Filosofia dei boati è la silloge poetica di debutto di Gaia Croce. Vent’anni, terza classificata alle Finali Nazionali individuali U20 di Poetry Slam del Campionato LIPS 2023-2024, ha dimostrato di avere personalità e grandi doti di poeta performer. La sua poesia è come lei: un toccasana capace di andare controcorrente. Infatti, al contrario di come di solito si caratterizza la letteratura adolescenziale, porta speranza, concretezza, responsabilità e amore per la vita.
Un rimprovero bruciante nei confronti degli adulti corre a filo di parola in queste composizioni di Gaia Croce:
non credo più
al candore del bianco
credo all’avvertimento mancato.
Spesso l’essere umano entra nella preadolescenza dal momento in cui inizia a percepire gli adulti come manchevoli. Perché non mi avete avvertita? Perché ci mentite? La scoperta per l’infante che Babbo Natale non esiste, ad esempio, porta con sé il crollo del mondo incantato. L’infanzia finisce quando l’incanto finisce. È questo il primo passo verso la consapevolezza che non siamo eterni ma clessidre fragili con il tempo contato, che nella maggior parte dei casi ci romperemo prima che la sabbia sia finita. Le “bugie bianche” non possono nascondere in eterno il loro fetore, il quale non nasce solo dal prendere coscienza che il candore su questa terra duri quanto un fiocco di neve, ma soprattutto dal fatto che, una volta svelate, le bugie bianche sono dall’infante lette come tradimento della fiducia incondizionata rivelatasi mal riposta. Qualcosa a questo punto si rompe dentro, una parte di noi rischia di morire e restare congelata dentro, ibernata in questo stato, chissà per quanto, forse per sempre. Si scopre sulla propria pelle che i passaggi da età a età, dalla nascita, all’infanzia, all’adolescenza, all’adultità, alla vecchiaia, alla morte, non sono mai lineari e armoniosi. Ma insieme, si scopre anche, che i soli a decretare davvero la fine della propria infanzia – e quindi del tempo dell’incanto, del tempo sospeso – non siamo altri che noi.
L’amore per i genitori, l’amore per un altro adolescente, l’amore per la vita, nascondono in queste poesie l’incontro con la morte. Rappresentano il timore di perdere per sempre l’età dell’innocenza, l’età in cui eravamo un "cuore puro / e maschere solo a carnevale”.
Il tempo mitico e incantato dell’infanzia rappresenta per Gaia il luogo per eccellenza della poesia,“il posto delle fragole”, per dirla con Bergman. Il luogo dell’infanzia è per lei irrinunciabile, non solo in quanta fonte primordiale dei ricordi personali, ma anche perché le è chiaro quanto rappresenti un posto salvifico per ogni altro essere umano. La poesia di Croce, seppur venata di nostalgia per lo sguardo bambino, conquista per il suo potente messaggio di speranza, per il suo inguaribile inno all’amore, il quale sorge e s’innalza in reazione alle piccole e grandi delusioni d’amore:
Dovremmo smettere
di usare
il nostro corpo
come tana del dolore.
Dovremmo permettere
all’amore
di entrare nelle nostre vite,
che una risata
pervada
ogni parte di noi.
Gaia è una poeta-guerriera, una che se c’è da raccogliere una sfida, l’accetta. Non è sempre stata così, se l’è guadagnata questa profonda fiducia in sé stessa, ferita dopo ferita, poesia dopo poesia, battaglia dopo battaglia epica del quotidiano vivere. Sì, serve eroismo per riuscire nell’impresa di accettarsi, guardarsi allo specchio e dire il proprio nome, riconoscendosi in quel nome, in quella voce, in quell’immagine. Ognuno ha la propria “piccola grande olimpiade" da vincere. Nessuno può essere certo di vincerla, però la vita è una sfida che puoi vincere solo se sali sul ring della morte. Una delle battaglie più grandi con cui la poesia di Gaia ha incrociato la lingua e combatte egregiamente è quella di integrare nel suo mondo la dimensione della “perdita”:
Volere non è potere,
potere non è ambire,
ambire non è esagerare,
esagerare non è perdere,
perdere non è morire.
Temere che fosse una sconfitta,
senza sperare,
quello è perdere.
