Il racconto di un percorso di avvicinamento intimo alle creature arboree che abitano i Giardini Reali di Monza, guidato da Tiziano Fratus lo scorso mese di settembre.
Per raccontare il percorso dedicato a spiriti selvatici fra natura e buddismo zen a cui Tiziano Fratus ha dato l’evocativo nome “Il tessitore di foreste” mi piace partire dalla fine.
Dall’ultima tappa di un felice vagabondare fra alberi secolari dei Giardini Reali di Monza, pause di meditazione, lettura di versi icastici di accecante bellezza. Un’esperienza condivisa con altri spiriti selvatici che hanno accolto l’invito dell’Associazione Novaluna a partecipare a un percorso a contatto con madre natura.
Parto dalla fine – “su di un cerchio ogni punto d’inizio può anche essere un punto di fine”, diceva Eraclito – perché coincide con il momento in cui ho scoperto che il termine στρατηγία (la cui etimologia ci conduce a un piano semantico legato alla guerra, essendo composto da στρατός, ossia esercito, e ἀγός condottiero) non è prerogativa umana.
L’antropocentrismo occidentale di cui sono figlia non mi ha mai permesso di spostare lo sguardo più in là e scoprire che respirare, pensare e comunicare non siano espressioni unicamente umane.
Circondati dai silenziosi custodi dei Giardini Reali, Tiziano Fratus, autore di una costellazione editoriale che abbraccia manuali, diari di viaggio, romanzi, racconti, raccolte di poesie e boschi miniati e volumi fotografici, ci ha spiegato che anche gli alberi sono soliti adottare curiose strategie per sopravvivere a situazioni ambientali e climatiche estreme, e perpetuare la propria progenie con stratagemmi elaboratissimi sviluppati in simbiosi con la fauna e con l’ambiente circostante.
Così scopro che il bosco è come se fosse un organismo unico, non costituito da tanti individui, ma da una rete di piante che sono connesse le une con le altre. Possono essere direttamente connesse, attraverso le radici, a centinaia, di piante vicine. Attraverso queste radici le piante si scambiano informazioni sullo stato dell’ambiente, nutrimenti e acqua.
Un mutuo appoggio di cui spesso è carente la nostra umanità.
E se la pianta è una rete in sé e per sé, e un bosco è una rete di reti, noi fragili e solitari spiriti selvatici durante questo breve viaggio silvestre ci siamo sentiti un po’ come gli abitanti delle foreste. Abbiamo condiviso momenti di meditazione, abbiamo ascoltato la parola poetica – “pensieri che respirano, e parole che bruciano”, come diceva Thomas Gray - abbiamo osservato le molte sfumature delle chiome imponenti che accarezzano il cielo. Questa preziosa esperienza comunitaria è cominciata in una grotta. Un antro creato da faggi piangenti le cui cortecce, simili alla pelle degli elefanti, sono solcate da cicatrici profonde, enigmatiche, antiche. Qui, in questa intima cappella arborea, i versi dell’abate Zenkei Shibayama (1894-1974)
Alte sono le montagne, verdi sono gli alberi
profonde sono le valli, limpidi sono i torrenti
il vento è lieve, la luna è serena.
Con calma leggo la Vera Parola senza lettere
sono penetrati dentro di noi, rivelando quanto l’immensità della Natura non potrà mai essere compresa in quella parola impotente che avvicina Ungaretti (“La parola è impotente, la parola non riuscirà mai a dare il segreto che è in noi”) alla mistica Angela da Foligno per la quale parlare di Dio era esperienza impossibile, addirittura “devastante”.
La più grande Quercia Rossa Americana di Italia ci fa compagnia per la seconda tappa del nostro cammino. Accanto al suo tronco, attraverso il fluire delle parole del maestro coreano Bopjong (1932-2010), comprendiamo che la natura non sa mentire e solo attraverso la coltivazione del non possesso si potrà poi “mietere quel che si semina”.
Il percorso continua e, dopo avere immerso il nostro sguardo fra le fronde azzurrine di un imponente Cedro dell’Atlante, ci abbandoniamo a una pausa di meditazione durante la quale lasciare andare i nostri pensieri per ritrovare la nostra più intima identità.
Saranno poi i versi di Jacques Brosse (1922-2008), naturalista e storico degli alberi, allievo di Taisen Deshimaru e monaco zen, a scuoterci:
Alla fine del deserto,
alla fine della notte,
c’è un’allodola che canta.
Un invito ad accettare di perdere tutto, fare ecologia di sé, per riscoprirsi capaci di osservare la realtà con una nuova meraviglia: quella di chi vede anche nella più piccola foglia un mondo misterioso da amare con stupore.
(nelle immagini cartoline fotografico-poetiche regalate da Tiziano Fratus ai partecipanti)
Giovanna Canzi è giornalista, editor di libri per ragazzi e insegnante presso Il Centro di educazione agli adulti di Monza e Brianza. Ha curato alcune mostre: "A casa di Alberto Casiraghy" per la Galleria Leo Galleries di Monza, mentre per la Galleria Melesi di Lecco “Assonanze allo specchio”, dedicata al confronto fra due artisti Jiří Kolář e Alberto Casiraghy.