Poetry Therapy Italia

09 011 nucci

 

Esplorando il lutto per l’infanzia perduta e il trauma derivante da un attaccamento insicuro, si mette in evidenza il potere trasformativo della poesia. Attraverso la scrittura e la lettura nelle pratiche di poesiaterapia, è possibile dare voce al dolore, elaborare le emozioni e intraprendere un percorso di guarigione. Le poesie di Ada Limón, Anna Achmatova e Denise Blake offrono metafore potenti per affrontare la perdita e riscoprire forza interiore. La poesia diventa così uno spazio sicuro per accettare, piangere e trasformare il passato. 

– Traduzione di Giulia Tosolini – 

La perdita e la morte si presentano sotto molte forme. Alcune delle ferite più profonde derivano dall’infanzia, in particolare quando l’attaccamento, le cure o la sicurezza sono stati assenti o incoerenti. Queste, spesso invisibili al mondo esterno, si manifestano in correnti emotive profonde che plasmano poi le relazioni, la percezione di sé e il benessere mentale per tutta la vita. Una delle lotte più grandi è il lutto per l’infanzia che avrebbe dovuto essere, l’amore, la sicurezza e la gioia che non ci sono mai stati o che non sono stati sperimentati abbastanza spesso. La poesiaterapia offre una via potente per elaborare questo lutto dell’infanzia perduta, dando voce all’indicibile e creando uno spazio per la trasformazione.

“La mia infanzia era passata senza che me ne accorgessi e sembrava che il mio cuore si fosse congelato. Io sapevo che il giorno e la notte andavano e venivano grazie alla presenza della luna e del sole, ma non avevo idea se fosse domenica o meno. Non avevo idea se fosse domenica o venerdì”.
Ishmael Beah

 

Il potere della poesia nel lutto dell’infanzia perduta

La poesiaterapia, con la sua natura espressiva e simbolica, è un faro di speranza per coloro che lottano contro un trauma infantile. Permette alle persone di elaborare le proprie emozioni, di acquisire consapevolezza e di favorire la guarigione. A differenza della terapia tradizionale, che si basa sulla conversazione diretta, la poesiaterapia coinvolge il subconscio attraverso la metafora, il ritmo e l’immaginazione, consentendo un coinvolgimento più delicato e talvolta più profondo con il dolore.
Per coloro che hanno subito un trauma infantile, le parole possono sembrare inaffidabili o addirittura pericolose. La poesia, tuttavia, offre uno spazio strutturato e nel contempo liberatorio in cui le emozioni possono emergere senza temere il giudizio o l’abbandono. Scrivere e leggere poesie può convalidare le esperienze passate, offrire nuove prospettive e fungere da ponte tra il dolore passato e la guarigione presente, facendo sentire le persone comprese.

 

Sperimentare la poesiaterapia nel viaggio di lutto e guarigione

Per mano di Ada Limón, Anna Achmatova e Denise Blake, siamo invitati a intraprendere un viaggio di lutto e guarigione, a guardare indietro e, come supereroi, a saltare in mare. Le poesie che leggeremo ci forniscono una mappa per navigare nelle complesse emozioni della perdita infantile, offrendo conforto e comprensione.

Ultimo brindisi

Bevo a una casa distrutta,
alla mia vita sciagurata,
a solitudini vissute in due
e bevo anche a te:
all’inganno di labbra che tradirono,
al morto gelo dei tuoi occhi,
ad un mondo crudele e rozzo,
a un Dio che non ci ha salvato.

Anna Achmatova, traduzione italiana di Michele Colucci.

Bisogna partire dall’inizio, dal portare alla luce le ragioni che hanno distrutto i pilastri della nostra casa e risvegliato il male nella nostra vita. Solo nel riparo dell’accettazione di tutto ciò che ha reso la nostra esperienza in un mondo “crudele e rozzo” possiamo salvarci. 