È perdere una vita piena,
piena di valore,
nella quale ogni scelta
faceva rumore.
Il punto di vista da ventenne con cui ci narra e restituisce la percezione del mondo è certamente affascinante, ma il tratto che più colpisce chi legge questi testi, credo sia quello che ho definito “filosofia” in versi, composta di improvvise accelerazioni e decelerazioni ritmiche che culminano in conclusioni potenti come boati. Nella sua poesia ci muoviamo tra tre Gaia: la Gaia narratrice-adolescente; la Gaia che è stata bambina e che lei percepisce come un’immagine del passato ma ancora fresca di vernice; la Gaia adulta, che lei percepisce ancora come proiezione di sé ma che già si affaccia sul mondo circostante.
In queste composizioni parla infatti di sé e del suo rapporto con il mondo, parla dello strappo che deve affrontare quando il mondo si smaschera dei suoi volti apparenti e indossa le maschere della tragedia, della crudeltà, della morte.
Nessuno sa se si possa aggiustare
qualcosa di rotto,
rotto molto tempo prima,
quando il tempo era l’unica salvezza.
Senza tempo manca
la fede e, senza fede,
manca la speranza.
Speranza uccisa,
da un seme maligno,
un seme che solo male può portare.
Spesso accade che di fronte a malattie gravi come tumori, gli adulti tengano nascosta la verità a bambini e adolescenti, fino a ridosso della morte imminente. Per quanto questa scelta o non scelta sia spesso dettata da un istintivo senso di protezione del “piccolo”, non è quasi mai questa la strada giusta da percorrere per aiutarlo a relazionarsi con la propria e altrui condizione di essere mortale. Questo ci dicono le poesie di Gaia Croce: tenere nascosta la verità sulla morte, crescere i propri amati piccoli tenendogli gli occhi chiusi e insegnando loro a tenere gli occhi chiusi di fronte alla morte, non li aiuterà a costruire una relazione sana con la morte e quindi nemmeno con la vita, essendo l’una e l’altra inseparabili; la poesia ti insegna ad aprire gli occhi quando occorre aprirli – vedere – chiudere gli occhi quando occorre chiuderli – scoprire – battere le palpebre quando occorre che palpitino – amare –. Non sono queste le tre parole che indica Gaia per “portare luce nel buio”?
Vorrei tornare bambina:
vedere,
amare,
scoprire,
il tutto come i bambini.
I bambini,
coloro che portano luce
nel buio.
Coloro che con un sorriso
sciolgono il cuore più freddo,
più ferito.
Coloro che sono cura
in un mondo malato.
Gaia Croce è pienamente consapevole che lo stupore che lei aveva da bambina è la fonte del benessere. Così com’è consapevole del potere curativo della poesia, ma di come sia sapiente nell’impiegarla come strumento di autoguarigione
Chiudi gli occhi,
pensa all’arcobaleno,
ricco di diversi colori:
La scrittura poetica cerca di ricucire quello strappo tra il mondo mitico, ideale, del bambino e quello reale dell’adulto. La poesia di Croce si dipana come discorso poetico, filos volante che slitta, come una spoletta. Il tessuto che nasce da questi testi intesse un’identità che arde d’essere sé stessa, un’identità che si interroga poeticamente su chi voglia essere da adulta, nella consapevolezza che il mondo impone a ogni maggiorenne di essere adulto/a, ma non lo aiuta in alcun modo a interrogarsi su quale essere umano adulto vorrebbe incarnare. Il passaggio dall’infanzia all’adultità viene percepito da Gaia come un salto troppo repentino. La poesia, ci dice implicitamente Croce, aiuta a rallentare la corsa sfrenata del tempo, ci obbliga a soffermarci, a stare di fronte a noi stessi, senza sconti
Pensa alla storia,
alla tua storia
e chiedi alle stelle
come sia possibile
udire più botti
che risate.
e ci aiuta a stare con gli altri, comprendendo come e quando accogliere o tenere a distanza i bisogni dell’altro:
Morte dentro la vita
vita per lui
morte per noi.
