una domanda porta all’altra.
Ha una forma? Come un iceberg?
Come l’occhio del colibrì?
Ha un polmone solo, come il serpente e la capasanta?
Perché dovrei averla io e non il formichiere
che ama i suoi figli?
Perché dovrei averla io e non il cammello?
Adesso che ci penso, e gli aceri?
E tutti i sassolini, che se ne stanno soli alla luce della luna?
E le rose, i limoni, e le loro foglie luccicanti?
E l’erba?

da House of Light, 1990

§

Jane Hirshfield (1953-)

Of the Body

And what of that other net? The one
we willingly give ourselves to, it is that beautiful –
each knot so carefully made, the curved
plate of the sternum tied to the shape of breath,
the perfect hinge of the knee that opens and closes the earth.
The water of the eye very cold, very clear.
And the sturgeon, the golden carp, how they continue to elude us. Swim straight through and are instantly gone;
though a shadow flickers, remembering.

Del corpo

E cosa dire di quell’altra rete? Quella
alla quale ci consegniamo spontaneamente, è così bella –
ogni nodo stretto così accuratamente, l’osso piatto
e ricurvo dello sterno legato alla forma del respiro,
il cardine perfetto del ginocchio che apre e chiude la terra.
L’acqua dell’occhio molto fredda, molto trasparente.
E lo storione, la carpa dorata, come continuano a eluderci.
Passano senza fermarsi e scompaiono;
ma un’ombra tremola, rammemorante.

Within this Tree

Within this tree
another tree
inhabits the same body;
within this stone
another stone rests,
its many shades of grey
the same,
its identical
surface and weight.
And within my body,
another body,
whose history, waiting,
sings: there is no other body,
it sings,
there is no other world.

Dentro questo albero

Dentro questo albero
un altro albero
abita lo stesso corpo;
dentro questo sasso
un altro sasso riposa,
le molte sfumature di grigio
le stesse,
identici
la superficie e il peso.
E dentro il mio corpo,
un altro corpo,
la cui storia, in attesa,
canta; non c’è un altro corpo,
canta,
non c’è un altro mondo.

da The October Palace, 1994

Optimism

More and more I have come to admire resilience.
Not the simple resistance of a pillow, whose foam
returns over and over to the same shape, but the sinuous
tenacity of a tree: finding the light newly blocked on one side,
it turns in another. A blind intelligence, true.
But out of such persistence arose turtles, rivers,
mitochondria, figs – all this resinous, unretractable earth.

Ottimismo

Ho imparato ad ammirare la resilienza.
Non la semplice resistenza di un cuscino, la cui gommapiuma
torna sempre alla stessa forma, ma la sinuosa
tenacia di un albero: trova la luce bloccata da un nuovo lato
e si volta dall’altro. Un’intelligenza cieca, è vero.
Ma da questa persistenza sono venute le tartarughe, i fiumi, i mitocondri, i fichi – tutta questa resinosa, irritrattabile terra.

da Given Sugar, Given Salt, 2001

§

 


Loreto Paola fotoPaola Loreto insegna Letteratura americana all’Università degli Studi di Milano. Ha pubblicato case | spogliamenti (Aragno 2016), In quota (Interlinea 2012), La memoria del corpo (Crocetti 2007), Addio al decoro (LietoColle 2006), L’acero rosso (Crocetti 2002), le plaquette Spiazzi dell’acqua e Ascesa (pulcinoelefante 2008 e 2018), e Avola (Volo) (Luciano Ragozzino, 2019), le sillogi Conoscenza della neve (Poesia, gennaio 2012) e Transiti (Almanacco dello Specchio Mondadori 2009), oltre a una silloge di poesie sulla montagna (Premio Benedetto Croce 2003) e numerosi testi in rivista e in volumi collettanei.

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