A distanza di settant’anni dalla pubblicazione di Dietro il paesaggio (1951), non esiste tuttora, nell’interpretazione complessiva dell’opera di Zanzotto, termine più frainteso e opacizzato di “paesaggio”. Una nuova interpretazione eco-geografica ci viene offerta da questo testo critico di Giovanna Frene, presentato il 19 novembre 2021 al Convegno internazionale Conglomerati. Andrea Zanzotto’s poetic clusters, che si è tenuto il 18-19 Novembre 2021 presso l’Università di Oxford.
A distanza di settant’anni dalla pubblicazione di Dietro il paesaggio (1951), non esiste tuttora, nell’interpretazione complessiva dell’opera di Zanzotto, termine più frainteso e opacizzato, ma allo stesso tempo potenzialmente ricco di prospettive ermeneutiche, di “paesaggio”, del quale si deve dare una nuova interpretazione geografica polivalente. Si pone la necessità in generale, nell’interpretazione dell’opera di Zanzotto, di premettere al paradigma letterario un paradigma geografico, cioè di anteporre una teoria della percezione ecologica a quella della rappresentazione a livello estetico, perché quello che si legge nei testi di Zanzotto è la ricaduta estetica, quindi sempre una traduzione attraverso dispositivi, di una intuizione-percezione del “paesaggio”; questo permetterà di focalizzare l’attenzione primariamente sui luoghi, e non sui tempi, perché i dispositivi estetici rimandano sempre ai luoghi. In questo senso, a livello anche di distribuzione spaziale del complesso delle opere poetiche di Zanzotto, sarebbe preferibile parlare di trittici, piuttosto che di trilogie, proprio per sottolineare che il dispositivo estetico si avvale della dimensione sensoriale per tradurre la relazione biunivoca paesaggio/soggetto.
La prima sezione di questa nuova analisi del termine “paesaggio” parte dalle acquisizioni ancora valide della visione critico-epistemologica di paesaggio (Humboldt 1847), dimostrando che quel soggetto geografico, interdipendente con il paesaggio, corrisponde al soggetto poetico della prima parte della produzione poetica zanzottiana; per approdare alla visione analitico-sistemica tipica dell’era industriale e post-industriale (da Biasutti 1947 a Meschiari 2010a), che riflette perfettamente, nella perdita dell’unità conoscitiva del paesaggio, la frantumazione del soggetto geografico espressa da La beltà (1968) in poi, spiegando da un lato in maniera nuova l’implicazione della tecnica nell’opera zanzottiana (Heidegger 1976), dall’altro la trasformazione del testo poetico, e del libro stesso, in mapping dei luoghi del trauma soggettivo e storico (i “paesaggi contaminati”, Pollack 2017), in particolare ne Il galateo in bosco (1978).
La seconda sezione, fondandosi sull’ecocriticism nordamericano e sulla recente elaborazione ermeneutica italiana, che ha evidenziato essere le opere letterarie strumento principe per analizzare i rapporti tra uomo e ambiente (Scaffai 2017), si sviluppa attorno al concetto di “intelligenza ecologica” (Meschiari 2010) e “mente-paesaggio” (Meschiari 2017 e 2010b), nel tentativo di rintracciare diacronicamente nell’orizzonte della testualità zanzottiana gli elementi che esprimono le costanti dei moduli cognitivi innati dell’uomo, nonché le varianti della lettura che ogni società fa del suo sistema geo-ecologico, facendo infine risultare quali immaginari Zanzotto abbia espresso nel tempo mediante il paesaggio, fino alla ricapitolazione di Conglomerati (2009).
Per ragioni di tempo, in questo breve intervento focalizzerò la mia attenzione sull’inizio e sulla fine della poesia di Zanzotto, non a caso per creare un “effetto cornice”, connesso al “paesaggio”: nel caso del concetto di “soggetto geografico” traccerò le linee generali della sua corrispondenza con il primo “trittico” della poesia di Zanzotto, specialmente Dietro il paesaggio and Vocativo; e parallelamente per il concetto di “intelligenza geologica” verrà segnato qualche spunto in corrispondenza del “trittico” finale della poesia di Zanzotto, specialmente Sovrimpressioni and Conglomerati.
Per entrambi gli aspetti, c’è una frase di Zanzotto che, a distanza di tanti anni dalla sua formulazione, è del tutto centrale, e si trova nella videointervista Ritratti che Marco Paolini realizzò con Carlo Mazzacurati nel 2001:
Noi, in un primo tempo, siamo una specie di centro mobile, che si sposta, con noi stessi, ricentrando gli orizzonti e i limiti. Poi, mano a mano che si accumula una nostra storia psichica, ci accorgiamo di trovarci perpetuamente nascosti dietro il paesaggio, oppure davanti, o immersi in un continuo gioco del suo “trapungere”. Un paesaggio ideato come qualcosa che punge e trapunge e di cui noi siamo una specie di spoletta, che si aggira in mezzo, che cuce… oppure qualcosa che taglia. Quindi, mano a mano che si accumula una nostra storia psichica, noi la depositiamo in questo paesaggio, che all’origine aveva già una sua autorità e che accoglie, poi, le ferite che noi gli inferiamo.
