L’autrice esplora la forma poetica della sestina come forma, in ambito terapeutico, che più consente una meditazione esistenziale ampia e nello stesso tempo intima, quando si affrontano esperienze come la perdita, il lutto, la mancanza. La sestina può rappresentare una straordinaria opportunità per fertilizzare e mobilizzare il sentire e il pensare perché, nel procedimento stesso con cui le parole si ordinano, si ripresentano, danzano, si riproduce la ciclicità dei ritmi dell’esistere, in cui tutto sembra tornare ma in realtà è un avanzare, fino alla fine in cui tutto si raddensa e si accomiata.
Esistono forme poetiche che più di altre, per la loro struttura formale, conducono a esplorare le esperienze in ogni contrasto e sfumatura, in modo da poterle assimilare e integrare con pienezza. Ed esistono esperienze – come la perdita, il lutto, la mancanza – che richiedono una tale profondità di elaborazione.
A mio avviso, la forma poetica che più consente una meditazione esistenziale ampia e insieme intima, concentrata e verticale è la sestina lirica. Essa scandaglia e scava sei miniere di senso costituite da altrettante parole, la cui scelta ragionata e il rigoroso ordine di comparsa sono i pilastri della composizione.
La sestina è stata introdotta da Dante nella poesia italiana con la celebre Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra, che si rifaceva alla canso del trovatore occitano Arnaut Daniel Lo ferm voler qu’el cor m’intra. Un contributo decisivo alla sua fortuna in tutta Europa fu dato da Petrarca, che ne inserì nove nel Canzoniere, istituendola come genere autonomo. Dopo tre secoli di latitanza fu riportata in auge in Italia da Carducci con Notte di maggio e un anno dopo da D’Annunzio con Sestina della lontananza. Diversi autori l’hanno frequentata lungo il Novecento e fino ai giorni nostri (Fortini, Ungaretti, Valduga, Frasca, Fo…), cionondimeno, la sestina occupa ancora una nicchia minoritaria, per la complessità e rigidità delle sue regole:
- il componimento è formato da sei strofe, o stanze (in provenzale coblas)
- ciascuna stanza è costituita da un verso in metro endecasillabo
- nessun verso fa rima con altri all'interno della stanza
- in ogni stanza si ripetono le stesse parole, sempre a fine verso, chiamate parole-rima: non è ammesso che rimino fra loro, ma possono richiamarsi per assonanza o consonanza.
Nella sestina moderna, le parole-rima possono anche essere trisillabiche e talvolta perfino quadrisillabiche, mentre in origine erano soltanto bisillabiche; sono ammessi anche verbi, mentre in origine erano sempre sostantivi; possono essere parole plurisenso, come nella Sestina a Firenze di Fortini, dove la parola sale ha tre diversi significati: sostantivo (il sale), verbo alla terza persona singolare (lui/lei sale), plurale del sostantivo sala (le sale); sono ammessi enjambement ed endecasillabi imperfetti.
- I versi sono ordinati secondo la ferrea regola della retrogradatio cruciata o permutazione centripeta. In ogni stanza, cioè, la prima parola-rima corrisponde all’ultima della stanza precedente, la seconda corrisponde alla prima, la terza alla penultima, la quarta alla seconda, la quinta alla terzultima e l'ultima alla terza, in una caratteristica configurazione spiraliforme, fra inversioni e progressioni. La stessa parola cambia dunque per sei volte posizione di stanza in stanza.
- La poesia termina con un congedo, o tornada, stanza di 3 versi dove ricompaiono tutte e sei le parole -rima: tre alla fine dei versi e tre all'interno, a scelta libera.
Per far capire concretamente di cosa sto parlando riporto qui una sestina dei giorni nostri che amo particolarmente. L’autore è Roberto Rossi Precerutti.
Nelle cose abiti, nel mutamento
Nelle cose abiti, nel mutamento
della luce che accarezza la pietra
perché si sciolga in stupefatto spazio
l’angustia della corte prigioniera
fermata dalla curva dello sguardo
a un mattino di antica devozione.
Il respiro del chiostro è devozione
al raggio che prescrive il mutamento:
ferma un impavido sonno lo sguardo
di chi è sommerso sotto fredda pietra,
vestendo il soffio l’ala prigioniera
perché s’infiammi in carità lo spazio.
Sopra i ferri del pozzo ora lo spazio
circonda di un’azzurra devozione
i fogli che la mente prigioniera
abolisce dentro quel mutamento
che accoglie poi l’inaridita pietra
franta dai sortilegi dello sguardo.
Ostro di labbra fronte pura o sguardo
amoroso non comprende lo spazio
che s’infutura in fedeltà di pietra
sugli altari del cuore: devozione
alla mia ardente morte, al mutamento
del respiro, alla cobla prigioniera.
Nel continuo mutare, è prigioniera
la selva delle cose che lo sguardo
ordina dentro il solo mutamento
che soffre il cuore dal costretto spazio
portato in dono a questa devozione
la croce sigillando con la pietra.
Non può fiorire la povera pietra
se la matematica è prigioniera
di un ordine che non sia devozione
a questo scomparire dallo sguardo
pigro del mondo, dal costretto spazio
in cui scaglia la lama il mutamento.
Sentire nella pietra il mutamento
d’anima prigioniera, devozione
che si fa sguardo vuoto, insorto spazio.
A causa del ritmo ondulatorio e spiraliforme, la sestina si può associare a simboli come la spirale e il labirinto e ha qualcosa di magico e ipnotico, quasi psichedelico. Carducci (1907) disse che essa “segue e rende l’errar del pensiero per un cerchio quasi incantato, nel quale gli oggetti fantastici e reali, e le percezioni e i sentimenti e le visioni, si presentano e ripresentano alla mente, con successioni di parvenze differenti ma sempre gli stessi”.
