IL POETA URBANO. PAROLE POETICHE IN MUSICA. Una nuova rubrica curata da Paolo Maria Manzalini che, in sintonia con l’argomento di questo numero della rivista, racconta la rilettura dell’Antologia di Spoon River che fece nel 1971 Fabrizio De André, a partire dalla traduzione di Fernanda Pivano e con il contributo di Nicola Piovani.
Si apre con questo numero una rubrica, da me curata, dal titolo IL POETA URBANO. PAROLE POETICHE IN MUSICA, che riprende il titolo di un LP di Giorgio Lo Cascio, cantautore italiano forse poco conosciuto al grande pubblico nonostante avesse contribuito alla stagione molto ricca negli anni Settanta, a partire dal Folkstudio di Roma, e che prese il nome di Scuola Romana, lanciando i cantautori più noti come De Gregori e Venditti, senza dimenticare Ernesto Bassignano.
A quell’album e a Giorgio Lo Cascio, prematuramente scomparso alla soglia dei cinquant’anni nel 2001, dedicherò il giusto tributo in uno dei prossimi numeri, dal momento che è proprio l’efficacia poetica di alcuni suoi testi che hanno fatto nascere in me l’idea di questa rubrica: uno spazio di approfondimento sulla parola poetica musicata.
L’esigenza editoriale di questo numero dedicato alle questioni del lutto mi ha indotto ad aprire la rubrica con la proposta di un album che è stato un vero e proprio capolavoro nel panorama della musica d’autore italiana, anch’esso giunto alla luce all’inizio degli anni Settanta.
Fabrizio De André, "Non al denaro non all’amore né al cielo"
Una rilettura moderna di un classico della poesia che celebra compiutamente la vita attraverso il prisma della morte
Tu prova ad avere
un mondo nel cuore
e non riuscire
ad esprimerlo con le parole
Nel novembre 1971 Fabrizio De André pubblica il suo terzo concept album, tratto dalla Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. L’epopea degli abitanti di un piccolo centro della provincia americana rivivificati dalla morte era già nota a De André dagli anni della sua gioventù, ma l’idea di mettere in musica una raccolta tratta dal volume che ha condannato a un successo senza possibilità di replica l’autore americano gli è sopraggiunta leggendone la traduzione di Fernanda Pivano. Non a caso a impreziosire l’album in vinile De André scelse di proporre un’intervista alla stessa Pivano nella quale i due intrecciano sottolineature, tanto sull’opera originale, quanto sulla versione rigenerata dal cantautore genovese.
Il disco, sapientemente arrangiato da Nicola Piovani, riprende l’Antologia nelle sue linee narrative e nel suo impianto pur nella brevità della scelta limitata a poche liriche. Tuttavia, ne fornisce una rilettura del tutto nuova e personalizzata, a riguardo del racconto dei personaggi che vengono riproposti in chiave più moderna e universale, ma anche nelle forme stilistiche, con versi rielaborati e una scelta formale molto chiara in discontinuità con quella del poeta americano. Al verso libero di Masters De André preferisce le rime e le assonanze che ricamano le storie dei protagonisti potenziando l’incisività del racconto, senza mai scadere nello scontato e nello stucchevole. La rielaborazione con i rimaneggiamenti stilistici, con la soppressione di alcuni versi e con il rilancio di chiavi di lettura contestualizzate alla contemporaneità del periodo in cui è stato pubblicato l’album non è fine a sé stessa. Non si tratta di una semplice operazione di re-styling quanto di una proposta poetica e politica.
Delle oltre duecentoquaranta poesie che compongono l’opera di Edgar Lee Masters De André ne sceglie solo nove. Parte da quella introduttiva che contestualizza l’opera e definisce La collina (The Hill) come il teatro dell’azione scenica. Il cimitero diventa il luogo della verità e la rilettura poetica della morte si propone come un prisma, che getta nuove prospettive di luce sull’esperienza di vita dei protagonisti di questa commedia umana, ambientata sì nella provincia americana di fine Ottocento, inizio di Novecento, ma estendibile universalmente a ciascun uomo di ogni epoca.
