Poetry Therapy Italia

04 011 nucci

 

I due elementi chiave del nostro benessere psicofisico: integrità e pienezza, possono essere modificati nel corso della nostra esistenza da numerosi eventi che ci portano, in modo temporaneo o permanente, a perderne o l’una o l’altra o entrambe, determinando un malessere su cui può intervenire il linguaggio poetico, capace di smuovere la stasi mortifera, farla fluire, con una forza rigeneratrice e trasformatrice.

 

Integrità, pienezza e perdita

Nei confronti del dolore lacerante della perdita quale ruolo può avere la poesiaterapia?

Per affrontare un tema così complesso vorrei partire dalla comprensione di due elementi chiave del nostro benessere psicofisico: l’integrità e la pienezza, cioè la capacità del Sé di dispiegare interamente e fino in fondo la sua unicità e autenticità, componendo parti e funzioni in un insieme armonico, flessibile e dinamico. Semplificando, se si sente che “mancano dei pezzi” viene meno l’integrità; se si è impossibilitati a esprimerli nel mondo in modo completo, non si raggiunge la pienezza. Il malessere è dunque un fenomeno di perdita: dis-integrazione o riduzione del sé vitale. Lungo tutta l’esistenza sono numerosi gli eventi che possono condurci, in modo temporaneo o permanente, a perdere pienezza e non è rara l’esperienza di perdere l’integrità. La morte o l’allontanamento – da una persona cara, un luogo, una passione, un lavoro – può investirci con un dolore e un senso di mancanza intollerabili, se riguarda legami basilari o parti della nostra vita da cui sentivamo dipendere l’identità. Questo dolore non passa, ma può lenirsi e trasformarsi con il tempo: impariamo che possiamo attraversarlo, assimilarlo, renderlo generativo. Da quella pena lacerante, da quel buio, può emergere un senso nuovo che ci riorienta e ci fa riprendere a camminare. Ciò che ci permette di attuare questo processo è la tendenza naturale dell’essere umano a muoversi, a darsi una direzione, a crescere e ad aggiustarsi creativamente all’ambiente e agli accadimenti. Secondo la psicoterapia della Gestalt, la fluidità della dinamica figura-sfondo è un’altra chiave fondamentale del benessere: se si riesce a stare e a respirare dentro la sofferenza per tutto il tempo che occorre, attraversandola e affrontando la paura di esserne distrutti, questa verrà assimilata nello sfondo e l’Organismo formerà spontaneamente nuove figure coinvolgenti, attrattori di impegno e interesse.

Nel lutto, possiamo definire l’assimilazione “il Tu che rimane nel mio corpo dopo averti incontrato” (Salonia, 2017). Superato, infatti, un certo tempo – variabile per ciascun individuo, epoca e circostanza – possiamo riattivare la memoria corporea della persona cara e risentirla presente in un modo diverso, come se vivesse nelle nostre cellule, rendendo più ricco di ossigeno il nostro sangue: diviene nutrimento, carburante che ci consente di continuare a muoverci. Se abbiamo dovuto dire addio a un luogo amato possiamo renderlo luogo interiore, imparando ad abitarlo con il ricordo e l’immaginazione. Perché “uno le case può venderle o cederle ad altri finché vuole, ma le conserva ugualmente per sempre dentro di sé” (Ginzburg, 1984). Possiamo sentire come se ci fosse una porta dentro di noi che può condurci a visitare quel luogo quando ne sentiamo più forte il bisogno e, visitandolo, ripercepirne tutto il calore e l’incanto, che diventano forza motrice per andare oltre. Con il tempo, assimilando gli oggetti scomparsi e trasformandoli in carburante esistenziale, possiamo riprendere a coinvolgerci in altre relazioni con oggetti nuovi (chiamo qui oggetto qualunque essere, ente o ruolo sia stato perduto). Come affermava Hannah Arendt (1987) “l’essere umano è fatto per nascere molte volte, non per morire”. E rinascere significa riprendere a muoversi nel mondo e a contribuire al suo divenire.

