Poetry Therapy Italia

17 011 nucci 

Poesie che, camminando nei cunicoli labirintici scavati sotto terra, ci prendono per mano e ci mostrano come un essere umano di nome Luca Buonaguidi, al pari di noi, studiando la grammatica della morte e della vita, stia imparando, anche grazie alla poesia, a non distogliere più lo sguardo dalla paura di morire.

 

Fin dal titolo sono indicati i tre elementi costitutivi della morte: l’assenza presente nel guscio vuoto (quella), la nebbia del guscio (forse), la lama che trafigge e schiude il guscio (luce). In queste poesie interculturali e interreligiose – che aderiscono olisticamente al principio sempiterno de “la fine è l’inizio” – vivono e muoiono persone sconosciute all’autore, vivono scrittori a lui cari e conosciuti di persona (Folco Terzani, figlio di Tiziano Terzani) o non conosciuti di persona (Gino Scartaghiande), muoiono eppure vivono giovani e care amiche pianiste (Nazanin Piri), vivono e muoiono pianeti (il Sole). La silloge, pur se asciutta nel numero (12), è efficace nel definire la direzione di ricerca: l’esplorazione dei tanti modi con cui in vita moriamo, non tanto fisicamente, ma psichicamente, nella consapevolezza che Abbiamo due stagioni / una dura appena / l’altra è un eterno ritorno / all’assenza che crea il mondo.

In queste poesie si viaggia spesso sotto terra, anche quando i versi sbalzano il lettore nel traffico di Varanasi, la città sacra per gli induisti dove le pire per la cremazione intridono h24 l’aria di morte, e l’autore incrocia per un “attimo” lo sguardo di “un ragazzo come tanti”: È il secondo / di tre passeggeri sul motorino; è l’altro da lui, in cui il poeta Buonaguidi rispecchiandosi vede tutta l’India unitamente a tutta la sua e propria mortalità: Quel volto nella folla dicevo, mi guarda / come se fossi già morto e io / non distolgo lo sguardo. / Ho imparato ad amare / questa paura.

La morte c’è, se c’è qualcuno di vivo che si ascolta, anche solo vagamente, si percepisce come vita di un sé altro dal Sé. Quando la vita c’è anche la morte c’è: vita e morte non si possono separare, come la testa e la croce di una moneta.
C’è poi la paura della morte, che in alcuni diventa terrore della morte, orrore di non vivere la vita. Queste poesie camminano nei cunicoli labirintici scavati sottoterra prendendoci per mano e mostrandoci come un essere umano di nome Luca Buonaguidi, al pari di noi un ragazzo o una ragazza come tantə, di viaggio in viaggio, di città in città, di persona in persona, di paziente in paziente, stia imparando la grammatica del morire e del vivere, abbia imparato anche grazie alla poesia a non distogliere più lo sguardo dalla paura di morire.
Ci aiutano ad accedere nei testi il tono diaristico – caratteristico della letteratura da viaggio – la versificazione libera, la visione laica votata al sacro, ma soprattutto ci aiuta il luogo da cui nascono queste poesie: l’ascolto.

“Io li ascolto in silenzio tutto il giorno”, ci dice nel testo di apertura lo psicoteraputa e poeta Luca Buonaguidi, quasi come se il suo studio di pratica dove lui guarisce l’animo dei suoi pazienti, fosse “la collina” di una Spoon River di vivi morti dentro, ridotta alla miniatura di un confessionale.
Se tutti gli esseri umani praticassero quotidianamente “l’ascolto in silenzio” la maggior parte delle nostre sofferenze psichiche e psicosomatiche svanirebbero e con loro si dileguerebbero la maggior parte delle nostre morti proiettive e i loro conseguenti lutti e sensi di perdita.
Fin dal primo verso, in questa silloge, abbiamo la sensazione di leggere (e, quindi, ascoltare parole che leggendole noi stessi ascoltiamo) parole che sanno ascoltarci. Si tratta di parole vive che, a seconda di come le ascolteremo e raccoglieremo, moriranno prima di toccare terra, oppure in noi fioriranno e frutteranno vividamente. Sono parole rigenerative che, a seconda di quanto in noi attecchiranno, ci aiuteranno a coniugare l’io con il noi per disegnare nuovi orizzonti di senso, perché se

Io li ascolto in silenzio tutto il giorno
Io mi ascolto in silenzio tutto il giorno
Io vi ascolto in silenzio tutto il giorno
Io ci ascolto in silenzio tutto il giorno

così come ci aiuteranno a congedarci dal corpo, / a riunire quel buio / a quella, forse, luce.

