L’esperienza e l’interesse di Paola Loreto, poetessa e docente di Letteratura Americana, dall’ecocritica all’ecopoesia, passando per l’ecopoetry americana.
Ecopoesia: potresti darci una definizione che ne riassuma il senso?
L’ecopoesia è quella poesia della natura che rappresenta il mondo come un ecosistema, nel quale il soggetto umano è alla pari, e necessariamente interrelato, con tutte le entità nonumane. A differenza della poesia della natura tradizionale, per esempio romantica, non è antropocentrica, cioè non pone al centro del mondo il soggetto umano come superiore rispetto al nonumano, grazie alle prerogative della ragione e del linguaggio. Perciò, a differenza della nature poetry romantica, non proietta illusoriamente sugli elementi naturali i sentimenti umani, antropomorfizzandoli. Come nelle origini della poesia (e contro ogni infinito differimento decostruzionista), vuole tornare ad esprimere, e a riguardare, il mondo in cui viviamo, di cui abbiamo esperienza. Lo fa come la poesia delle origini, che era canto: attraverso un linguaggio incarnato e implicato nella materia delle cose: che si mantiene prossimo alla nostra esperienza sensibile del mondo e la significa attraverso i suoni, le sensazioni e le intuizioni del corpo-mente che siamo, quando siamo interi.
Poi c’è una ecopoetry americana storica, che è quella ambientalista, politica, spesso attivista, sviluppatasi in questo senso con gli anni Sessanta, alla Gary Snyder, tanto per intenderci. Io trovo molto interessante, però, la base filosofica della ecopoesia, che negli Stati Uniti emerge in epoca modernista, con Robert Frost, Wallace Stevens, Marianne Moore.
Da quanto tempo ti occupi di ecopoesia?
Al 2018 risalgono le miei prime partecipazioni a convegni e pubblicazioni specifiche. Ma a molto tempo prima il mio interesse per l’ecocritica, che in qualche modo la ricomprende. C’è poi un interesse originario per la poesia della natura, anche quella che oggi, con la consapevolezza teorica che ho acquisito, definirei “ecopoesia”. Come poeta, potrei dire di averne sempre scritta, a cominciare dalla mia prima poesia.
Hai trovato difficoltà a confrontarti con altri poeti? Hai avuto opportunità di incontri?
Sì, all’inizio – parliamo di almeno un paio di decenni fa – mi sono sentita sola ed eccentrica rispetto agli interessi dominanti. Però mi sono aggrappata al consiglio di Derek Walcott: scrivete di quello che conoscete bene, e che vi sta a cuore, anche se non va di moda. È la scommessa col futuro di un poeta. Credo anche che non possiamo che scrivere di quello che dobbiamo scrivere, che ci ritroviamo a scrivere. Poi quegli interessi dominanti sono cambiati e ho cominciato a trovare compagni di strada. Paradossalmente, adesso la ecopoesia sta rischiando di diventare mainstream. Ne sono felice per l’ambiente, una delle poche cause davvero urgenti dei nostri tempi. Spero che mantenga anche una qualità della scrittura.
Facendo questo lavoro hai trovato difficoltà a sensibilizzare le persone verso la Natura?
No, mai. Al contrario, gli studenti sono molto ricettivi. Assisto a vere e proprie “conversioni” alla causa ambientalista, come dopo la mia prima Giornata di Studi Ecocritici all’Università di Milano, nel 2012, in cui invitai Luca Mercalli a parlare dell’attualità di Walden, di Henry David Thoreau, il padre della scrittura ambientalista americana. Ricordo che esordì mostrando una slide in cui da un lato c’era una terra, quella che abbiamo, dall’altro due terre e mezza: quelle che consumiamo ogni anno. Siamo già “fuori budget” da tempo, in un certo senso sarebbe già troppo tardi, anche se io credo che un atteggiamento propositivo e di fiducia nell’educazione e informazione dell’individuo, sia la strategia più efficace.
Una studentessa è diventata vegana (cosa che io non sono) dopo che abbiamo letto il racconto Meat di Charlotte Malerich (Among Animals, Ashland Creek Press, 2014). Un’altra, della Laurea Magistrale, mi ha detto che aveva scelto di frequentare il mio corso di "letture ecocritiche" attraverso i generi della produzione letteraria e filmica americana perché aveva un amore personale, originario, per la natura. Ci si attira per quello che si è, e si risvegliano vocazioni latenti.