Secondo Cesare Benedetti (1991) “la sestina, genere chiuso per eccellenza, costituisce un microcosmo attraversato da una tensione costante alla chiusura, in cui le parole-rima ricorrono, senza scampo, come delle idee fisse: un microcosmo chiuso, con regole, vincoli e variabili, da cui non è dato uscire, attraversato [...] dall’obbligo di ripetere”. Essa esprimerebbe la “condanna a una ripetizione che diventa simbolo di una costrizione ontologica” (Stroppa e Belgradi 2023).
Abbracciando questa visione, la sestina potrebbe comunque avere senso in ambito terapeutico, considerata omeopaticamente. Curare un’ossessione attraverso una forma anch’essa ossessiva può essere una chiave di volta: talvolta si ha bisogno, per sentirsi meglio, di linguaggi e strutture che abbiano la stessa forma del proprio vissuto, che vi aderiscano totalmente. Persone in lutto potrebbero trovare catartico dare fondo all’ossessione della mancanza, rievocando ancora e ancora l’oggetto perduto fino all’esasperazione e poi – sperabilmente – al dissolvimento della tensione, attraverso le stesse parole che insistono, come nella poesia di Antonia Pozzi: “Oh, le parole prigioniere/che battono battono/furiosamente/alla porta dell’anima…”.
Tuttavia, a mio avviso la sestina non è un microcosmo chiuso e ripetitivo ma al contrario costituisce un’occasione straordinaria per meditare, per fertilizzare e mobilizzare il sentire e il pensare.
Il discorso è oltremodo complesso, tenterò qui di semplificarlo dato lo spazio a disposizione: spostandoci dall’ambito letterario all’ambito terapeutico, è essenziale lavorare sulla scelta delle parole-rima. Più saranno significative, ricche di risonanze affettive, familiari, radicate nella storia e nel corpo della persona, più questo lavoro risulterà profondo ed efficace. Selezionandole con un lavoro preliminare di scrittura libero-associativa e di successiva scrematura fatto insieme al terapeuta e lavorando anche sulla flessibilità della sintassi, la sestina - lungi dal ripetere ossessivamente le stesse immagini - potrà invece aumentare la plasticità dell’organismo in relazione con l’ambiente attraverso un movimento conoscitivo che adesso analizzeremo.
Infatti, come afferma Gabriella Sica (2003) nella sestina le sei parole-rima prescelte servono a scavare nella lingua, nel pensiero e nel mondo, diventando potenti generatori di senso. Esse “non sono “ritornelli”, perché se è vero che tornano identiche, è altrettanto vero che, a differenza del ritornello, non tornano mai lì dove sarebbero attese” (Frasca, 1992), ma sono invece sempre rimbalzate in punti diversi e risemantizzate, in un affascinante movimento di destrutturazione e ristrutturazione sintattica e lessicale. La stessa parola cambia per sei volte posizione e significato, oscillando e coprendo un orizzonte di senso ogni volta differente e quindi progredendo un passo alla volta, di stanza in stanza, in una caleidoscopica investigazione mineraria, che scende sempre più in profondità fino a quando, improvvisa, giunge la ricomposizione del congedo.
A questo proposito vorrei agganciarmi al pensiero di Maria Zambrano (1979) secondo cui il movimento dell’innamoramento è un approssimarsi all’oggetto per giri concentrici, un girare attorno lentamente, una forma di delicato e rispettoso corteggiamento che non arriva mai a possedere l’oggetto d’amore. Scrive Luigina Mortari (2006) analizzando il pensiero della filosofa spagnola:
“Il girare intorno richiede un ritornare sulla cosa, ma l’idea che di questo ritornare ci sia un numero sacro, ossia un numero finito di giri, salva dall’ossessione che si rischia di avere nel cercare. Il numero sacro indica la giusta misura dell’agire”.
Un numero finito di giri, una giusta misura, la necessità di chiudere il percorso… sembra proprio che si parli di lei: la sestina. Ed è interessante notare come sia un numero dispari (tre) quello del congedo, dopo una serie pari (sei) di strofe con versi pari (sempre sei). Seguendo Pitagora il numero pari rappresenta una contrapposizione fra due forze che non si risolve mai, come se si annullassero a vicenda in un processo infinito, generando caos e male, mentre il numero dispari ha una forza sanificatrice e riordinatrice: l’ordine presente nella realtà è il risultato della limitazione posta dal dispari al pari. Seguendo il pensiero pitagorico, nella sestina il congedo di tre versi riarmonizza e chiude la composizione, come se il terzo verso rappresentasse un lucchetto, quell’argine all’infinita ripetizione di cui parla Zambrano.
Se, seguendo D’Annunzio, possiamo dire che nella sestina “le parole paiono divenire immateriali e dissolversi nell’ indefinito", il congedo, con la sua ferma ricapitolazione, ci riporta con i piedi per terra e ci porta a “chiudere la Gestalt”.
La parola Gestalt è intraducibile, vuol dire forma ma anche figura, configurazione, struttura. Come ricorda Dan Bloom (2005), tra i valori fondanti della psicoterapia della Gestalt stabiliti dalla cofondatrice Laura Perls vi era la necessità di evitare la rigidità e fissità delle figure. Un altro principio fondante della psicoterapia della Gestalt è la necessità di chiudere le figure (strutture) rimaste aperte, le situazioni incompiute: ebbene, la sestina può diventare un antidoto compositivo formidabile alla fissità delle figure – che da una stanza all’altra mutano sempre – e allo stesso tempo consente di dare a una forma incompiuta la sua compiutezza, chiudendo un capitolo di un processo di elaborazione.