Non sempre però il processo di lutto è così fluido: per molteplici motivi potremmo non avere accesso alle risorse che ci permettono di convertire la perdita in movimento, di sciogliere il malessere assimilando dentro di noi la presenza dell’assenza dell’oggetto perduto. Questo processo di rinascita può essere bloccato. Ed è allora che facciamo esperienza della perdita come amputazione, come annientamento. Perché scompare non solo l’oggetto ma le funzioni vitali che a esso erano – e restano – collegate. La catastrofe avviene quando si esperisce la perdita “non dell’oggetto, ma dell’essere, un’emorragia di sostanza vitale” (André, 2012).

Perdendo un genitore potremmo, ad esempio, sentire di perdere non solo la persona ma l’intera funzione dell’essere piccoli, contenuti e accettati incondizionatamente, senza più riuscire a ritrovarla in altre relazioni; o, se il rapporto è stato conflittuale o carente, possiamo perdere l’accesso a quel particolare vissuto di rabbia, vergogna o colpa e persino questo può provocare uno sgretolamento identitario, se siamo profondamente identificati con quei vissuti.

Rimanendo incollati all’oggetto scomparso diveniamo preda di un congelamento paralizzante, non riuscendo a rimettere in gioco nel mondo l’energia legata a quella relazione. Cominciamo a sentirci pieni di buchi, come se una gomma ci stesse cancellando o come se ci trasformassimo in statue. Non ci muoviamo, non cresciamo, finiamo per non riconoscerci più.

Come sottolinea Marozzi (2013) questo congelamento può declinarsi sotto forma di un troppo pieno o di un troppo vuoto: se non riusciamo più a sentire vivo in noi ciò che è assente e al posto di ciò che abbiamo perduto è rimasto solo una voragine, “un attrattore caotico del pensiero che distrugge inesorabilmente la possibilità di insediare alcunché nel luogo della perdita” (ibidem), esperiamo un tragico, devastante “troppo vuoto”; mentre se rimaniamo legati al fantasma, continuando a permanere in quel legame senza riuscire a reinvestire le nostre energie nel nuovo, esperiamo un “troppo pieno”, che è comunque un vuoto, nel senso di una “amputazione della funzione psichica generativa” (Ibidem): non generiamo più immagini, desideri, gesti che non siano viscosamente attaccati a ciò che si è perduto.

C’è anche una terza possibilità, che si colloca in un limbo: la negazione della perdita ma senza il fantasma, cioè l’inabissamento dell’oggetto perduto, la sua sparizione dalla memoria corporea consapevole e dal sentire, la parziale o totale desensibilizzazione a salvaguardia di sé: fa troppa paura prendere contatto con l’accaduto e si mutilano tutti i vissuti che a quell’oggetto erano attaccati. All’apparenza si va avanti come se nulla fosse, a volte anche per tutta la vita, spesso riuscendo anche a stabilire nuovi rapporti, ma in realtà le energie sono limitate e congelate perché sono impegnate a tenere a bada i vissuti, a reprimerli. Anche così il sé la rinascita non avviene, ci si impoverisce e si riducono di molto il respiro, lo spazio vitale, il movimento.

 

I movimenti di base dell’esperienza umana

Dato che noi animali umani abbiamo bisogno di muoverci e di avere una direzione nel nostro andare e agire nell’ambiente, è proprio quando non possiamo ricanalizzare la perdita in movimento che iniziamo a morire: se perdiamo la cronoestesia – il senso della temporalità – precipitiamo in un non-tempo immobile, stagnante. Ma senza temporalità non c’è movimento, quindi, non può esserci assimilazione e trasformazione dell’esperienza dolorosa: non riusciamo a rianimare le parti di noi legate a quella persona, lavoro, luogo, abitudine scomparsa. Vorrei provare a espandere questo concetto esaminando brevemente il lavoro della psicoterapeuta newyorkese Ruella Frank, la quale ha individuato sei movimenti di base che compaiono già nella vita intrauterina e che fondano tutta la nostra esperienza relazionale:

  1. cedere il peso/ abbandonarsi,
  2. spingere/ premere,
  3. protendersi/raggiungere,
  4. afferrare/ aggrapparsi,
  5. tirare a sé/ trascinare,
  6. asciare andare/ rilasciare.