Dopo La collina, che va considerato un vero e proprio prologo, l’album si suddivide in due parti che corrispondono ai due lati del vinile. De André, con il suo amore per le precise corrispondenze e una tendenza quasi ossessiva all’ordine stilistico, ma anche di contenuti, spinge molto sulle costruzioni circolari. Il lato A propone le storie di persone in qualche modo emarginate e fiaccate dalla vita, accomunate dal tema dell’invidia, mentre il lato B propone vicende di protagonisti che hanno avuto nella società un ruolo e che in qualche modo hanno trovato nella Scienza un loro credo, ma senza rispondere in modo soddisfacente e risolutivo agli interrogativi esistenziali. Libero battitore e personaggio narrante è il suonatore Jones, che chiude i versi del brano introduttivo e poi con la sua storia autobiografica chiude il disco con quella sottolineatura circolare voluta dall’artista genovese. Appare chiara l’impersonificazione che De André compie rispetto a questo personaggio, nel quale si rispecchia a pieno spessore, con alcune precisazioni che fuori dall’opera affida all’intervista con Fernanda Pivano.
Quello che colpisce fin dal primo brano è la lettura, lucida e stilisticamente impeccabile, che viene proposta della morte, come evento unificante per tutti gli uomini. Finito il ciclo della loro vita, tutti si ritrovano sì nello stesso luogo, ma senza nessun appiattimento. La morte è democratica, ma i personaggi, elencati nella prima canzone con il solo nome, mantengono una loro caratterizzazione e vengono presentati in poche singole parole o da brevi descrizioni che li raccontano nel loro dinamismo vitale. E, in effetti, De André non ha dubbi: dormono sulla collina. Dormono sì, ma vengono presentati pronti a risvegliarsi, come succederà poi nelle successive canzoni dedicate singolarmente ad alcuni di loro. La morte non chiude il discorso. Anzi! La morte permette di rivivificare ciascun personaggio. Con il lapidario enunciato del nome è come se venissero battezzati alla vita, per sempre, nonostante il destino avverso o beffardo. Che si tratti di attività ordinarie come il lavoro, eventi possibili come le malattie, o comportamenti non ortodossi, a ciascun personaggio la morte non toglie la vita, gliela restituisce piena e finalmente libera. Herman, Charlye, Elmer, Edith, Tom, Ella e Maggie sono ritratti che mantengono vivacità e dinamismo. Fino ad arrivare all’immagine collettiva della morte dovuta alla guerra. E qui il genio poetico di De André trova spazio senza limiti. I generali, con i cimiteri di croci sul petto, sembrano sì inchiodati, mentre i soldati partiti per il fronte per le ragioni più diverse (un ideale/ una truffa un amore finito male) mantengono viva la passione per la vita, grazie alle bandiere che, smettendo di essere sudario, contribuiscono a una funzione vitale nonostante la brutalità della guerra che smembra i corpi. Il primo brano si conclude, con una variazione di timbro musicale e con la presentazione di Jones, il suonatore. Anche per lui la domanda sottintesa è dove sia. Ma nella risposta il ritratto è di piena vitalità, nonostante la sorpresa dei novant’anni. I verbi usati al passato per spiegare la sua Weltanschauung, che non a caso dà il titolo al disco, non lo ritraggono in una passività spenta. Tutt’altro: sembra di sentirlo ancora!
Un matto (dietro ogni scemo c’è un villaggio) è il titolo che De André dà alla vicenda di Frank Drummer, giovane venticinquenne che una morte pietosa strappò alla pazzia. Il disagio è quello di non riuscire a esprimere ciò che si agita dentro e quello che appare come manifestazione evidente di follia è il tentativo astruso di aggirare l’ostacolo con una iperbole: se non trovo le parole imparo a memoria tutta un’enciclopedia. Le parole vengono chiamate in un’adunanza, una per una, in ordine alfabetico. Schierate, pronte ad agire. Di quelle messe in bocca al protagonista, le prime tre non appaiono per nulla casuali. Una parola piana, come maiale, accostata, in un ossimoro, al nome di un poeta, Majakowsky, particolare e persino esotico rispetto al contesto. E infine il giudizio, malfatto, che dice tutta l’essenza del titolo: il giovane Frank si sente come il villaggio lo fa sentire (continuarono gli altri fino a leggermi matto) e, nel tentativo di controvertire lo stigma che lo inchioda, non demorde. De André restituisce la vitalità di questo giovanissimo in pennellate molto efficaci, che lasciano intravvedere anche le ragioni del disagio e: senza sapere a chi dovessi la vita/ in un manicomio l’ho restituita. La parola “vita” nella seconda parte della canzone viene ripetuta con insistenza, paradossalmente nei luoghi della non vita: il manicomio e il cimitero sulla collina. Il destino di Frank non cambia ma rimane vivo: inchiodato alla sua angoscia, non trovando aiuto nell’infinità di parole dell’enciclopedia non gli resta che inventare nuove parole, non comprensibili agli altri finché una morte pietosa lo strappò.... Anche da morto Frank rimane vivo e continua a pensare ai suoi concittadini e all’indicibilità della sua sofferenza.