Inoltre, il fatto che essa sia dominata dalla ripetizione e insieme dalla continua variazione ci riaggancia a un altro principio cruciale della psicoterapia della Gestalt: si cresce solo con un piede nel conosciuto e uno nello sconosciuto. Il verso iniziale di ogni strofa termina con la parola con cui è terminata la strofa precedente, ma utilizzata in un modo nuovo, riposizionata semanticamente e sintatticamente: “Consentire agli elementi familiari di essere rimescolati, nuovamente soppesati e riconfigurati, produce significati nuovi e influenze reciproche diverse tra le parti e il tutto”, questo afferma Amendt-Lyon, (2007).
La sestina, inoltre, è una poesia che permette un lavoro sottile sul “come viene declinato il cosa”, quindi, sulla processualità estetica: si può veramente dire che “la sestina è il tema di se stessa o in altre parole che la sua forma è il suo tema” (Ignazio Baldelli, Enciclopedia Treccani, voce “Sestina”): più ancora delle parole- rima conta il procedimento stesso con cui esse si ordinano, si ripresentano e danzano riproducendo la ciclicità dei ritmi dell’esistere, in cui tutto sembra tornare ma in realtà è un avanzare, fino alla fine in cui tutto si raddensa e si accomiata. Proprio perché la forma e il tema nella sestina coincidono, Claudio Pasi ha composto una splendida metasestina, cioè una sestina sulla sestina, che mostra questa corrispondenza:
Claudio Pasi - Sestina da niente
Un fermo desiderio avevo in cuore
di ordinare una serie di parole
che sono quasi a caso queste sei
e, una volta trascritte sulla carta,
vanno disposte in un preciso schema
che impropriamente viene detto a croce.
Non ha infatti la forma di una croce,
sembra piuttosto la linea del cuore
sul palmo della mano, il vuoto schema
di una poesia di minime parole,
o piega o piaga sul foglio di carta.
Un vuoto come quello delle sei
del mattino se, mentre ancora sei
addormentato con le mani a croce
e frusciano i pensieri come carta,
dentro nel petto ti sobbalza il cuore,
e immagini una ridda di parole
che si raggrumano in un altro schema.
E comunque per ora questo schema
è una griglia, uno scheletro, ma sei
già pronto per riempirlo di parole,
quelle che sempre sono la tua croce
e che a fatica escono dal cuore
prima di scomparire nella carta.
Perché soltanto appare sulla carta
quanto resta di un gioco senza schema,
il pulviscolo aritmico del cuore,
il grosso nodo che verso le sei
preme alla gola, il chiodo della croce…
Perché si tratta solo di parole
che non hanno alcun senso, le parole
da niente, tracce impresse sulla carta,
la lacuna indicata con la croce.
Intanto, andando avanti con lo schema,
siamo alla stanza ormai numero sei,
e ci avviamo al congedo, a malincuore.
Queste parole fisse in uno schema,
stampate sulla carta che tu sei,
sono ogni croce che abita nel cuore.
Tuttavia in poesiaterapia, come dicevamo, oltre alla forma stessa della sestina e al suo movimento, la scelta delle parole-rima è una componente fondamentale. Se lavoriamo con le persone in lutto sceglieremo le parole-rima più pregnanti, le sei “croci che abitano nel cuore”.
Butto via i bambolotti e amo ancora l’innocente: un’esperienza di poesiaterapia con le sestine
Qualche anno fa ho lavorato sulle sestine nell’ambito di un gruppo sperimentale di poesiaterapia a orientamento gestaltico.
In particolare, ho invitato i partecipanti a scegliere una persona importante della propria vita affettiva con cui si voleva chiudere una Gestalt (letteralmente forma o figura, ma qui sta per situazione, configurazione relazionale) rimasta incompiuta a causa di un distacco (separazione, morte, ma anche incomprensioni che causassero un sentimento di perdita). Una volta scelta la persona, ciascuno era invitato a scrivere secondo il seguente schema:
- Quando era bambina/o, X era…. E io ero…
- Quando aveva vent’anni, X era ... io ero…
- Quando aveva trent’anni, era…io ero…
E così via, di dieci anni in dieci anni, a seconda dell’età di X. E infine:
- Adesso io sono … X è….
- Io e X insieme siamo… (o “siamo stati” se X era morto, o sparito dalla propria vita)
L’invito era a cercare delle metafore per definire sia la persona cara (“X”) che se stessi. Dopo il verbo “era”, “ero”, andavano, quindi, collocate delle immagini metaforiche.
Questo è quel che ha scritto una partecipante, Chiara, della sua relazione con il fratello, che aveva sviluppato nel tempo un disturbo psichico, determinando in lei un vissuto molto intenso di lutto rispetto alla relazione che avevano precedentemente.
Quando era bambino, Adriano era innocente come un nastro bianco di seta abbandonato tra le spine di un roveto. E io ero il soffio di vento che spingeva su di lui.
Quando aveva vent’anni, Adriano era un leone tronfio e impaurito, incapace di cacciare nel suo regno. E io ero una vecchia, in cerca di un riparo dalle maledizioni degli Dei.
Quando Adriano aveva trent’anni, era come un’estate andata a male, odore di frutta rancida e spiagge assolate svuotate di suoni e odori nel bel pieno di agosto. E io ero una stella cadente impazzita, bagliori improvvisi invadevano il cielo a qualsiasi ora del giorno, e le città infuocate diventavano cattedrali di cenere.
Quando Adriano aveva quarant’anni, la Dea Infanzia si travestiva da gatta e ovunque lasciava piccoli in cerca di casa, sebbene fossero nati senza occhi e senza coda. Io ero come una scatola cinese; avevo aperto solo le prime dieci...