Ascoltare e dialogare tanto con le presenze quanto con le assenze, ci dice il poeta Luca Buonaguidi, è decisivo per vivere la vita o trascinarci nella vita, portando in spalla cadaveri di noi o camminando con moribondi di noi aggrappati alle nostre caviglie. Per questo motivo ci sprona a non demordere mai nell’affacciarci al precipizio del bianco, come se quei due punti che chiudono/riaprono la poesia Da un po’ di tempo / parlo ai miei morti, fossero i nostri stessi occhi, inizio e fine di ogni esistenza:

Riprova ancora.
Ascolta:
queste parole mai udite,
non è il vento tra le foglie
né il libro che cade,
sono loro
e sono ovunque.

Ascolta:

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ANTOLOGIA

Luca Buonaguidi.
Quella, forse, luce.

 

Coltiva questa frantumazione vetrosa
all’interno di te. Frantuma i milioni
di finestre divisorie, lascia che lo sfaldamento
prenda luogo dove entra l’esistenza.

Gino Scartaghiande da Sonetti d’amore per King-Kong
(Cooperativa Scrittori, Roma, 1977, p. 18).

 

C. era venuto da me perché aveva paura di morire,
dichiariamo conclusa la terapia
la seduta dopo che è nato il nipote.
P. ha un fratello morto che era poco più di un neonato,
lo abbiamo cercato nei ricordi, poi trovato
nell’ossario comune del cimitero.
L. aveva un nonno che non riusciva a salutare,
non c’era stato l’ultimo giorno e per farlo tornare in vita
aveva smesso con la sua.
S. ha investito il suo cagnolino,
R. non ha pianto quando è morta sua madre,
F. è stato sei mesi in coma, poi ha seguito quella luce.

Io li ascolto in silenzio tutto il giorno, vivo e muoio ogni volta insieme a loro.

 

*

Sono nel deserto,
sono ciò che manca,
del pulviscolo grandezza
che si disfa di se stessa.
Un grido al grado zero
del tempo, lo spazio
oltre lo specchio
in cui mi rifletto.

Mutano i cieli
oltre la porta,
mentre il segno cade
accedo al paesaggio.
S’alza una forma
dall’abisso all’azzurro
l’orizzonte è luce bianca
e brucia.

Il sole è una ruota,
si raggela la sabbia
poi viene la notte
a togliermi il nome.
Viaggio nel sogno
al torrido regno
da cui nessuno
è mai tornato.

 

*

Alla tomba di Elitis

Davanti alla tomba di Elitis
leggo la sua poesia più bella
rivolto verso la lapide
ma non c’è nessuno che la ascolta.
Nel piccolo sepolcro di famiglia
piccole girandole colorate
sono issate nel giardino incolto,
una bicicletta in miniatura
e sotto i caratteri del poeta
l’incisione di Zefiro sulla pietra
e sopra il mare, le conchiglie appoggiate.
Un braciere spento, vasi vuoti.
vento e mare ovunque e in nessun luogo.
Se è mai stato qui, il poeta se ne è andato
da tempo, profano, portando via
la veste nuziale d’Ofelia
la Dea di Samotracia
la passiflora
il delfino
e metà Paradiso
sulle alture di Creta
passato a metà nell’acqua.
Non sono i morti i vivi fantasmi
che non troviamo. Sono i vivi
che portano i morti davanti
alle tombe in cui morirono
un poco alla volta nel ricordo
dei vivi. Sono i morti.
E sono ovunque.