In questi sei movimenti (gesti) e nelle loro combinazioni e intrecci nelle diverse dimensioni (orizzontale, verticale e sagittale) e gradazioni (di intensità, flessibilità e rapidità) è contenuta tutta la nostra capacità di essere con l’altro trovando o mancando il ritmo, la pulsazione relazionale condivisa.
Naturalmente, questi gesti non si estrinsecano solo sul piano fisico: essi assumono molto presto, nel corso dell’infanzia e poi della vita adulta, una forte valenza metaforico-simbolica, connotando tutta la nostra vita affettiva e sociale.
In particolare, per ottenere il contatto pieno dobbiamo poterci abbandonare tanto quanto basta per spingerci oltre noi stessi raggiungendo l’altro, afferrarlo (o farci afferrare) e tirarlo a noi (o essere tirati) in un abbraccio e, infine, sapere quando è il momento di lasciarlo andare.

Non essendoci in questa sede lo spazio per approfondire l’argomento, mi preme fare luce su un aspetto in particolare: poiché tutti i movimenti di base sono strettamente implicati nella relazione con l’oggetto amato, con la sua scomparsa – se avviene quello sgretolamento catastrofico di cui abbiamo detto – si può arrivare a perdere del tutto la capacità di compierli in altri contesti, con esseri viventi diversi e diversi sentimenti e intenzioni. Perdiamo la capacità psichica di muoverci verso una direzione. Se non riusciamo a lasciare andare ciò che abbiamo perso, possiamo percepire come impossibile il ritornare a protenderci per raggiungere qualcuno o la possibilità di abbandonarsi e cedere il peso in una nuova relazione; possiamo sentire di non saper più tirare verso di noi, attrarre, coinvolgere in un abbraccio; possiamo sentirci traditori se ci innamoriamo di nuovo e allora ci aggrappiamo alla memoria di ciò che abbiamo perduto, le nostre mani non riescono più ad afferrare null’altro; o ancora, se incontriamo un oggetto nuovo, per la paura di perdere anche quello sentiamo il bisogno di aggrapparci così strettamente da non muoverci più oppure interrompiamo in fretta il contatto prima che lo faccia l’altro, lo lasciamo prematuramente andare: in sintesi, abbiamo perso il ritmo appropriato dell’incontrarci, stare e ritirarci.

Nei termini della psicoterapia della Gestalt diciamo che si perde la possibilità di formare nuove figure forti, luminose e chiare: il passato non diviene lo sfondo dei contatti assimilati nel tempo, denso e nutriente e in grado di fare emergere le successive figure, ma resta “in figura”, gigantesco e irrigidito. Il naturale ritmo figura-sfondo è disturbato.

 

Il lavoro della poesia

In questo travagliato percorso di elaborazione, assimilazione e riorientamento-rinascita, la parola poetica può assumere un ruolo fondamentale.
Il linguaggio è già, di per sé, la presenza di una assenza. Nomina ed evoca cose, le ricostruisce, le ricrea nella mente di chi le pronuncia o le scrive così come in quella di chi legge o ascolta. Rende reale il mai esistito o il perduto, che può prendere vita attraverso le parole e allo stesso tempo esce fuori da noi: dando voce all’oggetto perduto lo disseppelliamo, lo liberiamo nel mondo, lo trasformiamo in vibrazione sonora e soffio vitale - anziché tenerlo imprigionato nel corpo, nelle ossa, muto. Riuscire a rendere dicibile un dolore lo alleggerisce, lo cambia, lo reintegra nell’esperienza prelevandolo dall’oscura regione dell’indicibile, dove aveva assunto l’apparenza dell’ombra e il peso della pietra.
“Io integro grazie al linguaggio. La mia tristezza è inesprimibile e tuttavia dicibile. Il fatto stesso che la lingua mi fornisca la parola intollerabile realizza immediatamente una certa tolleranza”, afferma Barthes (2010) nel libro postumo Dove lei non è dedicato alla madre scomparsa.

Quale funzione specifica può rivestire, in questo processo di integrazione, il linguaggio poetico?

