Leonora Cupane riflette sulle basi filosofiche dell’ecopsicologia e dell’ecopoesia, indagando il ruolo che la scrittura poetica può avere nell’esperienza ecopsicologica, fino a domandarsi quale poesia possa dirsi ecopoesia, auspicando un’ecopoesia obliqua – secondo il suggerimento di Antonella Anedda – e ipotizzando che la poesia sia intrinsecamente ecologica.
L’ecopsicologia, la silvoterapia e la medicina forestale (quest’ultima derivata dallo shrinrin-yoku giapponese) si stanno sviluppando rapidamente in tutto il mondo occidentale, a testimoniare l’urgenza di modificare l’approccio dell’umano alla natura, data la drammaticità dell’emergenza ambientale e il crescente disagio che il progressivo inabissarsi del “inconscio ecologico” sta provocando a livello individuale e sociale. Il distanziamento dalla natura è un processo la cui complessità non è affrontabile in questa sede: possiamo dire con Luigina Mortari che “da Parmenide a Hegel […] il pensiero occidentale si è costruito a partire da un’eclissi della corporeità” (Mortari, 2017, pp.14-15).
Per Platone, la vera realtà è il mondo immateriale delle idee, mentre il mondo sensibile e vitale è illusorio, e paragona l’anima a Glauco, un essere marino coperto da fango, alghe, conchiglie, il cui volto è invisibile: ciò che è terrestre è zavorra e ostacolo alla verità. Sempre Platone fa dire a Socrate che il filosofare deve avvenire in città, perché “la campagna e gli alberi non vogliono insegnarmi nulla” (Platone, Fedro, 230D).
La religione cattolica, con la sua idea di mortificazione della carne e la svalutazione della vita terrena, e la distinzione cartesiana fra realtà psichica e realtà fisica, in cui si auspica un pensiero del tutto sganciato dai sensi, sanciscono ulteriormente la separazione fra mente e corpo. Inoltre, come afferma Stefano Righetti, il valore dato al tempo “utile”, volto alla produttività, al profitto e al raggiungimento di obiettivi futuri anziché alla presenza nel qui e adesso in seno allo “spazio della vita in cui ci è dato di essere in un rapporto reciproco”, ha scollato sempre di più l’essere umano dal suo intorno, scorporandolo dalla natura.
È con la fenomenologia, e in particolare con Merleau-Ponty, che il pensiero filosofico si rivolge nuovamente al corpo e alla relazione fra umano e natura, che è la sua stessa carne: corpo e natura sono fatti di una stessa carne, fra di loro c’è “un rapporto di abbraccio” (M.P, 1999, p. 280). Il contatto che il corpo ha con il mondo è chiasmatico, è “una relazione altrettanto stretta come quella fra il mare e la spiaggia” (M.P., ibidem, p.147), “siamo tutti nodi della medesima vibrazione ontologica” (ibidem, p.134).
Il fatto che il corpo sia dotato esattamente dei sensi che servono a esplorare il mondo definisce una relazione d’intimità profonda e carnale e di reciproca appartenenza. Per questa ragione, quando mettiamo in campo “energie che non sono nel quadro del mondo, ma che lo condizionano e potrebbero distruggerlo” (Merleau-Ponty, 2003, p.9), quando ci strappiamo dalla carne del mondo, stiamo mettendo in pericolo la nostra stessa esistenza.
Allontanandoci dal contatto con la natura ci siamo dunque disincarnati, mutilati, siamo divenuti esseri scissi; e nella scissione, nella frammentazione, soffriamo e facciamo soffrire, poiché chiunque non sia integro non sente l’integrità dell’altro, non lo riconosce come intero e può smembrarlo come ha smembrato sé stesso, in un circolo vizioso inarrestabile la cui pericolosità tutti tocchiamo con mano. Dimenticarsi di un legame millenario con la nostra radice materiale e naturale che fa parte integrante di noi, sentirla estranea, utilizzarla in modo meccanico e alienato, danneggia la salute del pianeta tanto quanto la nostra.
