L’immenso spartito della natura viene lacerato dalle dissonanze disumane dei suoi abitanti, che invece di ascoltarne il canto, ne coprono le musiche con i materiali del progresso. Dal borgo veneto di Pieve di Soligo, Zanzotto versifica contro le devastazioni paesistiche, dall’ultimo baluardo – seppur instabile – della poesia, non viene meno la voce di uno strenuo amante.
Pretendere di poter esaurire in un articolo il legame tra Zanzotto e la natura è assurdo. Si tenterà perciò di tratte alcuni spunti efficaci del poeta veneto, dal suo dialogo sempre aperto con il paesaggio e le sue manifestazioni.
In un’intervista alla RAI l’autore diceva: “il primo vero ente adorabile è la natura”. Mi pare quindi che da qui tutto possa partire con un senso chiaro e alla fine qui tutto possa tornare ragionevolmente. Con grandi passeggiate fino a tarda età, l’autore amava imparare suoni e dinamiche da ciò che il bosco, i sentieri, le vallette e i corsi d’acqua gli raccontavano. E il titolo della prima raccolta poetica, Dietro il paesaggio (1951), lo testimonia bene.
Col tempo e con le raccolte successive Zanzotto continua a farsi recettore di un sapere immenso e ricchissimo, cercando di tradurlo in scrittura. Con umiltà, il poeta dovrà fare ammissione di insufficienza verbale e di tradimento della voce naturale che gli parla: la parola tradisce spesso l’originarietà dei messaggi, al pari di tanti gesti umani che fanno violenza al creato e alle persone stesse. Natura e cultura quindi in Zanzotto sono sempre al centro della produzione poetica, in uno sforzo sincero e senza clamori, per trovare un modo di relazione dell’uomo con l’ambiente intorno che non sia schiavo della tecnica, del denaro o del dominio di uno sull’altro.
Nelle IX Egloghe (1962) Zanzotto affronta la sopravvivenza della poesia stessa. L’omaggio alla tradizione virgiliana è un gesto disperato, per capire se la forma letteraria può salvare qualcosa. Il trauma storico difficilmente troverà una catarsi nella convenzione lirica. Nondimeno il tentativo è tenace, radicato nel cuore del poeta.
In Filò (1976) la madre-terra è l’interlocutore principale del libro, sempre accanto ad una discesa linguistica nelle profondità dell’io. La scelta di accostare dialetto (ramo materno) e lingua ufficiale italiana (ramo paterno) è sintomo di un’opera con le spalle al muro: non è più attingibile la lingua dei bimbi e non ha senso, se non grottesco, richiamarla ad hoc; tuttavia dai recessi geologici dell’inconscio emerge questa materia viva in cui i poli opposti collidono e, pur nel disastro, preludono “nuove realtà che premono ad uscire”, come dice Zanzotto stesso nella nota di chiusura alla raccolta.
E sono sempre i titoli delle raccolte a delineare l’amicizia stabile da cui siamo partiti: Il Galateo in bosco (1978), Fosfeni (1983), Meteo (1996), fino a Conglomerati (2009). Si vede, dentro il tema ambientale persistente, la sottolineatura speciale per la geologia; “fin da bambino” – amava raccontare – “ho sempre avuto interesse per la geologia e la geografia, per i tempi immensi. Mi muoveva la volontà di stare a stretto contatto con le rocce, l’erba, le piante. Con i milioni di anni, più che con i millenni, attorno a cui adesso si fa un inutile baccano”.
Nella raccolta del ‘78 il bosco del Montello (a sud della città natale del poeta) è il perno dei movimenti del poeta: luogo di cestini commerciali di pic-nic, accumulo di humus vegetale e deiezioni animali e infine ossario dei caduti della Prima Guerra Mondiale, senza dimenticare Giovanni Della Casa e il suo “primo” Galateo. Le buone maniere di un tempo, i modi del vivere civile sono diventati solo il dominio dell’uomo sulla natura e il bosco è terreno di stragi.
In Fosfeni invece si sale verso le vette delle Dolomiti venete, ma non c’è nessun paradiso terrestre. Non ci sono rocce da scalare, fenditure per salire, funi per un’impresa atletica. Zanzotto allude alle figure fantasmatiche che appaiono alla chiusura o compressione delle palpebre. E la sensazione generale è quella di un cielo rarefatto e cristallino, senza storia, con una materia che si agglutina talora o si impasta in gel, la sostanza fisica più caratteristica di questa raccolta.
Nell’ultima strofa di Loghion lo strumento razionale, rimpicciolito, è sublimato, pur persistendo qui elementi naturali concreti:
[...]