1. Innanzitutto la perdita si riflette nel linguaggio: nel lutto non si perde soltanto un corpo amato ma anche il corpo delle parole. E allora non basta dire la perdita, raccontarla, se in questo dire il corpo – il battito del cuore, il ritmo, il colore e la vitalità – sono assenti. La sofferenza del lutto, se diviene cronica e impietrisce, può rendere l’eloquio logoro, piatto, stagnante come il sentire e il pensare. Può venir fuori un profluvio di parole senza corpo, che non rianimano il Sé.
La poesia invece, interrompendo il fraseggio del linguaggio ordinario, utilizzando immagini insolite e insolite combinazioni di suoni, movimenta il linguaggio, lo sveglia, lo riaccende. Grazie alla grana, allo spessore, alla musica e al colore di cui sono dotate le parole poetiche, ascoltandole e pronunciandole si produce un senso di pienezza, una vivida matericità che si oppone al vuoto della mancanza annientante. Se si chiede di leggere a voce alta una poesia a una persona che sta vivendo una condizione di perdita cronica mutilante e catastrofica, probabilmente la leggerà in modo monotono, senza neppure accorgersi delle pause, riproducendo l’abituale non-ritmo del suo parlare. Chiedendole esplicitamente di rileggerla osservando le pause, fermandosi, inizierà a respirare; inducendola a immaginare un cavallo al trotto durante la terza lettura, alzando un po’ il volume della voce, inizierà a rianimarsi; invitandola nella quarta lettura a indugiare su ogni singola sillaba e poi su ogni lettera, assaporandola come fosse una caramella, inizierà a riempirsi. Può essere d’aiuto anche la “Poesia Partner” (Blasse, Felicien, Jean Baptiste, 2020): leggere a due o più voci insieme a un partner già allenato e appassionato di lettura poetica a voce alta. Grazie al supporto del partner e al contagio-trascinamento, che andrà messo in atto in modo graduale e delicato, si producono uno scongelamento e una rivivificazione che coinvolgono tutto il corpo.

2. In secondo luogo, la poesia consente di esprimere le emozioni entro una forma che le trattiene dal tracimare dando loro una misura, la misura del verso e della strofa. La sofferenza trova così riparo, culla, dimora: non dilaga caotica ma viene arginata, costretta a una essenzialità ritmicamente organizzata che rassicura e protegge.
Ed ecco uno dei paradossi della poesia: questa forma è data proprio dal vuoto, da una perdita di materia. Infatti, i versi esistono grazie alla presenza di un’assenza: la presenza del bianco della pagina intorno alle parole, dunque, il silenzio. Le parole poetiche non occupano tutto lo spazio della pagina ma si arrestano sul bordo dell’abisso, sul vuoto. Così, in controluce, si percepiscono tutte le parole assenti, cancellate. Il silenzio fra i versi evoca la perdita stessa, il nulla della mancanza e dell’incompletezza, la parola mancante, lo spezzarsi del discorso nella pausa, nel niente.
Il silenzio di cui la poesia è intessuta, questo vuoto che filtra fra le parole, evoca fantasmaticamente il vuoto della perdita; ed è proprio questo vuoto a creare una struttura forte e contenitiva, che consente al dolore di esprimersi senza travolgerci.  Ed è sempre questo vuoto che, costringendo a dire molto con poco, concorre a determinare il senso di densità e matericità di cui dicevamo.
Come nella celebre riflessione di Lao Tzu:

Trenta raggi convergono nel mozzo di una ruota
ma grazie al suo vuoto, al suo non-essere, abbiamo l’utilità del carro.
Modelliamo l’argilla per farne un vaso
e grazie al suo vuoto abbiamo l’utilità del vaso.
Ritagliamo porte e finestre nel fare una casa
E grazie al loro vuoto abbiamo l’utilità della casa.
Perciò, se l’uso dell’essere è benefico,
l’uso del non-essere è ciò che ne crea l’utilità.

La capacità contenitiva della poesia dà asilo alla mancanza edificando proprio sulla mancanza una figura definita, luminosa e forte, che spiccando nello sfondo del silenzio appare ancora più densa e pregna di senso. Si crea così non solo un parallelismo fra l’assenza dell’oggetto amato e il silenzio delle pause ma anche una dialettica polare, feconda e sorprendente, fra vuoto e pieno: dal vuoto si genera la forma creativa e questo atto creatore e modellante “organizza” e tras-forma l’assenza in presenza. E non in una presenza come le altre ma in una materia densa e ritmica, un organo pulsante, un cuore battente che chiama alla rinascita.