Occorre adesso, con urgenza, ripristinare la relazione perduta con se stessi, con l’altro e con il mondo, attraverso un radicale capovolgimento di valori e priorità, un mutamento di paradigma filosofico che avverrà attraverso una discesa nella carne del mondo, una presa di contatto concreta e corporea con l’ambiente naturale, i suoi elementi e le sue creature. L’opera di riconnessione con la Terra si darà nel campo vivo d’un corpo a corpo, inteso come danza e amoreggiamento e non come lotta.
Numerose ricerche scientifiche hanno dimostrato come l’immersione nella natura – soprattutto come pratica frequente, secondo criteri indicati da esperti – incrementi in modo rilevabile il benessere psicofisico, rivelandosi un farmaco potente contro numerose malattie, sia in modo diretto – a causa di sostanze benefiche rilasciate dalle piante – sia in modo indiretto, perché il nostro sistema nervoso ed endocrino rispondono al bagno di foresta diminuendo la produzione di cortisolo, colesterolo e citochine infiammatorie, rallentando ritmo cardiaco e respiro, rigenerando l’attenzione. Ma qual è la causa di questo fenomeno? Possiamo ipotizzare che sia perché finalmente ci ritroviamo “a casa”, riuniti alla nostra radice, ricomposti. Nel nostro DNA è inscritta la necessità di un habitat naturale. E quando lo ritroviamo e ci sentiamo bene, il benessere ci apre alla gratitudine e all’ascolto. Se riusciamo a porci in quella condizione media, ricettiva/attiva, che caratterizza la reciprocità e la co-creazione, ci accorgiamo che il corpo a corpo con la natura è in grado di modificare profondamente il nostro approccio al mondo, riattivando l’inconscio ecologico e rinsaldando/rifondando “l’identità terrestre” perduta o tramortita. Il bagno di foresta ci reintegra nella nostra matrice e riattiva nelle cellule l’empatia carnale con il mondo inscritta nel nostro DNA, spazzando via ogni possibilità di rapporto meramente strumentale con la natura. Fra il benessere personale e quello dell’ecosistema si instaura così una circolarità virtuosa. Gli studi di medicina forestale si innestano dentro la filosofia merlopontiana come un uovo nel nido: la natura ha questi effetti su di noi perché partecipiamo intimamente della sua tessitura.
Come si inseriscono in questo discorso ecopsicologico ed ecofilosofico l’ecopoesia, o ecopoetry, nata in ambito statunitense alla fine del secolo scorso e ormai diffusa in gran parte del mondo, con l’obiettivo di sensibilizzare le coscienze verso le problematiche ambientali?
Sembrerebbe non esservi alcun collegamento fra i due ambiti.
Infatti, nel bel saggio Ecopsicologia (2020) di Marcella Danon nessuno spazio è dato dalla pratica poetica come possibile detonatore di consapevolezza ecopsicologica, e anche nel pregevole manuale Clorofillati (2019), della stessa autrice, non si propone alcuna esercitazione di scrittura – nemmeno in prosa – rispetto all’esperienza fatta. Un unico suggerimento di scrittura è presente nel Manuale pratico di terapia forestale di Mirco Tugnoli (2021).
Credo che qui si possa aprire un fecondo spazio di riflessione: forse la scrittura, che costringe a interrompere il fluire del contattare sensoriale per organizzare un discorso, potrebbe rappresentare un’interferenza, una razionalizzazione che fa perdere l’integrità dell’esperienza.
Tuttavia, Anna Maria Ortese afferma che è sempre stata animata dalla necessità incoercibile di “cogliere e fissare, seppure il tempo di un istante, il meraviglioso fenomeno del vivere e del sentire”, i “volti fluenti e insondabili della potenza naturale” (Ortese, 1997, pp. 63-64). Più in là, precisa che mettere in versi la sua emozione di fronte al vivere e “vederla calmarsi e divenire altra” è un’esperienza gioiosa e liberatoria. È “l’emozione della forma”, come lei stessa la definisce (ibidem, p. 71). L’essere umano esperisce drammaticamente la finitudine, l’impotenza nei confronti del tempo inarrestabile, del deperire delle cose, la sua inettitudine nel coglierne l’essenza: “davanti a una fragola, a un mandarino, a una rosa, si può svenire, in un certo senso, per il dolore del loro inconoscibile essere” (ibidem, p. 129).