La prima parte del disco procede con altri personaggi che sono accomunati da un destino di emarginazione di vario genere. Può sembrare paradossale che un giudice possa essere un individuo emarginato. Ma il doppio sguardo dei due poeti dà una descrizione a tutto tondo di un individuo che non si arrende al fatto di non essere cresciuto fisicamente come gli altri, ma di avere intelletto, volontà e senso etico in abbondanza. Deriso per i convincimenti popolari più scontati Selah Lively non si arrende: da garzone del droghiere diventa giudice e si sente autorizzato ad applicare la giustizia secondo un personale contrappasso. Mentre Lee Masters lo presenta attraverso un ritratto tutto giocato in prima persona, De Andrè usa una doppia prospettiva: la prima parte del brano riporta la irriverente maldicenza della gente, la seconda dà la graffiante versione del protagonista. Quest’ultimo fa trasparire l’ebbrezza che gli deriva dal poter decidere della morte e della vita degli altri in una onnipotenza genuina, incurante di conoscere la statura di Dio.
In un enjambement che collega la terza alla quarta canzone Dio è co-protagonista. Un imbroglione che inganna, ma Wendell P. Bloyd arriva a dire che il destino dell’uomo è segnato dall’invidia di Dio, che si accorge che la sua creatura gli potrebbe assomigliare troppo. Il testo originale è più “teologico” mentre la rilettura di De André appare molto antropologica, con le note libertarie a lui consone. Il protagonista non muore per le botte di un infermiere bigotto del manicomio, ma per mano di due guardie. Può sembrare una sottigliezza, ma pur nella delicatezza del fraseggio di testo e musica, il poeta genovese non si trattiene nel dare una lettura sociologicamente coerente al suo pensiero: l’”ordine costituito” difende i principi religiosi per controllare gli equilibri sociali.
Si torna alla poesia pura, libera da orpelli troppo sovraordinati, nella storia di Un malato di cuore. La vita da ragazzo chiama, nonostante il ritmo balordo del tuo cuore malato, per poi trovarsi adulto e avvertire il tempo sprecato a farti narrare la vita dagli occhi. Francis Turner non ci sta al ruolo di semplice spettatore e l’amore diventa un’esperienza folgorante. La poesia di De André rende alla perfezione l’intrecciarsi di silenzio e voce, di stupore e contentezza: Non credo che chiesi promesse al suo sguardo, / non mi sembra che scelsi il silenzio o la voce, / quando il cuore stordì e ora no, non ricordo / se fu troppo sgomento o troppo felice… La vita val bene un bacio che la rende piena e degna di essere vissuta, pur nella consapevolezza di essere diversi dagli altri. La vita viene e va al ritmo bizzarro di un cuore malato e per quanto l’esperienza dell’amore la colori di una vivacità unica, il protagonista non cancella la consapevolezza del suo essere diverso dagli altri, nonostante il ritrovarsi nel destino comune della collina e lo ribadisce nella chiusa finale, che decisamente lo tiene ancora vivo: no, non mi riesce di sognare con loro.
Il lato B del disco propone le storie di un medico, un chimico, un ottico. Per poi chiudere con l’artista musicista Jones.
Il denominatore diventa quello della scienza, che da illusione si trasforma in elemento che non soddisfa a pieno.
Per il medico Siegfried Iseman la grande delusione sta nel crollo delle sue velleità che lo porta a scoprire che la scienza non puoi regalarla alla gente. L’idealità di traspondere le idealità caritatevoli del credo cristiano nella professione medica, anziché portare il bene a tutti lo condannano al destino degli altri poveri: se non vuoi ammalarti dell’identico male, / se non vuoi che il sistema ti pigli per fame. Il sistema (parola utilizzata da Edgar Lee Masters nella accezione di “modalità finalizzata a”) nella versione di De André ha una chiara connotazione socio-politica. E i colleghi d’accordo i colleghi contenti / nel leggermi in cuore tanta voglia d’amare / mi spedirono il meglio dei loro clienti con la diagnosi in faccia e per tutti era / uguale: ammalato di fame incapace a pagare. Da dottore a imbroglione il passo è breve. La pretesa di poter aiutare tutti si conclude in una inutile paralisi: sfogliare i tramonti in prigione. Come a dire che la scienza non può risolvere le questioni della giustizia sociale.