3. La pulsazione del cuore poetico non è data non solo dalla presenza delle pause ma dal ritorno dei suoni e delle parole. La ripetizione: ecco un altro elemento fondamentale che rende l’espressione poetica una preziosa alleata nell’elaborazione della perdita. Jakobson (1966) sosteneva che la poesia è incentrata sulla “reiterazione regolare di unità equivalenti”: tale reiterazione sonora, il fatto che gli stessi suoni e le stesse parole ritornino, ricompaiano, ricorda il noto “gioco del rocchetto” osservato da Freud (1920) nel nipotino Ernst di diciotto mesi: giocando a lanciare oltre la tenda un rocchetto per poi farlo ricomparire tirandolo nuovamente a sé e pronunciando le parole “Via...Qui!” il bambino ricreava simbolicamente l’assenza e il ritorno della madre. È lo stesso principio del gioco del Bubu... Settete! questa volta diretto dall’adulto, il cui volto appare e scompare ritmicamente dietro le mani: il momento della ricomparsa provoca una sensazione di intenso appagamento nel bambino, spesso unito a una risata liberatoria.
La poesia è questo gioco del rocchetto: presenza-assenza, apparizione-sparizione, in un ritmo che è quello del battito cardiaco e del respiro ed è già integrante perché riconnette la parola al corpo.
La poesia è un tic-tac, una marea che va e viene, una danza cullante che ricorda le braccia materne, un andare e ritornare entro confini tanto labili quanto vibranti, intensi.
Giocando a Bubu Settete con la nostra psiche, il poetare gioca su due fronti: da un lato riproduce la gioia del ritorno dopo la sparizione, dall’altro aumenta quella che Dorfles (2006) chiama la nostra capacità diastematica, la possibilità di tollerare gli intervalli, le pause, i vuoti nella nostra esistenza. Questi intervalli riproducono la pulsazione che è alla base di ogni fenomeno vitale. La poesia allena a tollerare i vuoti fra una presenza e l’altra e trasmette la speranza del ritorno.

4. Un’altra fondamentale caratteristica che rende la poesia una valente alleata nell’elaborazione del lutto è la sua carica metamorfica. Infatti, come afferma Barthes, non si tratta di “sopprimere il lutto e la tristezza ma cambiarli, trasformarli, farli passare da uno stato statico a uno stato fluido” (ibidem, p.144). Seguendo ancora il discorso di Marozza: “È possibile che in quel fondo insignificabile, in quell’indicibile che allude alla desolazione e al silenzio della morte si insinui un soffio vitale, un’attività che trasformi la decomposizione in fermento vitale, la pietrificazione in levità?” (ibidem). La risposta è affermativa: questa attività può essere (anche) la poesia. Infatti, la sua scelta sottrattiva e quintessenziale la costringe a esprimersi attraverso immagini condensate, gravide di molteplici sensi e significati che trasmutano gli uni negli altri: sinestesie, metafore, similitudini, ossimori accendono un “come se”, un movimento di traslazione e metamorfosi, producendo scarti, salti, voli e immersioni che coniugano levità e profondità.
Bachelard (1975) afferma: “Quando posso dire “io sento una tristezza dall’odore di ananas” questo mi rende meno triste, più dolcemente triste”. Perché attraverso una sinestesia si opera uno slittamento creativo, si espande la tristezza, la si muove e tramuta dandole un profumo di terre lontane. Questa metamorfosi incessante, questo perenne fluire di immagini è l’opposto della stasi mortifera che sperimenta chi è imprigionato in uno stato di perdita catastrofica.