La pura esperienza dello stare nel qui e adesso, nell’apertura di fronte alle cose così come sono, non sembra dunque sufficiente per assimilare, sedimentare e trasformare l’esperienza in un nutrimento arricchente, perché siamo esseri essenzialmente linguistici e nominando elaboriamo l’esperienza.
Nei due saggi filosofici Sentire e scrivere la natura di Chiara Zamboni (2020) e La materia vivente e il pensare sensibile di Luigina Mortari (2017), viene indicata proprio la scrittura come via necessaria per consolidare e rendere “reale” l’esperienza del rapporto con la natura.
Mortari, citando Heidegger, sottolinea come “non c’è la cosa dove la parola manca, solo quando c’è la parola la cosa viene alla presenza”: come dire, senza messa in parola non esiste esperienza che possa chiamarsi tale. Così anche Yves Bonnefoy: “È pericoloso impiegare le parole, ma se non ci fossero le parole, si saprebbe che ci sono delle cose? Per ritrovarsi in presenza è pur necessario passare attraverso il linguaggio” (Bonnefoy, 2010, p.18). Lo stesso Merleau-Ponty dichiara che “l’oggetto più familiare ci sembra indeterminato finché non ne abbiamo rintracciato il nome”.
Eppure, trovo illuminante un proverbio serbo che recita “puoi anche non chiamarmi vaso, basta che non mi rompi”, come a restituire valore prioritario al senso preverbale, concreto, immediato, dell’intorno in cui siamo immersi. Possiamo forse dire che un pesce o una scimmia non facciano esperienza del loro ambiente poiché non sanno parlarne?
Daniel Stern ha studiato per molti anni il ruolo cruciale della conoscenza e della comunicazione implicita, rivelando quanta parte del sapere relazionale non passi assolutamente per canali verbali. Per di più, egli osserva: “Quando un’esperienza viene espressa a parole si guadagna e si perde qualcosa. Si perde in integrità, autenticità e ricchezza”. Si chiede poi se esista “una qualche forma di resistenza che opera per contrastare questa perdita e che mantiene alcune esperienze nel loro complesso stato originario. Una resistenza estetica e morale contro l’impoverimento dell’esperienza vissuta” (Stern, 2005, p 120).
È possibile che una di queste forme di resistenza sia la poesia, capace di operare fondendo le attività dell’emisfero destro con quella dell’emisfero sinistro, il processo primario legato all’inconscio e alla dimensione preverbale con quello secondario legato alla parola, alla razionalità e alla concettualizzazione. Come le recenti scoperte neuroscientifiche dimostrano, la poesia è l’unica attività verbale dove le due modalità sono compresenti e in cui, secondo Giuseppe Baiocco, avviene una “sintesi magica” che vede coinvolti, a livello cerebrale, sia nella produzione che nella fruizione “alcuni circuiti operativo-funzionali connessi con le vie dell’integrazione audio-ritmico-motoria nonché con quelle della prosodia verbale, della reazione emotiva, della meraviglia e del piacere”. Inoltre, il cervello è predisposto per trattare il linguaggio figurato, che è una delle principali caratteristiche della poesia, “come fosse una pittura, che coinvolge quindi la parte destra, e per questo rinforza la carica emozionale e immaginifica di un verso” (Baiocco, 2018, p.128). Il cervello sa elaborare la poesia sia come linguaggio digitale che come linguaggio analogico, e sa “costruire versi percepibili come immagini visuali, come un tutt’uno gestaltico che sommerge all’unisono l’insieme delle vie sensoriali e le inonda di sé tutte nel medesimo tempo percettivo” (ibidem, p.132).
Il fenomeno poetico è quindi un modo unitario di dire l’esperienza, per cui l’essere umano è innatamente predisposto. La poesia potrebbe dunque essere quell’unica parola capace di non disconnetterci dall’esperienza del contatto con la Terra, ma al contrario di intensificarla.