La silloge Filosofia dei boati è abitata da giochi di parole, ritmo, respiro, verticalità, desiderio di profondità, tuffo, mare, vita e morte esplorate… Il suo stile pop filosofico nasce in seno alla cultura del poetry slam – Gaia si è classificata terza all’ultimo Campionato nazionale U20 della LIPS –, mediata da una robusta preparazione umanistico-scientifica, che ha potuto coltivare frequentando il Liceo “B. Russell” di Garbagnate Milanese, dove l’ho scoperta. Ma la radice più profonda del suo linguaggio semplice e immediato non è di origine culturale ma esistenziale. La sua è una voce da bambina adulta, una voce di adolescente che è stata capace di mantenere pulito e integro il letto del suo fiume, il fondale del suo mare. La poesia di Gaia ci mostra con disarmata (e quindi disarmante) trasparenza, con quali pensieri e di quali parole l’autrice si nutra per crescere, quali sono le paure che persino una adolescente così radicata a terra come lei, deve affrontare. I suoi versi nascono da domanda esistenziali che ogni essere umano dovrebbe porsi: Chi sono? Cosa è vero? Cosa è puro? Certamente c’è in queste poesie una percussiva richiesta di sincerità e verità:
Vorrei le nostre verità,
scritte nelle scatole nere,
che le nostre verità nere si parlassero:
cuore esangue
nel cuore esangue.
e ancora nella poesia “Il tuffo” dice
Preferisco essere
l’ultima della fila
amata per come sono
che il primo
amato per essere il primo.
Ma se l’infanzia è l’età in cui il tempo non esiste, l’adolescenza è l’età in cui il tempo comincia a prendere una forma chiara e si comincia a credere (illuderci) che abbiamo tutto il tempo, o quasi, per risolvere qualsiasi problema; c’è sempre tempo, questa è la percezione in cui l’incoscienza umana prospera. Finché sopraggiunge l’adultità, l’età in cui non si ha più tempo per qualunque cosa, men che meno il tempo di essere se stessi. La mortalità non è solo una condizione esistenziale, ma corrisponde anche all’età nostra più prossima alla morte, quella in cui ci è chiaro che il tempo non può più rappresentare per noi una via per la nostra salvezza. Ed è forse da questa chiara percezione che il tempo della nostra vita cammina nella finitudine, che ci siamo dati un tempo post-mortem, una vita oltre la vita, una vita eterna.
La poesia di Gaia è come lei: un toccasana capace di andare controcorrente. Infatti, al contrario di come di solito si caratterizza la letteratura adolescenziale, porta speranza, concretezza, senso di responsabilità con leggerezza e amore per la vita. I suoi versi hanno il dono di infondere speranza. Questa profonda fiducia nel domani in una adolescente è davvero rara. Da dove le viene questo coraggio di tuffarsi nella vita e abbracciarla? Ce lo dice lei: dal non farsi negare da nessuno il diritto di “poter sognare, / almeno in quello / sono rimasta bambina.” e dal saper integrare le brutture del mondo e le proprie sconfitte, trasformandole in bellezza:
Ho vent’anni
e il mondo è diventato più grigio,
ho vent’anni
e migliaia di auto goal,
ho vent’anni
e nel mio mondo
è tutto più bello.
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ANTOLOGIA
Gaia Croce
Filosofia dei boati
L’immensità del boato
L’amore espresso
rubando rubini rubati
amore “vero” mi dicevi.
Cuori colpiti da colpi dementi
falsati da ciò che di base
falso era.
Stretti i denti,
Uno schiaffo.
Iridi incandescenti,
due schiaffi.
Botta, causata da botte
tutto
rinchiuso in botti.
Non botte
ma trombe,
tempeste,
mari,
musiche,
risate.
Questo vorrei sentire.
Rosa rossa come sangue
rosso amore
rosso odio.
Odio e amore,
amore e odio.
Schiaffo e pugno,
pugno e calcio,
calcio e spinta.
Boom!
Luce nel buio,
oscurità nascosta
nel mio animo
animo dal tuo diverso.
Animo animale,
bestia della notte.
Lividi
nelle iridi
iridi incandescenti,
Uno schiaffo.
Stretti i denti,
due schiaffi.
Paura, terrore
terrore di ricerca
ricerca di nascondiglio.
(A volte) penso di non avere tempo
o forse è il tempo a non avere me
la sera è tardi, la mattina è presto
la sera è buio, la mattina è chiaro.