5. La poesia riporta a una fase natale, aurorale, balbettante e al contempo goduriosa del linguaggio. Infatti, per il bambino la parola è concreta e assume le proprietà della cosa cui si riferisce, è il cosiddetto realismo nominale. “I bambini rigirano le parole, ne fanno esplodere qualche immagine imprevista, le fanno saltare da un contesto all’altro con effetti buffi, ritoccano il loro suono. Sembra che se le godano come un buon cioccolatino” (Zamboni, 1999). È esattamente ciò che afferma Goodman (1971), il filosofo cofondatore della psicoterapia della Gestalt: “I bebè fanno esperimenti con dei monosillabi senza senso e si divertono a giocare con i suoni emessi dagli organi vocali; e così fanno di continuo i grandi poeti, non perché si tratti di un gioco “infantile”, ma perché ciò fa parte della pienezza del parlare umano”.
La poesia è dunque un bambino: a prescindere dal suo contenuto, grazie al suo alfabeto, al suo modo di trattare il linguaggio fa comunque sberleffi, giochi di prestigio, produce s-catenamenti; passa come il vento sull’ordine del discorso, lo spettina. È la funambola, la saltimbanca, la giocoliera, l’enfant terrible del linguaggio: ora, esiste un essere che più di un bambino possa fare da antidoto al senso di morte?

6. Possiamo dire, infine, che la poesia è sia un bambino che un dio. Infatti, il suo fare somiglia a quello delle tre Moire. Come Atropo, sconquassa e recide i fili (gli usi abituali delle parole, i legami grammaticali, le convenzioni linguistiche, il fluire del discorso, il rigo tipografico stesso); come Cloto, genera nuovi fili: rime che avvicinano parole diverse attraverso suoni uguali, metafore che unificano concetti lontani, sinestesie che intrecciano i sensi, ossimori che legano gli opposti, iperbati che danno vita a impensati nessi grammaticali...). Infine, come Lachesi, crea la durata, il ritmo. Tagliando e ricucendo connessioni e interrompendo e rigenerando i flussi espressivi, la poesia cura perché mima la dinamica morte-rinascita, disintegrazione-integrazione, devastazione-ricostruzione.

7. Abbiamo alluso al concetto di durata chiamando in causa Lachesi, la Moira che stabilisce la lunghezza del filo della vita. Quella della poesia però non è una durata come si intende comunemente, in senso orizzontale: la poesia, e questo è un altro paradosso, ha una durata verticale. Il suo tempo è la simultaneità, il qui e adesso in cui tutto si racchiude e si compie. Il tempo della poesia è un battito ciclico, è un andare e tornare, è un tempo spiraliforme che è sempre “ora”. Vorrei approfondire il concetto affidandomi alla prospettiva di Bachelard (1939): “In ogni vera poesia si ritrovano gli elementi di una pausa temporale, di un tempo che chiameremo verticale per distinguerlo dal tempo comune che scorre in orizzontale come l’acqua di un fiume, come il vento”. E ancora: “la poesia invece che svolgersi si annoda, si intreccia”.
Ritorniamo al rocchetto, al tempo circolare, al battito, alla pulsazione. La poesia rivitalizza e rianima perché è una pulsazione, non perché scorre. I versi si muovono verso, ma in profondità, in verticale. In tal modo, essa si sottrae allo scorrere del tempo che va verso la morte.
Continua Bachelard: “Le simultaneità accumulate sono simultaneità ordinate. Conferiscono all’istante una sua dimensione, un ordine interno”. È proprio “nel tempo verticale di un istante immobilizzato che la poesia trova il suo specifico dinamismo” e “diventa il principio di un’essenziale simultaneità, in cui anche l’essere più scisso perviene a conquistare la sua integrità” e si sottrae “all’essere incatenato nel tempo orizzontale”, alla “piatta orizzontalità” che corre verso la morte.

A chiusura di questo paragrafo occorre un chiarimento fondamentale: noi esseri viventi su questa terra scorriamo e fluiamo in un tempo orizzontale che ha un inizio e una fine. Dunque, la poesia ci culla e inebetisce con l’illusione di un tempo che sempre ritorna, anziché farci venire a patti con la morte? In questo caso sarebbe una ben misera cura, la sua. Ma non è così, perché la poesia è una rianimatrice: ci sveglia, ci restituisce corpo, cuore e respiro. Ci fa sostare quanto basta in quel tempo verticale e circolare per poi reimmetterci nel flusso del tempo ordinario e quotidiano, lasciandoci un monito: non dimenticarci più di connetterci con quel battito. Possiamo dire che dentro la poesia il ritmo fra vuoto e pieno, fra andare e tornare nel tempo verticale e circolare, pratica al nostro organismo un massaggio cardiorespiratorio facendoci ritornare neo-nati, pronti a essere sbalzati fuori dalla poesia, nel ritmo del tempo orizzontale.