C'è una coscienza di non separazione tra l'essere umano e la Natura?
Solo in chi ha esperienza, fisica, della natura. E c’è in chi l’ha avuta e ne ha scritto. John Muir, per esempio, uno degli iniziatori del movimento conservazionista americano, che ha vissuto nelle Sierre e ne ha scritto sia dal punto di vista scientifico, sia spirituale. E il risultato sono stati i primi parchi naturali americani.
Come è vissuta la Natura dalle persone che hai incontrato?
Come la propria casa, un’estensione del proprio corpo, il mondo reale che potremmo abitare ed essere felici, da parte delle creature naturali che sanno cosa vuol dire esserne parte, e ricordarsi che siamo natura e che essere un corpo, invece di averlo, è una grazia. Sono le persone che si sentono violare se passa una moto su un sentiero o che non riescono a lasciare un pezzo di plastica per terra (figuriamoci a gettarlo); che non riescono a buttare il cibo. Da parte di chi non ha esperienza della natura, invece, che non sa letteralmente cosa ci sia dietro la parola “natura” (e si immagina qualche confusa scena bucolica), come un concetto, astratto, che non sarà mai al primo posto nella loro scala di priorità di interessi. Queste persone non hanno neppure esperienza, e consapevolezza, del proprio corpo. A volte sono impossibilitate a farlo.
§
ti posi lì
più in alto
che si può
senza paura
perché è la tua
natura a dirti che è
il posto per te
sei grande e leggero
bianco in innato
equilibrio sull’ultimo ramo
spiegato se avverti
la mia ombra e ti libri
di nuovo nell’aria
piano
come in un ripensamento
lento, sopraggiunto
per caso
sei a casa
in quel corpo avvolgente
e nella sua distensione
allo spazio che forma
un continuo di posa
pensiero
riposo
adesso viri veloce
e mi sorvoli elegante
incurante
per dire che è solo un gioco
guardarmi e fare
una soffice mano
(pubblicata su Fili d’aquilone, e sulla rivista internazionale Ecozon@)
* * *
L’anemone
si sciupa con nulla
ma quando rigoglia quanto
è perfetta la sua forma.
Una pala di petali potente
un mulino minuto e viola.
Un fremito d’aria.
(scritta per una edizione di Orticolario)
* * *
Morirò di un acero
davvero troppo bello.
Perché non si può
rinunciare alla meta
mancare di osservarla.
Perché c’è un’offerta
da non offendere
e nessun altro vivo
desiderio.
*
Come sei fermo.
E poi respiri.
E poi mormori.
Così incorniciato tra le ante.
Così invisibile, vistoso.
Sei la forma che hai:
albero, acero.
Creatura verticale,
anima lunga.
*
Se guardi le foglie dell’acero
vedi che aspetta il vento.
E poi si piega.
Il vento viene
anche se lui
non lo attende.
Lo cerca.
Lui c’è: risponde.
(pubblicate in plaquette artistiche dell’Accademia di Brera)
* * *
Oggi non hai una nube.
E se ti guardo, rimani.
Non perdi tutto quel blu
quel soverchiarmi di roccia
di pieghe quasi morbide
nella carne, di liquide
scorrevolezze spumose.
Oggi sei un lontano
vicino, un mondo riposto
a portata di mano.
Spiri e odori
come quando mi avvolge
il viso la stagione
prima che la lasci andare.
(uscita in una pubblicazione del GISM: Gruppo Italiano Scrittori di Montagna)
A cura di Dome Bulfaro.
Paola Loreto insegna Letteratura americana all’Università degli Studi di Milano. Ha pubblicato case | spogliamenti (Aragno 2016), In quota (Interlinea 2012), La memoria del corpo (Crocetti 2007), Addio al decoro (LietoColle 2006), L’acero rosso (Crocetti 2002), le plaquette Spiazzi dell’acqua e Ascesa (pulcinoelefante 2008 e 2018), e Avola (Volo) (Luciano Ragozzino, 2019), le sillogi Conoscenza della neve (Poesia, gennaio 2012) e Transiti (Almanacco dello Specchio Mondadori 2009), oltre a una silloge di poesie sulla montagna (Premio Benedetto Croce 2003) e numerosi testi in rivista e in volumi collettanei.