Oggi lui è uno sguardo sommesso, una mummia muta e infastidita, un insopportabile ticchettio della sveglia, il gocciolare del rubinetto, uno sbattere di persiane, sordo e sinistro, lungo cinquant’anni. Oggi io sono il sangue e la noia. Un buco nascosto tra le pieghe dell’anima mentre scompare il sole.
Insieme siamo stati fragili.
Siamo stati unici e ci siamo persi fra le rocce di San Vito.
L’invito successivo era a scegliere delle parole o figure/immagini chiave, come focalizzando alcune figure per poi staccarle da uno sfondo e renderle protagoniste una alla volta di una scrittura libero-associativa in più tempi: senza pensare a nulla bisognava scrivere tutto ciò che affiorava alla penna, a rotta di collo, senza mai fermarsi, trascinati solo da un ritmo spontaneo.
Ecco quel che ha scritto Chiara sulle parole scelte: nastro bianco, leone, soffio, desolazione:
Nastro bianco, bambolotti con gli occhi azzurri, purezza, gioia, dolore, sangue, buchi, solitudine, sbattere contro, camminare sulle spine, non avere speranza.
Soffio al cuore, caos, caldo, solitudine, solitudine, vuoto, buco, mano che cerca, vuoto alla gola, lacrime, aria che è troppa e non si può respirare, brandelli, carne, pezzi, unghie, dita, sono appoggiata al tuo destino, ai tuoi occhi così belli, alla tua voce da bambino.
Leone, antipatico, scortese, stupido, giallo oro, gioia, tracce, avere un luogo, avere una casa, avere un padre, un padre che muore, un padre che ha paura, un leone senza paura, un leone insipido, un leone che ha una bellissima criniera, e che si fa accarezzare, ma non sei tu. Capelli lunghi, bianchi, in un antro buio, solitudine, non c’è più nessuno, non esiste più niente, voci lontane. Madre oscura, strega notturna, madre che uccide, che divora, che scarnifica, gli Dei sacrificati alle madri, ignoranti.
Desolazione, Sole, inganno, inganno, inganno, inganno, inganno, inganno, disperazione, non riuscire a vedere e vivere la fine, non trovare più nessuno, non trovare più niente, solo sole mare e vuoto, spazio senza caldo, caldo senza aria, paura.
L’invito successivo era a rintracciare sei parole-metafora dentro queste scritture libero-associative, utilizzandole come parole-rima di una sestina imperfetta: le sei parole dovevano ripetersi sempre a fine verso, e ogni volta in una posizione diversa all’interno di ciascuna delle sei stanze-strofe, ripresentandosi tutte e sei nel congedo di tre versi, ma senza necessariamente seguire la retrogradazione cruciata né il metro endecasillabo. In quel contesto strettamente terapeutico, per svariate ragioni, ho preferito non forzare, anche se in altre esperienze ho scelto di seguire la struttura in modo rigoroso.
Ho chiesto di rispettare solo una fondamentale regola: ripetere, nel primo verso di ogni strofa, la parola-rima (o parola chiave) dell’ultimo verso della strofa precedente (gli ultimi saranno i primi: così come ho chiuso, ricomincio; ciò che prima era sfondo, diviene figura).
Gli Dei un giorno partorirono con gran stupore Dea Infanzia
Osservavo tra le braccia della Moira i bambolotti
Dal mio antro maledetto aguzzavo l’intenzione e gli occhi
Non sapevo cosa fosse un bambino e ancor più l’essere innocente
La strega madre, il fato affamato mi serravano lo sguardo
Mentre mari e strane voci cospargevano la cenere
Flutti di lacrime pulivano l’antro sommerso di cenere
Uno strano suono echeggiava tra le sponde: Dea Infanzia
Un bambino con due buchi intorno agli occhi
Cerca invano tra le mani degli Dei che sembran tutti bambolotti
Un nastro bianco appartenente a un innocente
Se per un caso e un po’ per gioco mi si perde con lo sguardo
Nubi, pianti, falsi abbracci, arrivano presagi con lo sguardo
A volte chiarore sibillino dell’amor non trova gli occhi
Arriva a un punto, poi a un altro, lì ci son solo bambolotti
E per via di una bambina, urla un canto da innocente
Ma è già tardi per i giochi e qualcosa adesso è cenere
Passa il tempo, non la vergogna, non arriva Dea Infanzia
Passa un giorno e un altro ancora, è finita Dea Infanzia
Sei sicuro? Sei sicura? Non ho perso la mia aria da innocente
Piangi ancora le tue lacrime, come neve, come cenere
Cosa hai fatto ai tuoi ricordi? Si son persi come gli occhi
Non ti posso più abbracciare, han gettato i bambolotti.
Si è sfregiato il tuo sorriso, come tutti i bambolotti
Sei un volto senza forma, una trama senza occhi
Ti ho cercato e mi son persa, tagliuzzandomi lo sguardo
Ma gli Dei che mi han protetta han sognato l’innocente
E io adesso sono qui, nel tuo loculo di cenere
Una scelta ti precede, ed è anche una mercede: Dea Infanzia.
Passa il tempo e la speranza, ma non lei: Dea Infanzia
Ho sprecato tutti i colpi, ora sono solo bambolotti
Che col fuoco e la pazienza si trastullan nella cenere
Ma io qui non ci ricasco, dico “T’amo” e segno gli occhi
Tanta luce, tanto gelo, oggi è morto un innocente
Dio purtroppo ha perso gli occhi, io non perdo il tuo sguardo.
Perché mai Dea Infanzia si trasforma nella cenere?
Gli occhi belli di un bambino mi attraversano lo sguardo,
butto via i bambolotti e amo ancora l’innocente.