La mattina lui non c’è
la sera sì,
la sera il mio fiato si spegne
spegne
la luce che c’era.
Non ti temo
mi ripetevo
ma intanto, ferma ero.
Agisci dicevano:
lotta e attacca,
attacca e difendi,
difendi e spara.
Armi eguali
ma diverse.
Sono madre di mia figlia
figlia di mia madre
moglie di mio marito,
ma chi sono?
Entità nascosta
nascosta dalla vita.
Respiro
libertà
quello sognavo.
Donne senza diritto,
dobbiamo esser dritte
per l’uomo che rette ci vuole.
Morte dentro la vita
vita per lui
morte per noi.
Cerchiamo la luce,
chissà,
dov’è.
*
Ardere
Quella ghiandola
infiammata,
nel tuo seno
bruciava le fiamme:
non solo lì
ma ardeva nel tuo cuore.
Un rovo
talmente ardente,
che oltre soffocante
bruciava:
bruciava la pelle,
bruciava il cuore,
bruciava l’anima
ma soprattutto,
bruciava la vita.
A chiedersi perché,
perché proprio a me
senza sapersi dare risposte.
C’è chi se n’è andato
per paura
e chi è restato,
per amore.
Anni dopo
ancora mi chiedo
perché esista
un dolore così massacrante.
Ogni massacro è a sé:
ogni massacro è
il male peggiore,
che nei giorni e nelle ore,
ci si possa immaginare.
Non sapevi più
se potevi immaginare,
sognare,
se valeva la pena,
amare e creare.
Forse tutto avrebbe portato alla distruzione,
meccanismo
che nulla ha di meccanico
e che nessun meccanico
potrà aggiustare.
Nessuno sa se si possa aggiustare
qualcosa di rotto,
rotto molto tempo prima,
quando il tempo era l’unica salvezza.
Senza tempo manca
la fede e, senza fede,
manca la speranza.
Speranza uccisa,
da un seme maligno,
un seme che solo male può portare.
Avrebbe attraversato le nostre vite in una porta,
avrebbe creato un portale,
un vortice senza uscita,
mentre uscirne era l’unica cosa che volevi.
Volere non è potere,
potere non è ambire,
ambire non è esagerare,
esagerare non è perdere,
perdere non è morire.
Temere che fosse una sconfitta,
senza sperare,
quello è perdere.
È perdere una vita piena,
piena di valore,
nella quale ogni scelta
faceva rumore.
Ti disarmava di ogni arma
e toglieva ogni vestito:
il tuo vestito,
ormai era e sarebbe stata,
quella ghiandola.
Tutto portava a quello,
la mia mente era fissa lì,
era affissa come un quadro
a quella parete,
una parete vuota.
Nulla riusciva a colorarla,
nulla riusciva a darle un senso,
nulla la riempiva di sfumature,
nulla, il nulla
l’unica cosa che dava senso:
il vuoto assoluto,
un vuoto che cercava il consenso.
Tutto era muto,
in quella stanza vuota,
sarà il paradiso?
Mi è ignota,
questa casa,
queste pareti,
questo letto.
Sembra tutta una farsa,
e provo solo confusione,
ho quesiti,
senza avere risposte:
ho cercato nei siti
pensando alle proposte,
te ne avrei fatte un milione,
se solo fossi qui,
chissà se mi ritieni ancora un campione.
*
Il tuffo
– Sa! Sa! Sa!
Prova! prova! prova! –
In che senso sa,
sa che cosa?
In che senso prova?
Non puoi provare,
sei sul trampolino,
non hai tempo
ti devi tuffare
preparato o no
in mezzo al mare.
Devi iniziare a nuotare
tra i milioni di pesci
devi essere in grado
di sorpassare,
di fermarti
e di rallentare.
Nessuno ti aspetta
e aspetterà,
solo tu puoi aiutarti.
Devi distinguerti
devi essere il pesce pagliaccio
tra le sogliole.
Non so se è chiaro
ma siamo in fondo
al mare,
ricordi i racconti
del mare:
ognuno è preda
e ognuno cacciatore.
La mia realtà, però, è diversa:
non riesco a stare al passo dei
tu devi
non mi so distinguere
in questo mare di pesci,
tutti così vari,
così rari.