(Atene)

 

*

a Nazanin Piri

Non sappiamo dove andiamo
e perché altri restino.

Serriamo il soffio in un corpo
e diveniamo l’erba
accarezzata dal vento
e poi il vento
che accarezza l’erba.
Abbiamo due stagioni
una dura appena
l’altra è un eterno ritorno
all’assenza che crea il mondo.

Finché viviamo non sappiamo
il senso che nella fine si rivela,
e se sapessimo tutto allora e l’attimo dopo
essere questo senziente niente,
una mancanza che dà forza
a chi resta di andare a sua volta.

 

*

A Folco Terzani

Sarà svuotare la nostra casa
da parte dei figli
o un’impresa di traslochi
il segno finale
della nostra impermanenza.
Rimarremo per qualche tempo
nei ricordi tramandati ai nipoti
poi saremo una leggenda
che precede gli eredi,
la fantasia di sapere chi sono
attraverso gli antichi
per lanciarsi in un futuro
distante da noi ormai ere.
Forse potranno ancora accedere
ai nostri profili sui social
per sbirciare i giorni
di quel tempo che ci vide vivi
ma resta il fatto che saremo già
altrove dispersi nella terra
col senso in cui abbiamo creduto
mentre vivevamo le intenzioni
limando imperfette decisioni,
parole rimaste inascoltate
e scritte per paura
di non lasciare tracce
a qualcuno che ancora
non esiste. Anche questo
fu il nostro vivere.

 

*

Chissà come sarà lasciare
infine i libri che ci preparano
a morire, non poterli consultare
nel momento topico, se sarà
come non averli letti mai
o tornerà lo stupore per una frase,
un verso o una parola finale
a congedarci dal corpo,
a riunire quel buio
a quella, forse, luce.

 

*

Un volto nel traffico. È il secondo
di tre passeggeri sul motorino
e questo non significa niente.
Ci guardiamo per un attimo.
io sono dentro un taxi, spalmato
al finestrino a guardare
l’India ovunque là fuori.
È come se attraverso gli occhi
di quel ragazzo come tanti
(che cosa ne so io?)
l’India per un attimo
si voltasse e tutta intera
– comprese le montagne,
le isole Laccadive e quelle più a ovest,
compreso Shiva e il bambino
che dorme per terra come un cane
e tutti quei cani ovunque
randagi fantasmi dei morti –
mi guardasse davvero
per un istante sentirmi
esistere dove tutti sognano
di non esistere, morire
per non rinascere, fermare
il dolore e accedere al nirvana
che è così lontano da
tutto questo samsara.
Quel volto nella folla dicevo, mi guarda
come se fossi già morto e io
non distolgo lo sguardo.
Ho imparato ad amare
questa paura.

(Varanasi – Mathura)

 

*

Stadio successivo

E se rinascessimo davvero
che effetto produrrebbe in noi
ritrovarci davanti alle nostre stesse opere?

Forse la Sindrome di Stendhal
non è che il riconoscimento del marmo
che nell’altra vita l’uomo estrasse dalla montagna.

Si darebbe che solo l’arte è davvero immortale
ecco perché ci sembra che soffra
mentre nasce.

 

*

Esaurito l’idrogeno le reazioni cesseranno,
il nucleo contrarsi sotto la sua stessa gravità
aumenterà di densità. Ci sarà un’espansione
degli strati esterni, una bolla di sapone
che si gonfia ai bordi e libera massa
nella galassia a dar vita a nuove stelle,
pianeti e forse nuovi mondi come il nostro.
Quella bolla è il Sole tra cinque miliardi di anni,
un gigante rosso in balia di venti stellari
che ormai stanco e freddo ingloberà
Mercurio, Venere e la nostra Terra,
prima di morire a sua volta.
Sarà la fine di tutto
quello che chiamiamo vita a meno che
nel frattempo non saremo altrove,
tutto quello che avremo creato andrà perso,
l’ultimo verso prima della fine del mondo
non lo saprà nessuno. O forse noi saremo altrove
trasportati da assurdi veicoli oltre i confini universali
a ricominciare da capo, a scrivere la prima poesia
dell’altro mondo. Non si potrà tornare indietro,
saremo la leggenda sognata da qualcun altro
di notte se la notte esisterà ancora.