L’avvoltoio e il corpo

Sulla strada per la clinica della fertilità,
passo davanti a cinque animali morti.
Prima un procione con tutte e quattro le zampe rivolte al cielo
come se volesse prendere qualsiasi stronzata
gli cada addosso.
Poi, un coyote adulto, il suo corpo dorato e peloso, appoggiato al labbro
di cemento bianco della barriera stradale. L’imbroglione non c’è più,
un occhio chiuso su ciò che sta per arrivare.
Vicino alla torre dell’acqua che dice “Florence, Y’all”, il che significa
che sono vicino a Cincinnati, ma ancora nello stato del bluegrass,
e vicino alla mia uscita, vedo
tre cervi morti, tutti barcollanti ma insieme, e mi rendo conto, mentre sfreccio
con la mia macchina della morte, che sono una famiglia. Mi dico qualcosa
tra una preghiera e una maledizione: come osiamo vivere
su questa Terra.
Voglio dire al mio medico che tutti noi conteniamo una dualità
nelle nostre menti: futuri completamente diversi, con la testa per aria o i piedi per terra.
Voglio dirgli che ultimamente è sufficiente ricordarmi che il mio corpo
non è solo il mio corpo, ma che sono fatta di vecchie stelle e anche lui lo è,
e che martedì scorso,
sono rimasta seduta da sola in macchina vicino all’ufficio postale
per un’ora intera, senza che nessuno sapesse come trovarmi, finché
non sono scesa, il suono della portiera dell’auto che si chiudeva come una pistola,
e ho spedito lettere, tutte con scritto: “Grazie”.
Ma in clinica, la sonda dell’ecografo mostra i miei follicoli, lui mi chiede
se ho qualche domanda, e dice: “Le cose si stanno facendo interessanti”.
Vorrei dire: “Ma che ne sarà di tutti gli animali morti?
Ma lui se ne va di corsa e a me non resta che tirarmi su le mutande come una bambina ormai grande.
A volte c’è una sorella violenta dentro di me, e una scala rossa
che vuole andare altrove.
Torno a casa dall’altro lato della strada, in direzione sud.
Il camice bianco ha detto che sono pronta, e guardo un avvoltoio
che mi passa davanti, dirigendosi verso
le carcasse che non ho adeguatamente pianto e nemmeno perdonato.
E se, invece di portare in grembo
un bambino, dovessi portare il dolore?
Il grande saprobo nero vola parallelamente ora, ognuno di noi si dirige a velocità sostenuta,
intensamente guidato verso ciò che ci è stato insegnato a fare con la morte.

Ada Limón, traduzione italiana di Giulia Tosolini
(nota al testo: bluegrass è il genere musicale per cui è noto il Kentucky)

E quando si riconoscono il dolore, la perdita, la morte di un’infanzia mai vissuta appieno, si vede la carcassa che è il proprio bambino (interiore) e ci si chiede come prendersi cura di quello che è morto: ci si nutre di esso o si scappa per far finta che non sia mai esistito?
O forse, c’è un’altra opzione: prendersi il tempo per perdonare e piangerlo? Con L’avvoltoio e il corpo, Ada Limón ci invita a esaminare la morte che ci siamo lasciati alle spalle e ci offre una seconda possibilità.