Tu povero tra tutti i poveri, leso tra tutti i lesi
incrocio di valenze, istanti, tesi effimere –
code di rondini, per siepi, appena intraviste
e vuoti di memoria, falle, cascatelle trattenute da un dito.
Con Idioma, (1986) il centro geografico non sono più le Dolomiti di Fosfeni, ma il paesello – disfatto e lacerato –, visto come un abitato in cui dialogare con il “dopo”, quindi soprattutto coi morti, oltre che coi vivi e semivivi. Infatti la lingua prevalente della seconda sezione è ancora il dialetto, segno nostalgico di rispetto alla terra degli avi e unico linguaggio di un microcosmo quasi privato.
In Meteo, la materia ecologica è sempre degli spazi naturali e della mente; Zanzotto si muove vorace e incalzante – come gli insetti che a frotte volano in queste pagine – nei prati, tra gli alberi, sotto il sole e la pioggia: ma è furia di viaggi psichici oltre che atmosferici. Il colonnello che prevede il bel tempo o i temporali non parla solo del cielo, ma delle vicende umane. La previsione è però un allarme: il paesaggio è – come il poeta – mortale. L’abuso ha da tempo fatto a pezzi i campi e i versi. Eppure pare di cogliere indomabile un gesto di resistenza e quasi di piacere nell’essere vivo – Live – in mezzo alla natura; un bell’esempio a partire dai papaveri:
[...]
E sembra che là installati
solo ardiate di sfidare a sangue
per un nanosecondo il niente, ma
deridendoci, noi e voi stessi,
nella nostra corsiva corriva instabilità e
meschina nanosecondità
sì quel vostro millantarvi
e immillarvi in persiflages
butta tutto ciò che è innominabile
fuori dal colore/ del vostro monticello seduttore...
Un saluto ora non bizzoso, tutto per voi-noi,
sternuto.
Negi ultimi anni certamente Zanzotto notava amaramente il degrado cui l’ambiente è soggetto a vario titolo: nelle periferie cittadine, sui fiumi violentati, sui semplici sterrati di campagna; diceva in video-intervista con Carlo Mazzacurati e Marco Paolini (Ritratti. Andrea Zanzotto, Biblioteca dell’Immagine 2001) che tra natura e cultura c’è sempre una sorta di altalena; certo l’uomo ha distrutto e distrugge stupidamente, ma anche la natura sembra avere in sé, in segreto, un germe di autodistruzione, pensando al fatto che genera creature che poi la violentano. Sempre e ancora diceva che l’essere umano è come una spoletta nel paesaggio, spoletta che si muove, cucendo e ferendo di continuo il suo contesto, avanti e indietro: noi accumuliamo le nostre storie in un tessuto che già aveva memorie e sofferenze, portandone di nuove e di più laceranti.
C’è però sempre un’adorazione per la natura, secondo l’etimo latino di “portare alla bocca”, al bacio quasi, al contatto diretto, in cui i corpi e le sensazioni si uniscono e comunicano. Questo resta duraturo come una cicatrice, al pari di una lingua che si disfa e si riaggrega, si separa e si unisce, in aderenza ai divorzi continui tra mondo e vita, tra parola e azione, proclami e fatti:
Dal mucchio di metallici
rottami ch’io mi sento
spira per forza propria
un inaudito accento
o meglio un fischio, anzi mille fischi,
di insulsi rischi.
da Conglomerati
Nella poesia Papaveri, pare di avere in mano un niente di cenere e petali, ma con una tale delicatezza e grazia, che si rimane grati pur nella distruzione; forse i tempi non ecologici che Zanzotto ha visto e che ci appartengno ancora, non hanno spento del tutto le forze invisibili che persistono fino nella materia microscopica:
Fiammelle qua e là per prati
friggono luci disperse ognuna in sé
quelle siamo noi, racimoli del fuoco
che pur disseminando resta pari a se stesso
è zero che dona, da zero, il suo vero/
da Conglomerati
In chiusura Zanzotto performa, congendandosi, con ironia geniale la sentenza che nulla scioglie: “Sì, parola, sì silenzio: infine assenzio.”
Giacomo Nucci insegna lettere alla scuola secondaria di 1° grado dopo la laurea in Lettere Classiche in Statale di Milano. Dal 2009 fa teatro e dal 2013 teatro-poesia, sotto la guida di Dome Bulfaro. Ha pubblicato una raccolta di poesie, Sabbie e sorgenti, nel 2013 con Steber Edizioni. Dal 2017 è membro del gruppo editoriale e di ricerca Millegru, con cui ha pubblicato Così va molto meglio. Nuove pratiche di Poetry Therapy e con cui pratica poesia ad alta voce, laboratori per bimbi, massaggio poetico con donne incinte e con adulti.
» La sua scheda personale.