 

*

Da un po’ di tempo 
parlo ai miei morti.
Mio zio, Robbe, Ale
soprattutto. È un ricominciare,
lo facevo già coi nonni,
non pregavo dio ma Silvano
nessuno ha mai risposto
nella mia lingua
la loro la ignoro
ma ci sono.
Dicono l’indicibile,
ce la fanno.

Ascolta.

Riprova ancora.
Ascolta:
queste parole mai udite,
non è il vento tra le foglie
né il libro che cade,
sono loro
e sono ovunque.

Ascolta:

 

*

Tentativo di sopravvivere alla morte mentre sono vivo  #1

Non c’è morte che tagli in due la sorte
non esiste alcun tempo calato da un luogo alto.
Sei, come il soffio di vento che non stringi nel pugno
non bastano i sensi a dirti come la luce dice il mondo intero.
Sei ciò che sei e nient’altro, non c’è un altro sentiero, lo senti che silenzio?
Dolore e dolcezza, è il tuo primo giorno di luce, soltanto luce.
Ora puoi nascere davvero.

(Flores, Indonesia)

 

*

Sogno #4 (India Song)

Siamo su un treno indiano
stiamo andando a Benares.
Ieri notte abbiamo fatto l’amore
sul letto sfatto dell’albergo
mentre un agnello passava
l’ultima notte nella stalla
ignaro di essere offerto
l’indomani a Kali nel tempio.
Viaggio alla riva del Ganga Ji,
i gradoni e le acque torbide,
quel sole ocra sui santi
che sono pazzi da far paura
da quanto sono santi
e pazzi, liberati dalla paura.
Poi al Manikarnika Ghat
innanzi al rogo dei corpi
un cane sfinito dalla fame
rosicchia l’osso di un povero
bruciato male. Al tramonto
la danza delle canfore
per dei che sono ovunque.
Domani è il mio giorno
mi bruciano su una pira.
Mi guardi senza piangere
morire contemplando il tuo sorriso
del terzo bicchiere di vino,
l’ultima cosa che vedo
mentre finalmente vado.

 

Nota

I tre versi finali della seconda poesia sono una citazione tratta da “Epigrafe”, di Leonardo Sinisgalli.
La terza poesia compare nel libretto di “Ghimel”, un disco di Elias Nardi, Daniele Di Bonaventura e Ares Tavolazzi, con art work di Giulia Napolitano.
“Stadio successivo” è stata ispirata dall’ascolto dell’omonimo disco di Giovanni Peli. 


 

Dome Bulfaro Foto Dino Ignani Rimini 2016

Dome Bulfaro (1971), poeta, esperto di poesiaterapia, si dedica alla poesia (di cui sente un servitore) ogni giorno dell’anno. È tra i più attivi e decisivi nel divulgare e promuovere la poesia performativa; ed è il principale divulgatore in Italia della poetry therapy/poesiaterapia. Dal 2021 è docente di Poesiaterapia e Lettura espressiva poetica presso l’Università degli Studi di Verona, nel pionieristico Master in Biblioterapia. Nel 2013 ha ideato e fondato con C. Sinicco e M. Ponte la LIPS - Lega Italiana Poetry slam. Nel 2023, ha ideato e fondato con M. Dalla Valle. P. M. Manzalini e I. Monge la BIPO - Associazione Italiana Biblioterapia e Poesiaterapia, prima associazione di categoria. Ha fondato e dirige Poetry therapy Italia (2020), rivista di riferimento della Poesiaterapia italiana. Ha fondato e dirige (con Simona Cesana) PoesiaPresente – Scuola di Poesia (2020) performativa, scrittura poetica e poesiaterapia. www.domebulfaro.com

(Foto Dino Ignani)
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