Ancora con Bonnefoy possiamo dire che “la poesia è una maniera di rendere più intenso il rapporto con la realtà per mezzo di un’espressione reinventata” (ibidem, p.16) è “un incontro diretto con il luogo terrestre, nato dal desiderio di rendere più immediato il rapporto dello spirito con il mondo” (ibidem, p.17) “all’origine della poesia c’è un’intuizione che vuole restituire alla percezione del mondo e all’incontro con l’altro la loro pienezza” (ibidem, p.35), “siamo inseguiti dal ricordo di una realtà una, indivisa, ed è ciò da cui trae origine il lavoro della poesia” (ibidem, p.5).
Non a caso, sia Mortari che Zamboni, nelle opere citate, non parlano di scrittura tout court, ma specificamente di poesia, come strada maestra per approssimarsi descrivere e rendere l’esperienza della natura, seguendo il pensiero di Maria Zambrano.
Per Zamboni (ibidem, p.185) “la natura non va considerata come quel grande oggetto privo di senso fuori di noi a cui saremmo gli unici a dare un significato, ma piuttosto noi partecipiamo della natura e siamo in grado di rilanciare linguisticamente quel che è abbozzo di senso in essa”, il suo “balbettare”.
È una questione delicata: a mio avviso, definire la natura come un ente che ha un abbozzo di senso che attende l’umano per essere completato grazie al linguaggio riflette una visione ancora troppo antropocentrica. Che il linguaggio crei il pensiero non deve essere qualcosa che noi assumiamo passivamente, a mio avviso occorre una visione più ampia, che valorizzi come dotate di senso anche esperienze totalmente non verbalizzabili, implicite, secondo la lezione di Stern e del proverbio serbo. Non è la natura che balbetta, siamo noi che balbettiamo nel tentativo impossibile di tradurla in parole.
Detto questo, non prescindiamo dal linguaggio, siamo esseri parlanti e la scommessa è quella di trovare un modo per raccontare la natura che aderisca il più possibile alla sensorialità e totalità di questa esperienza: da anni peroro la causa della poesia, capace di rifondare la parola riconnettendola al corpo, contro la pretesa di estrometterla del tutto in quanto prodotto intellettuale che impedisce il contatto fluido con l’accadere. Infatti, “la parola non è un processo parallelo al vissuto corporeo: essa fa parte della capacità integratrice del corpo stesso. […] la parola vera, quella portatrice di spontaneità, sgorga dal corpo, è anch’essa movimento, azione” (Spagnuolo Lobb, 2013a, p.59).
Una parola ritmica, cinetica, musicale, immaginale come quella poetica è corpo e non interrompe l’esperienza di immersione nella biosfera, ma anzi può potenziarla, moltiplicarla, e soprattutto rilanciarla nel mondo. Infatti, la scrittura poetica può sostenere la causa ecologica e la pratica ecopsicologica perché è un modo potente per condividere con altri esseri umani l’avventura del ricontattare la Terra, coinvolgerli, creare un “fondo poetico comune” dello stare al mondo, una sensibilità compartecipata, che possa generare cambiamenti anche radicali nel modo di sentire la natura in persone che magari ne leggono dalla cella di una prigione, dal letto di un ospedale, da appartamenti in condomini circondati da cemento, o anche da una villa con un sontuoso giardino con cui però non si è entrati in contatto pieno, non si conoscono le nervature delle foglie, il brillare del raggio di sole sulla mela a una certa ora del giorno, il terriccio smosso dai lombrichi... ed ecco che, avendo letto una poesia su un bosco lontano, viene alla presenza anche il proprio giardino inascoltato. La poesia su un’ala di farfalla in Australia può illuminare il coleottero sul nostro davanzale. Creando vuoti e pause, lasciando il silenzio e il bianco intorno ai versi, la parola poetica fa emergere dallo sfondo singoli elementi rendendoli vibratili, accesi; grazie agli incroci delle vie neuronali a cui si accennava più sopra, il rincorrersi e intrecciarsi dei suoni coinvolge attraverso l’udito tutti gli altri sensi, incluso il tatto, il più primordiale. Chi non si è mai inginocchiato a toccare la terra o soffermato ad accarezzare i petali di un fiore, attraverso lo spessore tattile evocato dai suoni riesce a sentire qualcosa che magari è davanti ai suoi occhi ma di cui non ha mai fatto autentica esperienza. In più, come fa notare Merleau-Ponty “ogni frammento del mondo – e particolarmente il mare, ora solcato da vortici, increspato, ornato da lembi di spuma, ora massiccio e immobile in se stesso – contiene ogni specie di figure dell’essere […] ci fa conoscere, oltre che se stesso, un modo generale di dire l’essere” (M.P., 2003, pp. 82-83).