È un mare in moto,
e in me un maremoto
di sentimenti
tra loro contrastanti.
Il primo contrasto è che
tutti devono distinguersi
ma essere uguali? Uguali?
Qual è il pro
di essere
tutti uguali?
L’uguaglianza?
La fratellanza?
L’amore?
Non direi:
uguali uguale omologati.
A che pro essere tante uguali sogliole
tanti uguali pesce pagliaccio.
Cento volte meglio
essere un pesce pagliaccio unico che uguale
anche se deriso da tutti
perché non temuto da tutti.
Preferisco essere
l’ultima della fila
amata per come sono
che il primo
amato per essere il primo.
Preferisco essere come Dory
memoria breve
e cuore grande
ma più di ogni altra cosa o persona
preferisco essere la pesce pagliaccia Gaia:
cercatrice di perle di sole
nella melma del fondale.
Piuttosto che essere uno squalo,
odiato da
tutte le prede,
squalo odiato da
tutti gli squali,
squalo odiato da
sé stesso
perché squalo.
*
Il patto
Un patto distrutto.
L’altro è il nemico:
diverso da me
per ideologia,
per quella che definiamo l’idea perfetta,
quella prediletta,
rispetto a quale?
Solo noi lo sappiamo.
Chiudi gli occhi,
pensa all’arcobaleno,
ricco di diversi colori:
da soli sono belli,
ma nell’insieme,
sono i versi migliori.
Pensa alle falene
che di notte si
poggiano su
davanzali
senza
sapere di
chi siano.
Pensa
a come ciascuno di noi
abbia dolori
e gioie.
Pensa alla storia,
alla tua storia
e chiedi alle stelle
come sia possibile
udire più botti
che risate.
Vorrei svegliarmi
e sapere
che dall’altra parte del mondo
c’è una donna con i miei stessi diritti.
Vorrei saperla felice,
amata
e non tra i detriti,
di una guerra da lei non chiesta.
Un patto distrutto,
distrutto da
“Guerra e pace”,
sempre insieme:
non sarebbe più bello
se la guerra
si facesse guerra,
e vincesse la pace?
solo pace.
Voi che per li occhi
mi passaste il core...
Mi chiedo
come Cavalcanti
abbia potuto paragonare l’amore
alla guerra.
L’amore che
porta fiori
e sospiri
e riempie i cuori,
paragonata
al sangue del massacro,
che si sparge su ogni acro,
una guerra che
non guarda in faccia
e ghiaccia
ciò che la circonda.
Un patto distrutto,
distrutto da
chi ignora
che pace deriva
da pax, pacis.
Distrutto da chi
conosce
l’orrore,
il terrore,
ma non l’amore.
Chiudi gli occhi,
immagina di non sentire più
guerre
bombe
pianti disperati
di bambini mai nati.
Pace,
un sorriso,
un fiore regalato,
una tavola imbandita
e una stretta di mano
con chi vedi
nemico.
*
Cuore puro
Forse
l’unica cosa
di cui abbiamo bisogno
è essere accettati.
Accettati per essere
noi stessi,
accettati per preferire
coperta e camomilla,
a fumo e discoteca,
accettati per amare
anziché odiare.
Forse serve un grazie,
un prego,
un per favore
in più.
Dovremmo smettere
di drammatizzare
come drammatizzò Dante
così che
il dolore non ci laceri.
Dovremmo smettere
di usare
il nostro corpo
come tana del dolore.
Dovremmo permettere
all’amore
di entrare nelle nostre vite,
che una risata
pervada
ogni parte di noi.
Dovremmo ambire
alla felicità,
senza accontentarci
della banalità.
Dovremmo cercare
noi stessi,
senza ascoltare
chi di noi
nulla sa.
Forse se ci fosse
meno distanza,
se la distanza fosse equa,
i nostri cuori parlerebbero
e capirebbero,
capirebbero che siamo
equi-distanti.
Ma quanto può
questa distanza,
essere equa?
È qua che capiamo,
o cerchiamo di capire,
anime diverse dalla nostra.
È in quel momento
che il diverso
diventa bello,
è la priorità.