In questo lavoro è avvenuto qualcosa di notevole. Man mano che Chiara scriveva, il suo metro si andava avvicinando, senza alcuna intenzione razionale, all’endecasillabo, definito il metro naturale del nostro respiro (ogni lingua ha il suo respiro naturale, cioè una certa durata dell’emissione di fiato adatta al frasario corrente, e sembra che per l’italiano sia il metro endecasillabo).
Man mano che la sestina di Chiara si va costruendo, il ritmo diventa più armonico: i versi, inizialmente molto lunghi e zoppicanti, si uniformano e la voce interiore poetica prende il sopravvento “dettando” l’endecasillabo e ampliando l’effetto terapeutico del testo grazie alle qualità estetiche. Il testo si accresce in armonia, ritmo, chiarezza, tono, grazia, fluidità. Questo è un esempio dell’autoregolazione ritmica che può avvenire durante una sessione di poesiaterapia gestaltica, in particolare grazie alla particolare forma della sestina. Essa permette di scendere nelle profondità delle immagini relazionali in modo progressivo e concentrico, esplorandone tutte le polarità in molteplici e plastiche alternanze figura-sfondo e contenendole in una struttura metrica che funge da culla, da amaca oscillante ma resistente.
Come afferma Dan Bloom (ibidem) parlando del fare contatto secondo Laura Perls, “La fluidità della figura che si forma ed emerge anche dalle circostanze più tremende ha le qualità estetiche dell’armonia, del ritmo, fluidità e grazia; il contatto emerge con un fulgore, una lucentezza, che ci conduce avanti e indietro, verso una soluzione in arrivo, ravvivata dalle complessità del campo stesso. L’estetica dell’impegno trasforma la rassegnazione nichilistica dell’uomo […] in adattamento creativo soddisfatto e appagato”.
Nel caso di Chiara, a differenza del primo e del secondo testo – molto belli, intensi, già dotati di grazia ma estremamente desolanti e sofferti – l’ultimo si apre alla speranza, orchestrato dal ritmo contenitivo della sestina e modellato dal lavoro meditativo e spiraliforme che consente di alternare costantemente le parole-figura e le parole-sfondo, formando e distruggendo in modo fluido Gestalt fino al conseguimento di una buona forma: “Gli occhi belli di un bambino mi attraversano lo sguardo/butto via i bambolotti e amo ancora l’innocente”.
Se il tema della sestina è Chi sono io, chi sono stato io rispetto a te e tu per me, chi siamo stati insieme, attraverso la lavorazione profonda delle parole-rima si favorisce l’integrazione e l’elaborazione della perdita in presenza di un’assenza e non in vuoto annichilente.
Il fondo poetico comune e la sestina collaborativa.
Se si lavora con un gruppo di persone che stanno attraversando un lutto o stanno comunque vivendo sentimenti di perdita e dis-integrazione è possibile lavorare con la “sestina collaborativa”: attraverso un lavoro preliminare come quello fatto con Chiara si lasciano affiorare e si negoziano in gruppo le sei parole chiave, uguali per tutti: ognuno si incaricherà poi di scrivere una stanza (se i partecipanti sono più di sette si divideranno alcune stanze fra due partecipanti o si dividerà il gruppo in due sottogruppi realizzando due differenti sestine, ognuna con sei distinte parole chiave). Le stanze saranno assegnate per sorteggio e a ciascuno sarà consegnato lo schema con l’ordine in cui le parole-rima dovranno presentarsi. Dalla prima all’ultima, tutte le stanze saranno lette ad alta voce.
Verrà fuori una meditazione corale in cui ciascuno può osservare come le parole-rima si declinano differentemente attraverso la pluralità di voci e sguardi ma con identico ritmo e respiro (dato dalla misura endecasillaba del verso).
Sorprendentemente, fra le diverse stanze – ognuna composta in solitaria, senza sapere ciò che nel frattempo scrivono gli altri – appaiono rimandi, assonanze, connessioni: è quello che il pedagogo e artista francese Jacques Lecoq (2000) chiama il fondo poetico comune: “si tratta di una dimensione fatta di spazi, luci, colori, materie, suoni presenti in ciascuno di noi. Tali elementi si sedimentano attraverso le nostre diverse esperienze, le nostre sensazioni, attraverso tutto ciò che abbiamo guardato, ascoltato, toccato, assaggiato. Tutto ciò s’imprime nel nostro corpo e costituisce il fondo comune da cui sorgeranno slanci e desideri di creazione”.
Il fondo poetico comune, quando emerge, è in grado di creare connessioni molto intense. Esso è visibile – anche dopo poche ore – in un gruppo che lavora insieme con un intento condiviso e un tema caro a tutti. È come una spontanea sincronizzazione e sintonizzazione, non solo intercorporea, ritmica (il fenomeno dell’entrainment) ma anche sintattica e lessicale, pur nella permanenza delle differenze. Se il gruppo sta lavorando sulla perdita e la mancanza, lavorare sul fondo poetico comune sviluppa un senso di appartenenza e armonia.