Essendo fatti della stessa carne del mondo, ogni evento ed elemento naturale, ogni movenza animale, richiama un modo umano di essere al mondo; siamo uno la metafora dell’altro, ed è questo risuonare empatico, che trova il suo corrispondente neurofisiologico nei neuroni specchio, a rafforzare il nostro senso di comunanza terrestre.
Entriamo così nel secondo punto cruciale di questa trattazione: se è vero che scrivere poeticamente della natura può coinvolgere carnalmente gli altri esseri umani, “tirarli dentro” esperienze di contatto profondo con la natura agendo finanche sulle strutture neuronali, in che termini la poesia può dirsi ecopoesia? Mi chiedo se, per salvaguardare la relazione fra persone e ambiente spronando all’azione, sia necessario che il soggetto della meditazione ecopoetica sia il patire esplicito della natura calpestata e devastata, l’urlo dell’animale straziato, o se possa invece darsi una ecopoesia “obliqua”, per riprendere una nota poesia di Emily Dickinson citata da Antonella Anedda (Anedda, Biagini, 2021, p. 61): avere un approccio laterale alla realtà che si intende illuminare, come il raggio di luce che, obliquo, non abbaglia, ma permette il rivelarsi delle forme insieme alle loro ombre, laddove la luce piena può abbacinare, essere quel “troppo” che azzera la profondità della visione, e “invece di commuovere stanca, volendo insegnare annoia” (ibidem). Il rischio esiste, quando ci si circoscrive l’oggetto del poetare in modo intenzionale.
Mary Oliver, una delle più importanti poetesse statunitensi contemporanee, è considerata una antesignana dell’ecopoetry, ma non un’ecopoeta, poiché nella sua opera non denuncia il degrado ambientale, non entra sistematicamente nel vivo delle sofferenze dell’ambiente naturale e degli animali. Se però leggiamo le sue poesie, sentiamo che tutto il vivente non umano è al centro e lei ne canta l’esistenza senza idealizzazioni romantiche, astrazioni e stereotipi, in un’indagine biocentrica inesausta, concentrata e attenta a ogni singolarità, che è colta in un perenne oscillare di somiglianze – prossimità e differenze – lontananze dall’io scrivente, tale da suscitare un perturbante cortocircuito cognitivo ed emozionale che produce un interesse profondo.
“La natura entra nell’orizzonte dell’io modellandolo” (Binasco, 2020, p.44), ma senza alcuna illusione di fusionalità: il dialogo è con un’alterità da cui ci siamo staccati e che ci chiama sollecitando domande e presa di responsabilità. Sono poesie di Mary Oliver come Il cigno, Giorno d’estate, Oche selvatiche, ad aver risvegliato in me la sensibilità verso l’ecosistema.
Dunque, che cosa può essere considerato ecopoetico?
Secondo Alejandra Pizarnik “Ribellione è guardare una rosa fino a polverizzarsi gli occhi”.