Pensiamo sempre
che ci manchi qualcosa:
voglio i capelli mossi,
voglio una casa al mare,
voglio diventare un calciatore,
voglio essere ricco,
voglio, voglio, voglio.
Dovremmo, semmai, essere come i bambini,
cuore puro
e maschere
solo a carnevale.
*
Chiusura
– Chiudi gli occhi –
sento una voce
che ripete
– Chiudi gli occhi –
– Chiudi gli occhi –
– Chiudi gli occhi –.
Perché dovrei farlo?
Per essere cieco
al male che circonda,
alla cattiveria
regalata,
alla guerra
che calpesta.
Vorrei rimuovere
il dolore,
lasciare spazio ai sogni,
i migliori nascono nel silenzio,
nella solitudine,
nel buio accecante.
Se chiudo gli occhi
perdo la certezza,
il controllo.
Preferirei essere un gufo
nel buio, perché è nel buio che
trovo la bellezza.
Sì, la trovo
ma inizio un tracollo
verso il giorno
in cui barcollo
e mollo.
– Chiudi gli occhi –
rimbomba nella mia testa
come una pesta
che tutto fa
fuorché festa.
Mi chiedo
perché ci sei, voce,
e chi sei?
Forse sei la voce
nella mia testa
che urla come Cristo ai farisei
– Chiudi gli occhi –,
va bene,
li ho chiusi.
E ora
cosa cambia?
Cambia, per caso, l’infrangersi
del mare
sugli scogli!?
Cambia il fischio
della marmotta spaventata!?
Cambia il sorriso
di mio padre!?
Cambia il verde foresta
degli occhi
di mia madre:
non cambia nulla.
Solo il mio respiro
diventa flebile,
una flebo
di fede,
di speranza,
di amore.
– Chiudi gli occhi –
m’incalzi
– Chiudi gli occhi –.
Sono già chiusi
e forse è meglio così,
Non vedo più occhi tagliati,
sorrisi tagliati,
pianti dirottati,
nuovi amori ritagliati
amori sfiniti.
Vedo buio
solo buio.
Stringo di più
le mie palpebre,
le cucio
sperando che l’ombra
viva nel cucire,
come gonna al bottone
l’oscurità
a me.
Amen.
Come una valanga di vento
ecco la voce:
– Apri gli occhi –
come apri gli occhi?
Non dovevo non provare nulla?
Non dovevo mollare?
Non dovevo tenerli sigillati
come il mio cuore?
Il mio cuore
un lucchetto
indistruttibile,
è in realtà
un guscio di chiocciola
che ha paura di morire
e ancora di più
di vivere.
*
Vent’anni
“Io c’ho vent’anni, perciò, non ti stupire
se dal niente faccio drammi”,
ho sempre creduto
nella meraviglia,
nella creazione,
nella ricerca,
nella brezza cristallina
in cima alla montagna.
Ho vent’anni e credo ancora,
sono alla ricerca
sì, ma della mia ancora.
Credo nella brezza
dono della terra,
credo nella terra che ci dona ogni giorno
un motivo per proseguire
questa strada,
ma no, non credo più nell’uomo.
Non credo nell’adulto che sono io,
negli adulti che ho intorno.
Mi chiedo: che adulto vorrei essere?
ma rispondono che lo sono
già.
Quando e come
lo sono diventata?
Ricordo la sensazione,
quando il mio stomaco si è chiuso
nel momento in cui ha realizzato
che avevo vent’anni.
Ma in quel momento
non ero un’adulta.
Vorrei tornare bambina:
vedere,
amare,
scoprire,
il tutto come i bambini.
I bambini,
coloro che portano luce
nel buio.
Coloro che con un sorriso
sciolgono il cuore più freddo,
più ferito.
Coloro che sono cura
in un mondo malato.
Vorrei tornare bambina:
proteggere il mio cuore,
lasciarlo crescere
senza ascoltare nessuno
ma ascoltando tutti.
Vorrei tornare bambina,
urlare al mondo chi sono.
Vorrei tornare bambina,
donare più sorrisi,
più abbracci,
più carezze.
Fare più domande,
cercare meno risposte.
Vorrei tornare bambina,
vorrei che ogni bambino
del passato,
del presente
e del futuro
possa vivere nel sogno
senza vedere il mondo
per mezzo
del velo di Maya.