E ugualmente la scienza, questa volta nella applicazione della chimica, non può risolvere le questioni della complessa alchimia dell’amore. Trainor, il farmacista, finisce per morire in un esperimento riuscito male proprio come gli idioti che muoion d’amore, la prudenza a non correre il rischio di unioni mal assortite non lo mette al riparo dalla possibilità di sbagliare nel tentativo di generare qualcosa di nuovo. Coerentemente alle sue convinzioni egli non capisce come ci si possa illudere che l’amore generi cose buone. L’amore spegne il sorriso, l’amore è un attentato alla vita: questo il convincimento del chimico farmacista. Ma egli si arroga il diritto di sposare gli elementi e farli reagire prendendo le distanze dagli altri uomini che hanno la folle convinzione di combinarsi attraverso l’amore / affidando ad un gioco la gioia e il dolore. La beffa è che partendo da presupposti di convincimenti diversi la conclusione è la stessa: solo la morte mi ha portato in collina un corpo tra i tanti a dar fosforo all’aria.
Da ultimo la illusorietà del mercante di luce, spacciatore di lenti, Dippold. Propone nuovi orizzonti sui quali guardare. Dalla “semplice” chiave di lettura caleidoscopica della versione originale, dalla quale si evince che gli occhiali sono una possibile opportunità di trasformare il nostro rapporto con la realtà, De André fa riferimenti piuttosto espliciti alla possibilità di alterare la realtà perché la gente non veda. E come non cogliere il riferimento storico sociologico alla diffusione, negli anni settanta del secolo scorso, dell’eroina tra la popolazione giovane per deviare la spinta al cambiamento...Vedo i fiumi dentro le mie vene, cercano cercano cercano cercano... e disinnescarla ...Sangue che scorre senza fantasia porta tumori di malinconia…
Dopo le psichedeliche stimolazioni derivanti dal testo e dalle musiche di Un ottico, l’atmosfera sonora e dei versi si riporta a una più tranquilla rarefazione. È come se De André intendesse portarci non sulla collina, ma nelle ovattate atmosfere che si agitano nella memoria del novantenne Jones, contadino mancato perché poi se la gente sa, / e la gente lo sa che sai suonare, / suonare ti tocca per tutta la vita / e ti piace lasciarti ascoltare. Naturalmente i campi finirono alle ortiche, ma che maestria del suonatore Jones (che poi possiamo identificare nello stesso De André) nel far risuonare i rumori e i fruscii della natura nella gonna di una ragazza che ruota nella danza sull’aia come un vortice di foglie. La similitudine della libertà che dorme nelle terre coltivate e cintate di filo spinato e che invece si risveglia ogni volta che si suona per un fruscio di ragazze al ballo o per un compagno ubriaco è di una potenza poetica straordinaria. Jones e De André avrebbero avuto un destino segnato verso altre attività in cui sarebbero riusciti brillantemente, ma la passione incontenibile per la libertà li porta ad assecondare il proprio talento a cantare la vita perché la loro sensibilità faceva sì che: Sentivo la mia terra / vibrare di suoni, / era il mio cuor / e allora perché coltivarla ancora, / come pensarla migliore.
In questo brano che chiude in maniera commovente l’album, nell’atmosfera rarefatta della collina, riecheggia più la vita che non la morte anche se il flauto si è spezzato e il respiro della musica di Jones si è spento. È l’unico brano in cui De André non modifica il titolo e non varia se non di pochissimo i versi conclusivi di Edgar Lee Masters: nella immedesimazione più totale il genio di De André troneggia nel riecheggiare di un ridere rauco / e ricordi tanti / e nemmeno un rimpianto.
Paolo Maria Manzalini (Napoli 1963) medico, psicologo clinico, psicoterapeuta si occupa di cura e riabilitazione psichiatrica dal 1992, prima in contesti residenziali e da dieci anni in contesti territoriali. Attualmente Responsabile della Struttura Semplice dell’Area Territoriale Psichiatrica della ASST di Vimercate. Promotore con l’Equipe del CPS di Vimercate della rassegna Far Rumore – Azioni per la salute mentale. Da sempre attento alla parola come fondamento dell’incontro e della comunicazione tra gli umani, negli ultimi cinque anni ha ripreso ad approfondire l’espressione teatrale e ha preso parte alla edizione 2017-18 del Corso di TeatroPoesia condotto da Domenico Bulfaro presso il Teatro Binario 7 di Monza. Responsabile Comitato Scientifico di Lì sei vero – Festival Nazionale di Teatro e Disabilità.
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