Conclusioni: La Sestina come Co-terapeuta
Nella prospettiva della poesiaterapia, la sestina possiede numerose caratteristiche che la rendono una preziosa alleata per il recupero dell’integrità e della pienezza danneggiate dal fenomeno della perdita:
- Fornisce una struttura rigorosa, dunque una forma altamente contenitiva rispetto a emozioni tracimanti. È senz’altro vero, come affermano Stroppa e Belgradi (ibidem) che la sestina “obbliga il poeta a dipanare una tensione argomentativa all’interno di maglie sintattiche che non possono essere forzate oltre una certa misura”, ma questo obbligo può essere una cura contro la dispersione e l’eccesso di contenuti. Infatti, sempre gli stessi autori affermano, a proposito dell’opera di Rossi Precerutti: “la forma non è intesa in senso costrittivo: non è un limite quanto una possibilità [...] La sestina diventa piuttosto il simbolo di un limite esistenziale, a cui il corpo-parola dell’autore deve sapersi adattare”. La struttura della sestina delimita e delinea un percorso, un tracciato definito, dove camminare dipanando il proprio groviglio interiore. La poeta californiana Tanya Runyan riferisce, dopo aver composto una sestina: “Senza dubbio, le poesie hanno dato al mio cervello un posto dove andare. Le mie sinapsi ansiose si sono agganciate ai modelli a spirale come i cirripedi su una tartaruga marina”. Più la sofferenza è dilagante più l’argine formale è d’aiuto.
- Può produrre un effetto placante e lenitivo perché le parole continuano a ritornare evocando l’immagine di un ciclo vitale, antidoto al vissuto di implacabilità della fine di cui è pervasa la persona che ha subito una perdita. Nella sestina sembra che non si vogliano lasciare andare le parole, così come appare impossibile lasciare andare la persona amata perduta: alla fine tuttavia si chiude il cerchio, attraverso la stanza finale che non a caso si chiama congedo. Nell’elaborazione del lutto c’è bisogno di un tempo e di un ritmo di elaborazione, stare ancora – quanto basta – accanto a chi o a cosa è mancato. La sestina riproduce questo processo concedendo un tempo dello stare e del ripercorrere, tornando e ritornando, sulle immagini e sulle memorie, sì, anche ossessivamente, ma per assimilarle pienamente prima di lasciarle andare.
- Come fa notare Gabriella Sica (ibidem) gli antecedenti della sestina sono da rintracciarsi nella poesia religiosa ebraica e araba, in cui le parole che tornano hanno una funzione di invocazione e canto. Perciò essa ha un andamento simile a una preghiera, a una meditazione che quasi manda in trance, ma anche alla formulazione di un incantesimo. Si rivela anche per questo la forma poetica ideale all’evocazione rituale e magica di una presenza fantasmatica che viene ricreata nel ritmo incantatorio, lasciata manifestare e infine congedata.
- La struttura spiraliforme, inoltre, per quell’effetto di oscillazione fra avvicinamento e allontanamento delle parole chiave, permette di accostarsi gradualmente e obliquamente al nucleo di sofferenza che si sta cercando di investigare ed esprimere. Non soltanto dell’innamoramento, dunque, ma anche dell’approccio al dolore (proprio o altrui) è proprio il movimento del raggiungere girando intorno. Amanda Gorman afferma, a proposito della sua Sestina for my sisters; “Questa poesia è la mia danza con il soggetto. Il tema dell'aggressione sessuale è così potente, così doloroso, che se lo guardassi dritto negli occhi qualcosa in me crollerebbe. Devo affrontare il tema in una specie di danza lenta perché mi consente di accedere a quel dolore senza esserne controllata. La sestina è un percorso fantastico per questo, perché ti concentri davvero sulla forma e meno sugli orrori del provare il dolore di quel trauma”.
Questo richiama alla memoria la nota poesia di Emily Dickinson.
Di’ tutta la verità ma dilla obliqua –
Il successo sta in un Circuito.
Troppo brillante per la nostra malferma Delizia
La superba sorpresa della Verità
Come un Fulmine ai Bambini chiarito
Con tenere spiegazioni
La Verità deve abbagliare gradualmente
O tutti sarebbero ciechi –
- Infine, la sestina offre un continuo movimento creativo di risignificazione e reinvenzione, una forte carica metamorfica dovuta alla plasticità delle immagini generate dalle sei parole chiave. Le parole ritornano, sì, ma variando introducono il nuovo, la vita che si tramuta progressivamente e cresce tramite passaggi ricombinatori e integrativi. “Bello è vedere nei bei versi un dolce pensiero che, permanendo uno, si mostra e s’incolora in tante fantastiche varietà”, diceva Severino Ferrari in una lettera del 1885 a Giosuè Carducci. Ezra Pound dal canto suo (1920) la definì “forma che pare una sottile lingua di fiamma piegantesi e dispiegantesi su di sé”. La sestina offre movimento e trasformazione, cioè proprio quel che una persona bloccata in un lutto paralizzante non riesce a fare.
Mi piace concludere questo articolo riportando alcune sestine, note e meno note, che possano sollecitare chi legge a familiarizzare con la sestina e a sperimentarla personalmente.
Dante Alighieri – Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra
Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra
son giunto, lasso!, ed al bianchir de’ colli,
quando si perde lo color ne l’erba;
e ’l mio disio però non cangia il verde,
si è barbato ne la dura petra
che parla e sente come fosse donna.
Similemente questa nova donna
si sta gelata come neve a l’ombra;
che non la move, se non come petra,
il dolce tempo che riscalda i colli
e che li fa tornar di bianco in verde
perché li copre di fioretti e d’erba.
Quand’ella ha in testa una ghirlanda d’erba,
trae de la mente nostra ogn’altra donna;
perché si mischia il crespo giallo e ’l verde
sì bel, ch’Amor lì viene a stare a l’ombra,
che m’ha serrato intra piccioli colli
più forte assai che la calcina petra.
La sua bellezza ha più vertù che petra,
e ’l colpo suo non può sanar per erba;
ch’io son fuggito per piani e per colli,
per potere scampar da cotal donna;
e dal suo lume non mi può far ombra
poggio né muro mai né fronda verde.