Wonder woman

In piedi davanti all’onda del Mississippi fangoso
dopo che il medico del pronto soccorso aveva detto: “Beh,
a volte succede”, mi sono innamorata follemente
di New Orleans, di nuovo. Le pillole per il dolore
nella borsa insieme a un incantesimo per dopo. Mi ci è voluto
un po’ di tempo per ammettere che sto combattendo una battaglia furiosa
con il mio corpo, una colonna vertebrale piegata di trentacinque gradi,
le vertigini che vanno e vengono come un cattivo della DC Comics
che nessuno può uccidere. Il dolore invisibile è sia
una benedizione che una maledizione. Sembri sempre così felice,
disse una volta uno sconosciuto mentre mi spostavo sul mio lato buono
sorridendo. Ma quel giorno, da sola sulla riva del fiume,
con gli ottoni della Steamboat Natchez,
con la coda dell’occhio vidi una ragazza, forse della metà dei miei anni,
vestita, senza alcun motivo apparente, da Wonder Woman.
Si pavoneggiava in tutta la sua forza e gloria, invincibile,
eterna, e quando mi sono alzata per applaudire (perché chi non l’avrebbe fatto),
si è inchinata e si è messa in posa come se sapesse che avevo bisogno di un mito:
una donna, vicino a un fiume, indistruttibile.

Ada Limón, traduzione italiana di Giulia Tosolini.

Nel viaggio verso la nostra infanzia perduta, la creazione di un significato è una medicina tanto quanto lo sono il lutto e il perdono. Considerare le cicatrici una fonte di forza, il dolore un superpotere e l’infanzia una storia di origini. Ada Limón formula la prima riga del nostro mito personale: “una donna (alias un essere umano), vicino a un fiume, indistruttibile”. Con essa, la prospettiva di guarigione, il terreno del potenziale e la domanda: Come vogliamo che la nostra storia continui? 

Pausa in spiaggia

E se vi capita di vederla, a piedi nudi
mentre attraversa le sabbie salate del mare, una figura
solitaria, con una tavola di cobalto sotto il braccio, mentre il sole tramonta
dietro di lei in uno stendardo di luce, non gridate.
Non fermate il suo impeto. Guardate da
distanza mentre si avvicina al bordo della riva,
danza nella bassa marea che le si increspa attorno.
Aspettate che si leghi alla caviglia il vincolo della sicurezza
perché ha liberato le sue paure. Galleggia fuori,
si gira, guarda in avanti, si alza in piedi con sicurezza.
Sfida l’oceano a darle il meglio di sé.
I venti hanno soffiato, raccogliendo tutti i suoi momenti
in una mareggiata vorticosa. Guardate come il suo spirito si solleva
sulla meraviglia del ricciolo di un’onda.
Sappiate che ha finalmente trovato il suo equilibrio,
il fondo dell’oceano sotto di lei è stato appianato
e una nuova speranza si piega intorno a ostacoli ostinati.
Non dubitate della sua resilienza, perché ogni sfumatura di blu
di blu si immerge in un tubo di acqua che rotola
e lei scompare completamente nello splendore.
Guardatela sorridere mentre viene onorata a riva.

Denise Blake, traduzione italiana di Giulia Tosolini.

La fine del viaggio è l’inizio di una vita di apprezzamento di sé stessi. Una vita vissuta con la capacità di mantenerci sicuri, protetti e stabili; una vita di espansione e la sicurezza di chi sa di potersi tuffare nelle profondità dell’oceano e tornare a riva, sano e salvo.
Denise Blake ci presenta un’immagine commovente, un’immagine che può aiutarci a immaginare come potrà sentirsi il nostro io futuro, quando le nostre paure si saranno metastatizzate e trasformate in coraggio e resilienza.
Il nostro viaggio di elaborazione del lutto e di guarigione del nostro bambino interiore si conclude con una prospettiva positiva, mentre la medicina della poesia compie la sua magia. Ci rimane un’immagine visiva positiva, forte e speranzosa, perché “se puoi immaginarlo, puoi crearlo. Se puoi sognarlo, puoi diventarlo” ed è questo che la parola poetica ci permette di fare.


Nota biografica

María Ortega García è educatrice linguistica e consulente interdisciplinare per l’educazione linguistica, con un focus sull’insegnamento trauma-informed e mental health-informed e la poesiaterapia. Apporta le sue conoscenze di psicologia sociale, scienze umane e neuroeducazione al suo lavoro sia con gli studenti e gli educatori linguistici.
mariaortegagarcia.com