Finendo presto, durando quel che basta, accendendosi e spegnendosi come un fiammifero nella notte, ecco che la poesia ci riconsegna – più integri e pieni, ritmicamente curati e preparati a continue morti e rinascite – nel flusso temporale umano dove anche la fine può essere una trasformazione.

 

Conclusioni

Anziché ricapitolare, vorrei concludere questo scritto con una poesia di René Char:

Ridate loro quel che in loro più non è presente.
Torneranno a vedere il grano della messe dormire nella spiga
e dondolare sull’erba.
Insegnate loro, dalla caduta alla ripresa del cammino, 
i dodici mesi del volto.
Si affezioneranno al vuoto del cuore fino a quando
un nuovo desiderio insorga.
Poiché nulla fa naufragio, nulla è attirato dalle ceneri.
E colui che sa vedere la terra svolgersi verso il frutto,
per nulla è turbato dallo scacco quand’anche tutto davvero
abbia perduto.

 

Bibliografia

André J., Un essere manca, in L. Rinaldi, M. Stanzione (a cura di) Le figure del vuoto. I sintomi della contemporaneità: anoressie, bulimie, depressioni e dintorni. Borla, Roma 2012.

Arendt H., La vita della mente. Il Mulino, Bologna 1987

Bachelard G., Istante poetico e istante metafisico, in Message: Metafisique et Poesie 1939, tr.it in L’intuizione dell’istante - Psicoanalisi del fuoco, Dedalo, Bari 1973

Bachelard G., La poetica dello spazio. Dedalo, Bari 1975

Barthes R., Dove lei non è. Einaudi, Torino 2010

Belting H., Immagine, medium, corpo. Un nuovo approccio all’iconologia. In A. Pinotti, A. Somaini (a cura di), Teorie dell’immagine. Cortina, Milano 2009

Blasse G., Felicien Z., Jean Baptiste D., Impatto sull’apprendimento degli studenti con bisogni speciali attraverso la poesia multivocale. Sciencia Script, Mauritius 2020

René Char, Poesia e prosa, cura e traduzione di Giorgio Caproni, Feltrinelli, “Biblioteca di letteratura”, Milano 1962

Didi-Hubermann G., Gesti d’aria e di pietra. Corpo, parola, soffio, immagine. Diabasis, Bari 2005

Dorfles, G., L’intervallo perduto. Skira, Milano 2006

Frank R., The Bodily Roots of Experience in Psychotherapy. Taylor& Francis Ltd, Milton Park 2002

Freud S., Al di là del principio di piacere, v. orig. 1920, trad. it. Bollati Boringhieri, Torino, 1975

Ginzburg N., La città e la casa. Einaudi, Torino 1984

Jakobson R., Linguistica e poetica, in Saggi di linguistica generale. Feltrinelli, Milano 1966.

Lao Tzu, Tao Te Ching. Adelphi, Milano 1994

Maraini F. Gnosi delle fanfole. Dalai Editore, Milano 1994

Marozza M.I.: Assenza di vita, assenza di morte. Il rischio della vita psichica, in Quaderni di cultura junghiana, 2013 n.2

Perls F., Hefferline R.f., Goodman P., Terapia della Gestalt: vitalità e accrescimento nella persona umana, Astrolabio, Roma 1971

Salonia G., Danza delle sedie e danza dei pronomi. Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2017

Zamboni C., Lingua materna fra limite e apertura infinita, in Thune, E.M. All’inizio di tutto la lingua materna, Rosenberg e Sellier, Torino 1998

 

 


 

leonora cupaneLeonora Cupane è una psicologa, psicoterapeuta della Gestalt, specialista in metodologie autobiografiche nelle relazioni d’aiuto (è stata docente e collaboratrice scientifica della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari) e studiosa appassionata di poesia come forma di cura. Vive a Palermo ma conduce laboratori di autobiografia e poetry therapy anche nel resto d’Italia. Ha fondato la scuola di scrittura narrativa d’invenzione Nientetrucchi e coordina un agriturismo letterario dove sta realizzando un bosco poetico.  
» La sua scheda personale.