Io l’ho veduta già vestita a verde
sì fatta, ch’ella avrebbe messo in petra
l’amor ch’io porto pur a la sua ombra;
ond’io l’ho chesta in un bel prato d’erba
innamorata, com’anco fu donna,
e chiuso intorno d’altissimi colli.
Ma ben ritorneranno i fiumi a’ colli
prima che questo legno molle e verde
s’infiammi, come suol far bella donna,
di me; che mi torrei dormire in petra
tutto il mio tempo e gir pascendo l’erba,
sol per veder do’ suoi panni fanno ombra.
Quandunque i colli fanno più nera ombra,
sotto un bel verde la giovane donna
la fa sparer, com’uom petra sott’erba.
Francesco Petrarca – A qualunque animale alberga in terra
A qualunque animale alberga in terra,
se non se alquanti ch’ànno in odio il sole,
tempo da travagliare è quanto è ’l giorno;
ma poi che ’l ciel accende le sue stelle,
qual torna a casa et qual s’anida in selva
per aver posa almeno infin a l’alba.
Et io, da che comincia la bella alba
a scuoter l’ombra intorno de la terra
svegliando gli animali in ogni selva,
non ò mai triegua di sospir’ col sole;
poi quand’io veggio fiammeggiar le stelle
vo lagrimando, et disïando il giorno.
Quando la sera scaccia il chiaro giorno,
et le tenebre nostre altrui fanno alba,
miro pensoso le crudeli stelle,
che m’ànno facto di sensibil terra;
et maledico il dí ch’i’ vidi ’l sole,
e che mi fa in vista un huom nudrito in selva.
Non credo che pascesse mai per selva
sí aspra fera, o di nocte o di giorno,
come costei ch’i ’piango a l’ombra e al sole;
et non mi stancha primo sonno od alba:
ché, bench’i’ sia mortal corpo di terra,
lo mio fermo desir vien da le stelle.
Prima ch’i’ torni a voi, lucenti stelle,
o tomi1 giú ne l’amorosa selva,
lassando il corpo che fia trita terra,
vedess’io in lei pietà, che ’n un sol giorno
può ristorar molt’anni, e ’nanzi l’alba
puommi arichir dal tramontar del sole.
Con lei foss’io da che si parte il sole,
et non ci vedess’altri che le stelle,
sol una nocte, et mai non fosse l’alba;
et non se transformasse in verde selva
per uscirmi di braccia, come il giorno
ch’Apollo la seguia qua giú per terra.
Ma io sarò sotterra in secca selva
e ’l giorno andrà pien di minute stelle
prima ch’a sí dolce alba arrivi il sole.
Giuseppe Ungaretti – Recitativo di Palinuro
Per l’uragano all’apice di furia
Vicino non intesi farsi il sonno;
Olio fu dilagante a smanie d’onde,
Aperto campo a libertà di pace,
Di effusione infinita il finto emblema
Dalla nuca prostrandomi mortale.
Avversità del corpo ebbi mortale
Ai sogni sceso dell’incerta furia
Che annebbiava sprofondi nel suo emblema
Ed, astuta amnesia, afono sonno,
Da echi remoti inviperiva pace
Solo accordando a sfinitezze onde.
Non posero a risposta tregua le onde,
Non mai accanite a gara più mortale,
Quanto credendo pausa ai sensi, pace;
Raddrizzandosi a danno l’altra furia,
Non seppi più chi, l’uragano o il sonno,
Mi logorava a suo deserto emblema.
D’àugure sciolse l’occhio allora emblema
Dando fuoco di me a sideree onde;
Fu, per arti virginee, angelo in sonno;
Di scienza accrebbe l’ansietà mortale;
Fu, al bacio, in cuore ancora tarlo in furia.
Senza più dubbi caddi né più pace.
Tale per sempre mi fuggì la pace;
Per strenua fedeltà decaddi a emblema
Di disperanza e, preda d’ogni furia,
Riscosso via via a insulti freddi d’onde,
Ingigantivo d’impeto mortale,
Più folle d’esse, folle sfida al sonno.
Erto più su più mi legava il sonno,
Dietro allo scafo a pezzi della pace
Struggeva gli occhi crudeltà mortale;
Piloto vinto d’un disperso emblema,
Vanità per riaverlo emulai d’onde;
Ma nelle vene già impietriva furia
Crescente d’ultimo e più arcano sonno,
E più su d’onde e emblema della pace
Così divenni furia non mortale.
da Vita d'un uomo, Meridiani Mondadori, 1971
Franco Fortini – Sestina a Firenze
Sempre all’inverno delle torri un fiore
si posa appena aprile apre la terra
con il suo giunco d’aria e agita argento
al riso desolato delle sale
alle armi dei chiostri. Un fiore d’erba
d’aliti cauti anima le pietre.
Sterili strenue adolescenti pietre
più del variare dei nuvoli in fiore
e della virtù avara di ogni erba
che corse le stagioni della terra
foste scienza per me d’amaro sale
impenetrabili torri d’argento
e innanzi a voi negli inverni d’argento
volli eguagliare entro di me le pietre
essere asciutto scintillio di sale
pensiero e forma limpida di fiore
senza peso né ombra sulla terra
senza perire più come fa l’erba.
Ma ora è la virtù breve dell’erba
quanto mi resta invece, il breve argento
degli steli che odorano la terra
sui carri del tramonto. Alle tue pietre,
città amara, mi guidi, ora che il fiore
eterno al gelo delle torri sale.
Ritorno, in cima alla memoria sale,
e ne sorrido, quel tempo: ero erba
e sono, che dissolto al sole il fiore
sibili rade sillabe d’argento
al vento inaridito delle pietre
e pieghi in pace l’ombra della terra.
Dunque verso quell’ombra alla mia terra
vengo da sempre e alle deserte sale
dei templi e delle logge dove il fiore
di Firenze scolora antico e l’erba
parla dei morti fra i marmi d’argento.