Lo sguardo del poeta che rischia la trasformazione estrema, l’incenerimento, la de-composizione, pur di stare con ciò che guarda senza tirarsi indietro, per me è lo sguardo di poeti come Mary Oliver. Stare nell’aperto, nell’intorno che è anche dentro, in prossimità della matrice-natura sentendone l’avvolgimento e anche la dolorosa separazione che ci induce a un riavvicinamento: scrivere della natura, di tutto ciò che vi si incontra, di ogni dettaglio anche minimo, apparentemente trascurabile (“Io credo che un filo d’erba non valga meno/ della quotidiana fatica delle stelle”, diceva Walt Whitman), per aprire tutti i sensi del lettore sensibilizzandolo verso l’esistenza di ogni singolo ente, con quella ammirazione meravigliata e innamorata che, secondo Maria Zambrano, è la sola via della conoscenza.
Fare ecopoesia per me è soprattutto questo: poesia rivolta al mondo, che allarghi la percezione oltre il soggetto e interpelli e coinvolga il lettore in una relazione viva e corporea, al di là di ogni retorica e luogo comune, con la Terra e il cosmo, i suoi elementi, movimenti, cicli, le sue creature e manifestazioni, in modo da risvegliare la biofilia, l’inconscio ecologico, l’identità terrestre, il senso di Terra-Patria di cui parla Edgar Morin (1993): “L’invasione dell’iperprosa rende necessaria una potente controffensiva di poesia […] la presa di coscienza della Terra-Patria basta da sola a metterci in uno stato poetico” (p.182).
Infine, vorrei sottolineare come la pratica della poesia sia già intrinsecamente ecologica.
La poesia infatti scorge parentele, ponti, si muove sempre percorrendo la “struttura che connette” di cui parlava Gregory Bateson, come se avesse occhi per vederla, dita per percepirla.
“È solo nella scrittura poetica che possiamo connettere il molteplice creando un tessuto” afferma ancora Zamboni (ibidem, p.121), e questa tessitura non imprigiona, ha maglie aperte e fluide:
“la poeticità della cosa sta nel movimento infinito che la contraddistingue è che non è riducibile a un’identità limitata. Ciascun essere ha la possibilità di altre vite e la poesia può offrirgli questo riconoscimento nella scrittura” (ibidem, p.29).
La poesia, infatti, è quel luogo dove ogni elemento può diventare un altro (grazie al pensiero metaforico), un colore trasfondersi in un suono (le sinestesie che mettono in comunicazione i sensi, le corrispondenze baudeleriane), una goccia somigliare a un’arca, un dondolio ritrovarsi in un raggio di luna. Qualunque sia il suo oggetto, accresce l’esperienza della traità, dell’interessere, tramite i suoi strumenti specifici, e attraverso il suo continuo rimettere in gioco plasticamente il linguaggio consente di “cogliere la molteplicità del divenire delle sue forme aperte a nuove nascite, aggirando la staticità di un’unica forma individuante, che linguaggio comune le attribuisce” (ibidem, p.131).
La poesia aderisce così perfettamente alla natura, caratterizzata da un fiorire e divenire incessante di forme sempre trasformanti e di colori cangianti: “per descrivere queste foglie si dovranno usare parole colorate”, diceva Thoreau (1963, p.302).
Inoltre, la poesia tratta in modo ecologico le singole parole, non le spreca, le reinventa e ricicla in modo creativo, le rigenera salvandole dalla fossilizzazione; ne preserva la libertà, poiché non le rinchiude nelle gabbie del concetto ma ne lascia sprigionare tutto il potenziale sensoriale, come fossero creature selvatiche che devono respirare, volare, balzare; o piante, che possono spargere semi, intrecciarsi in modi sorprendenti fra loro come rampicanti, fiorire di sensi imprevisti e fecondi.
È una lingua costitutivamente ecologica: la poesia, quando è tale, è già “ecopoesia”.
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Leonora Cupane è una psicologa, psicoterapeuta della Gestalt, specialista in metodologie autobiografiche nelle relazioni d’aiuto (è stata docente e collaboratrice scientifica della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari) e studiosa appassionata di poesia come forma di cura. Vive a Palermo ma conduce laboratori di autobiografia e poetry therapy anche nel resto d’Italia. Ha fondato la scuola di scrittura narrativa d’invenzione Nientetrucchi e coordina un agriturismo letterario dove sta realizzando un bosco poetico.
» La sua scheda personale.