Questa affermazione è davvero capitale, se si pensa che il principio alla base di un possibile paradigma eco-geografico è proprio quello di interrelazione, cioè di relazione biunivoca, tra soggetto e paesaggio, come spiega per esempio lo studioso Ugo Morelli in Mente e paesaggio. Una teoria della visibilità:
Il paesaggio è dentro di noi prima di essere intorno a noi. Realizziamo nel mondo in cui viviamo il paesaggio che abbiamo nella mente […]. A partire dalla configurazione delle mente di un bambino e dalla costruzione del suo senso di appartenenza, il paesaggio è la prima immagine del mondo, dopo i volti familiari, che ognuno di noi si costruisce. […] Così come la parola in noi umani fa da ponte tra l’orizzonte del reale e l’orizzonte mentale, allo stesso modo il paesaggio fa da ponte tra noi e il mondo, presiede alla nostra coevoluzione e al nostro accoppiamento strutturale con il mondo. Per ciò stesso il paesaggio è a un tempo dentro di noi e intorno a noi, è un margine di connessione tra il mondo interno e il mondo esterno.
In questo senso, l’estetica che la poesia di Zanzotto fonda è progettuale e mobile, perché offre teorie della visibilità che sono riconoscimenti di uno spazio di vita: in sostanza la poesia di Zanzotto offre non un paesaggio, ma una serie di paesaggi, intesi questo come frutto del positioning del soggetto-poeta rispetto all’oikos di cui fa parte, e questi atti di positioning si esprimono principalmente nell’enactment, cioè nel processo di emanazione di azioni e segni linguistici con cui il soggetto-poeta crea sé stesso mentre costruisce il mondo in cui vive.
Così, il paesaggio che emerge dal primo trittico di opere, specialmente in Dietro il paesaggio e Vocativo, è indubbiamente un luogo estetico, cioè un dispositivo, che si configura come un “giardino/hortus”, e d’altronde, è lo stesso Zanzotto ad affermare che “il paesaggio ha una veste di incanto e gabbia”, richiamando con questo la fascia paradisiaca che il padre dipinse per il poeta bambino nella sua camera da letto: tutti gli elementi naturalistici vi assumono una connotazione emblematica, e non è difficile mentre si legge raffigurarsi nella mente una di quelle miniature medievali che rappresentano un luogo di vita ideale, appunto un hortus conclusus. Tuttavia, la suggestione che offre Zanzotto è più complessa, se si considera quanto teorizzato anni fa e in anticipo sui tempi da Rosario Assunto, ossia che il giardino si pone come paesaggio assoluto, “coincidenza totale tra idea e realtà”; in questo senso, l’opera poetica del primo Zanzotto si pone come tensione ideale tra il paesaggio, inteso come “forma diffusa”, e il giardino, inteso come “cristallizzazione” di quella forma, il che avalla ancora una volta la centralità, geografica, del luogo/topos. Così, nella tensione tra “paesaggio” e “giardino”, vanno a concretizzarsi anche le oscillazioni dialettiche tra “aperto” e “chiuso”, “non proprietà” e “appartenenza”, “naturale” e “artificiale”, molteplicità dei punti di vista e standardizzazione degli stessi.
Quanto all’ultimo Zanzotto, cioè al trittico che ha come centrali Sovrimpressioni e Conglomerati – a cui si arriva dopo il “luogo confusivo” che ha come perno La beltà, e dopo il “luogo cartografico” che ha come centro Il galateo in bosco –, si è più volte accennato alla dimensione geologica inerente a questa poesia e al “megatempo” che vi sarebbero collegato; fatto salvo che si dovrebbe parlare piuttosto di un “megaluogo” (ossia di qualcosa che è del tutto fuori scala rispetto ai parametri umani), la cosa più pressante è inquadrare nella giusta interpretazione il dispositivo geografico che è prevalente in queste opere, ossia il distanziamento/straniamento, che si traduce nel dispositivo estetico della distopia ecologica: mai come in queste opere si assiste alla rappresentazione dei disastri ecologici prodotti dall’uomo, fin dentro la genetica, nelle viscere della vita stessa. Ma ancora una volta centrale è capire, prima di tutto, i motivi del distanziamento: essi sono riconducibili non tanto a una passiva constatazione del degrado e della crisi della natura prodotte dall’uomo, ma a una necessità di riposizionamento nel mondo naturale così devastato, in modo da permettere una decentralizzazione dell’uomo nell’ambiente, perché al centro vi è appunto l’oikos, la casa comune. In questo senso, non è corretto affibbiare all’ultimo Zanzotto alcun termine riferibile al concetto di “Antropocene”, perché si andrebbe immediatamente in una direzione opposta da quella proposta da Zanzotto; così come non è corretto tracciare un ritratto conservatore del poeta, tanto da dipingerlo come un nostalgico della bellezza ormai tramontata di un antico paesaggio veneto. Alla poesia di Zanzotto, infatti, interessa la vita presente, in qualsiasi sua forma.
[Letto il 19 novembre 2021, in inglese, al Convegno internazionale Conglomerati. Andrea Zanzotto’s poetic clusters, University of Oxford, UK, 18-19 November 2021]
Giovanna Frene, poeta e studiosa, ha pubblicato tra l’altro: Sara Laughs, D’If 2007; Il noto, il nuovo, Transeuropa 2011; Tecnica di sopravvivenza per l'Occidente che affonda, Arcipelago Itaca 2015; Datità, postfazione di A. Zanzotto, Arcipelago Itaca 2018.
È inclusa in varie antologie, co-dirige il lit-blog “Inverso. Giornale di poesia” e collabora con varie riviste, tra cui “Antinomie” e “Semicerchio”.
(foto di Dino Ignani)