Ho vent’anni
e il mondo è diventato più grigio,
ho vent’anni
e migliaia di auto goal,
ho vent’anni
e nel mio mondo
è tutto più bello.
Non mi vergogno
di pensare alle favole.
Ho vent’anni
il mio mondo preferito è nei libri
in una galassia lontana,
in una scuola di magia,
nell’Inghilterra dell’Ottocento
nelle canzoni di un gruppo
che non c’è
e forse,
non ci sarà più
eppure vive in me,
ma non solo.
Il mio mondo preferito
è la mia fantasia
è poter sognare,
almeno in quello
sono rimasta bambina.
*
Punto. A capo
Un nuovo inizio.
A volte credo che
ci vorrebbe questo:
un nuovo inizio.
Ricominciare da zero
come se lo zero non valesse
ma avesse valore assoluto.
Vorrei iniziare
dal punto,
dimenticandomi di quello che vi era prima.
Un punto
a capo,
non dovrebbe essere difficile,
non dovrei impazzire,
dovrei solo
ricominciare.
Dovrei eliminare
il negativo,
il tossico,
il malato
dalla mia esistenza.
E se ricominciando
non fossi più questa?
Se non fossi più in grado
di scrivere,
di cantare,
di suonare,
di amare?
Se non fossi più in grado
di essere
me stessa?
Certo,
vorrei ricominciare,
vorrei riavvolgere la pellicola,
tornare indietro nel tempo.
Vorrei che il mio cuore
soffrisse di meno:
vorrei non essermi mai fidata
di chi mi ha pugnalata,
vorrei non aver speso tempo
per chi non mi apprezzava,
vorrei essermi amata di più.
Se potessi tornare indietro
ti abbraccerei per la prima
e ultima volta,
ti direi addio
prima ancora di averti avuto
nella mia vita.
Le maggiori ferite,
quelle che ti porti dentro da tempo,
sono quelle che mi fanno dire
che vorrei ritornare indietro
e cancellare tutto.
Se cancellassi tutto,
però,
non sarei qui.
Non sarei davanti al mio quaderno
a scrivere parole
che forse non hanno senso
ma sono ciò che mi rappresentano.
Forse è giusto
partire da un punto,
forse è giusto
cercare un nuovo inizio
ma forse, questo,
non è il modo giusto.
Voglio un nuovo inizio
partendo da chi ero,
da quello che ho vissuto,
dalle mie ferite
e dalle mie cure.
La salita sarà difficile,
ma guardare il panorama dal cucuzzolo
ricorderà tutto il passato:
non va lasciato alle proprie spalle,
non va dimenticato,
va ammirato
così come si ammira
il paese in cima alla montagna.
*
Gelido soffio
Cammino
dove avete camminato,
respiro
dove avete respirato,
vivo
dove non avete vissuto.
Nel gelo di novembre,
nel forte
gelido
vento
sento le vostre grida,
mi sembra che le vostre anime
stiano passando
attraverso la mia.
Non dimenticherò
le foto,
i volti visti,
la sofferenza sentita.
Com’è possibile
che in un luogo sia racchiusa
così tanta storia?
Così tanto dolore?
Ho immaginato
i vostri corpi
accatastati,
vi ho immaginati felici
all’idea di una doccia,
vi ho immaginati morti
a bruciare come la peggior feccia,
quando eravate semplici uomini,
donne
e bambini.
Mi sono chiesta
quanti bambini sono
nati morti
per mano di chi
era morto dentro.
Vi immagino
camminare spogli
dove sto camminando con il mio piumino,
i miei guanti,
il mio cappello.
Vi immagino
camminare spogli
della vostra identità,
vi immagino
camminare spogli
della vostra dignità.
Come cipressi spogli
i vostri corpi spogli
la vostra anima
spoglia.
Leggo sulle targhe
i vostri nomi,
ricordo le storie dei nonni:
il rumore delle bombe,
lo zio disperso,
la bambola sotto i detriti.
Mi sembra di capirli un po’ di più.
Sono nella vostra stanza,
forse l’unico luogo
in cui potevate tirare un sospiro di sollievo.
Vi immagino
in questi minuscoli letti
alla ricerca di una ragione
per questo male,
di una ragione
per svegliarvi.