Ma per questa mia pace ultima, pietre,
se il vento sale e il sereno alle pietre,
se aprile grida argento, abbia la terra
sempre chi l’erba e il tempo intenda e il fiore.
Da Versi scelti 1939-1989 Mondadori
Alessandro Fo – El portava i scarp del tenis
Il profesùr vide un paio di scarpe
passeggiando una sera in un paese
nella giornata ch’è metà dei passi
della stagione estiva e di sua vita.
Col cuore in ansia vagliò fra sé il prezzo:
la qualità; e le sue poche lire.
“Centocinquanta, è il prezzo, mila lire”.
Ma gli apparivan, le splendide scarpe,
perfette: sì da non avere in prezzo
nevi né guazzi d’inverno al paese
dove la sorte gli assegnò sua vita
(e, qualche volta, tentare alti passi).
Parla un amico, e gli dice: “Non passi
senza profitto l’occasione; le lire
che ti pretende il costo della vita
sono investite nelle belle scarpe”.
Poi mostra che l’artista di paese
ha adibito un cuoio di gran prezzo;
e come – e come ciò non abbia prezzo –
la doppia cucitura a mano passi
la suola Olympic di Trento, paese
di piogge e nevi non da poche lire,
sì che la guardia ch’è sotto le scarpe
sia in prima linea a campare la vita.
E il profesùr ripensò la sua vita:
il giorno dopo giorno; ed il suo prezzo;
la gran necessità di quelle scarpe;
e però anche di non fare passi
più lunghi delle corte gambe-lire,
già sulla via del ritorno al paese
dei guasti all’automobile, al paese
delle bollette, dell’affitto alla vita.
Ma cosa sono la vita, le lire!
Vogliamo un bene? e paghiamone il prezzo!
“La buona idea – disse l’artista – passi:
son destinate già a Crema, le scarpe”.
Andrete accanto al mio paese, scarpe,
breve cometa a mia vita; le lire,
doppiato il prezzo, terranno altri passi.
Bibliografia
Benedetti C, L’ombra lunga dell’autore, Milano, Feltrinelli, 1991, cit. in Bondi F. Meditazioni neometriche. Appunti sulla ripresa delle forme chiuse nella poesia italiana contemporanea, in SigMa. Rivista di Letterature comparate, Teatro e Arti dello spettacolo
Bloom Dan, Laura Perls: The aesthetic of commitment. In Gestalttherapie 19/2, New York 2005
Carducci G. Antica lirica italiana. Firenze: Sansoni 1907
D’Agostino A. Il pensiero dominante. La sestina lirica da Arnaut Daniel a Dante Alighieri. Milano: CUEM 2009
Frasca G. La furia della sintassi- La sestina in Italia. Napoli: Bibliopolis 1992
Fo A., Vecce C., Vela C. Il mistero delle sei stanze. Milano: All’insegna del pesce d’oro - Scheiwiller 1987
Gorman A. An interview by Najya Williams, https://womens.theharvardadvocate.com/amanda-gorman
Lecoq, J. Il corpo poetico. Un insegnamento della creazione teatrale. Milano: I manuali Ubulibri 2000
Manetti D (a cura di) Lettere di Severino Ferrari a Giosue Carducci. Bologna: Zanichelli, 1933.
Mortari L. Un metodo a-metodico. La pratica della ricerca in Maria Zambrano. Milano: Liguori 2006
Perls F., Hefferline R.f., Goodman P. Gestalt Therapy: Excitement and Growth in the Human Personality.
Julian Press 1951, tr.it Terapia della Gestalt: vitalità e accrescimento nella persona umana, Roma: Astrolabio 1971
Pound E. Arnaut Daniel, in Investigations, 1920, tr.ir Saggi Letterari. Milano: Garzanti 1956
Pulsoni C. La sestina nel Novecento italiano. In De Lancastre - Peloso - Serani (a cura di), E vós Tágides minhas.Miscellanea in onore di L.Stegagno Picchio. Viareggio-Lucca: Baroni 1999.
Runyan T. How to Write a Form Poem: A Guided Tour of 10 Fabulous Forms. Katmandu: Barkat Editors 2021
Scaramuccia F. L’Arca di sasso: una sestina “sofferta”. Appunti sulla Sestina a Firenze di Franco Fortini, in Anticomoderno 3, 1997
Sica G. Scrivere in versi. Metrica e poesia. Milano: Il Saggiatore 2003
Spagnuolo Lobb M., Amendt-Lyon N. (a cura di). Il permesso di creare. L’arte della psicoterapia della Gestalt. Milano: Franco Angeli, 2007
Stroppa S. – Belgradi D, Microromanzi e microcosmi. la forma sestina nella poesia italiana degli anni ottanta. In Contrainte créatrice. La fortune littéraire de la sextine dans le temps et dans l’espace, in Quaderni di Metrica e Stilistica. Firenze: SISMEL - Edizioni del Galluzzo 2023
Zambrano M. Los bienaventurados, 1979 (I beati, trad. di Carlo Ferrucci, Feltrinelli, Milano 1992)
Sitografia
Leonora Cupane è una psicologa, psicoterapeuta della Gestalt, specialista in metodologie autobiografiche nelle relazioni d’aiuto (è stata docente e collaboratrice scientifica della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari) e studiosa appassionata di poesia come forma di cura. Vive a Palermo ma conduce laboratori di autobiografia e poetry therapy anche nel resto d’Italia. Ha fondato la scuola di scrittura narrativa d’invenzione Nientetrucchi e coordina un agriturismo letterario dove sta realizzando un bosco poetico.
» La sua scheda personale.