Chissà se sapevate
dove si trovavano i vostri compagni,
chissà dopo quanto avete capito
che da lì,
probabilmente,
non sareste mai usciti.
*
La nostra piccola grande olimpiade
Basta
“bugie bianche”
non sono più piccola,
non credo più
al candore del bianco
credo all’avvertimento mancato.
Dovevano avvertirmi:
le bugie bianche
non sono sicure
mentre io ho trovato
il mio posto sicuro.
Mi sono immersa
nella mia casetta
non era una cassetta
di sicurezza
ma era una cassetta
di schifezza.
Mi sono
persa
nel tuo sguardo,
senza aspettare
il tuo “puoi”.
Un permesso
non richiesto,
parlava più di mille parole,
cercavo
una risposta diversa,
cercavo
me stessa.
Abituata a sentire
“amore bello come il cielo bello come il giorno”
di Baglioni,
aspettavo le tue confessioni.
Mi parlavano di una
“lunga storia d’amore”,
io non la vedevo,
vedevo solo il mio cuore
a pezzi,
un’altra volta distrutto.
L’ennesima delusione
che ringhia e
azzanna il mio cuore,
vorrei dire
“sono solo parole”
ma mentirei,
e tu lo sai,
di parole
non ce ne sono.
Ci sono
sguardi persi,
volti esangui,
vorrei “la verità”
la verità
del mio cuore esangue,
del tuo cuore esangue.
Ma come si fa
a dire la verità
se prima non si cuciono le ferite?
Sai com’è
la verità
fa paura,
fa male.
Fa paura
soffrire.
Ci sono io,
“non avere paura”
ne ho più di te,
siamo “due anime”
insensibili
incomprese
impossibili
ma insieme
dovremmo,
potremmo
osare di più.
Non chiedo un “pettinero”,
se tu fossi mattiniero
avremmo
un tratto in comune
tra righe diverse.
Chissà se ce ne sono altri,
chissà se i nostri stili
s’incroceranno,
chissà forse “sei un mito”,
ma io non sono il tuo passaggio di rito.
Ho passato “vent’anni”
con persone che ripetevano
non ci sono “bravi ragazzi”,
sono tutti come Danny
quello di Grease.
Ti ho conosciuto
“gli anni” passati
sono passati
come passati
di falsità.
Ero solita camminare
nel terreno argilloso
con uno sguardo
mi hai portato
nel terreno paludoso.
Non so chi c’è nel riflesso dei tuoi occhi
ma so che in questi tuoi occhi c’è la luce
che illumina
la mia scatola nera.
Vorrei le nostre verità,
scritte nelle scatole nere,
che le nostre verità nere si parlassero:
cuore esangue
nel cuore esangue.
Chissà se riusciremo
a vincere questa “Olimpiade”,
la nostra piccola grande
“Olimpiade”.
Biografia
Gaia Croce, 20 anni, nata a Garbagnate Milanese nel mese dei cambiamenti. Studia Lettere moderne e il resto del tempo lo passa tra il volontariato, la pallavolo e il calcio. Sua compagna fedele in ogni momento è la poesia.
Dome Bulfaro (1971), poeta, esperto di poesiaterapia, si dedica alla poesia (di cui sente un servitore) ogni giorno dell’anno. È tra i più attivi e decisivi nel divulgare e promuovere la poesia performativa; ed è il principale divulgatore in Italia della poetry therapy/poesiaterapia. Dal 2021 è docente di Poesiaterapia e Lettura espressiva poetica presso l’Università degli Studi di Verona, nel pionieristico Master in Biblioterapia. Nel 2013 ha ideato e fondato con C. Sinicco e M. Ponte la LIPS - Lega Italiana Poetry slam. Nel 2023, ha ideato e fondato con M. Dalla Valle. P. M. Manzalini e I. Monge la BIPO - Associazione Italiana Biblioterapia e Poesiaterapia, prima associazione di categoria. Ha fondato e dirige Poetry therapy Italia (2020), rivista di riferimento della Poesiaterapia italiana. Ha fondato e dirige (con Simona Cesana) PoesiaPresente – Scuola di Poesia (2020) performativa, scrittura poetica e poesiaterapia. www.domebulfaro.com
(Foto Dino Ignani)
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