Cultura occidentale e orientale, filosofie indiane e neuroscienze, poesia e psicologia: l'autrice intreccia e dipana i fili inseparabili del binomio vita-morte, andando a scandagliare il fondale della relazione tra le piccole morti (Viorst) e la grande morte.
La morte si intreccia con la vita.
Come suggerisce la filosofa Lisciani Petrini (2009) nell’introduzione all’opera di Jankélévitch, questo è il cuore della questione, il punto esatto da cui partire e a cui fare ritorno per tracciare il percorso di qualsiasi speculazione intorno al binomio vita-morte che abbia cura di guardarlo intero, nella sua intima ambivalenza. La morte, infatti, non è da considerare come qualcosa che ci attende al termine dell’esistenza, ma come ciò che scorre parallelamente alla vita e che risulta sempre attuale. In ogni istante, non possiamo esimerci dall’esperienza di entrambe: “come non smettiamo mai di vivere la nostra vita, così non smettiamo mai di morire la nostra morte” (Lisciani Petrini, 2009, p. XXVI). Senza accadere davvero nel campo della nostra percezione, la morte ci impone la consapevolezza della fine e disegna i confini entro cui agire.
Un quieto domandare sul vivere – e dunque sul morire – sembra in tal senso chiedere di abitare un paradosso senza aggirarlo, senza negare l’oggettività di quel mistero che, pur fuggendo ogni definizione o inquadramento, sostanzia il nostro essere nel mondo. E attraverso la poesia, accedendo a quel luogo primordiale in cui il sentire e il capire sono ancora uniti in simbiosi (Zambrano, 2019), risulta forse più agile trovare la via per avvicinare un simile mistero.
Perché noi siamo buccia solamente, siamo foglia.
La morte grande, che ciascuno porta in sé,
è il frutto attorno al quale tutto in cerchio si dispone.
R. M. Rilke
Lisciani Petrini (2009) cita i versi di Rilke (2012) per sottolineare la centralità della morte, definita dal poeta come il frutto più prezioso di quella pianta che ogni essere umano incarna. Nascere significa ricevere un duplice dono: la vita e, insieme, la morte di quella stessa vita. Di conseguenza, stare nel mondo impone di adottare uno sguardo sconfinato e pazientemente educato ad abbracciare due dimensioni che, lungi dall’essere in antitesi, non trovano respiro se non insieme. Da qui deriva la responsabilità di una presenza disarmata e consapevole. Qui ha origine la difficoltà di confrontarsi con un’entità – la morte – riconducibile a una sfera tanto personale quanto aliena, che sovverte la logica e il comune sentire affermandosi come conditio sine qua non per la vita stessa.
Come accogliere questa contraddizione, come reggerne il peso? È possibile trovare conforto in rigide separazioni, fuggire la minaccia della morte svuotando la vita della sua ambivalenza?
La morte, come la nascita, è un’esperienza universale. Eppure…
Grof (2017), ricercatore e psichiatra tra i fondatori della psicologia transpersonale, afferma che la società civilizzata occidentale ha a lungo mostrato un grave disinteresse riguardo al processo del morire e ne individua la causa in una massiccia tendenza alla negazione e alla repressione psicologica. Nel corso del tempo, sembra essersi diffuso “un crescente orrore per la morte e dunque una tenace fuga anestetizzante davanti a essa e al malato morente” (Lisciani Petrini, 2009, p. XII), che ha portato a gettare nella dimenticanza i tradizionali riti e simboli funerari e a sostituirli con pratiche sempre più medicalizzate e impersonali. In una cultura come la nostra, in cui la storia dell’universo si configura come storia dello sviluppo della materia e la realtà viene definita principalmente sulla base delle sue dimensioni tangibili e misurabili, l’antico legame con profonde sorgenti spirituali risulta inaridito. E se la coscienza, come suggerisce Grof (2017) riferendosi alla prospettiva delle neuroscienze, viene considerata un mero prodotto del processo fisiologico del cervello, allora qualsiasi attività cosciente non può fare altro che cessare con la morte del cervello stesso. Così privata della spiritualità, la vita si smarrisce e, quando giunge al termine, si spegne con il corpo. L’esito appare definitivo: la morte, attesa e temuta come la fine irrevocabile di ogni cosa, è stata confinata in un angolo buio e il discorso sul morire imbavagliato. La morte è diventata un tabù (Kübler-Ross, 2020).
Esistono tuttavia luoghi, del mondo e dell’anima, dove morire non è fine ma passaggio.
Uno sguardo più ampio, che riconosce nella morte l’opportunità di un varco attraverso cui transitare, appartiene tradizionalmente alle culture dominate dalle grandi filosofie orientali. Lì, dove la spiritualità non si eleva dal quotidiano, è comune credere nella sopravvivenza della coscienza dopo la morte, nei regni ancestrali e nel viaggio postumo dell’anima per mezzo della reincarnazione (Grof, 2017). In particolare, la reincarnazione non implica soltanto il prolungarsi di un’esistenza incorporea oltre la fine biologica, ma sostiene fermamente il successivo ritorno, dentro un nuovo corpo e di nuovo nel mondo. Questa credenza è vincolata alla legge del karma, secondo cui la qualità delle incarnazioni individuali sarebbe influenzata dai meriti e dai demeriti accumulati nel corso delle vite precedenti. E, cosa che ancor più stride con le pretese occidentali di un’esistenza dilatata sino al limite intrinseco alla sua natura, in queste culture l’individuo vive per cessare di esistere. In tal senso, il susseguirsi di vite terrene, il samsara, altro non è che un grande teatro dell’illusione e il processo morte-rinascita rappresenta un continuo ostacolo al nirvana e al moksa, ovvero all’estinzione e alla liberazione. Si vive e si muore nella ciclica ripetizione di atti volti alla purificazione fino a quando, create le condizioni che permettano di abbandonare questo mondo, non si passa oltre – finalmente – senza fare ritorno (Filippi, 2010). Come afferma Tucci (1988, pp. 4) nell’introduzione al Libro Tibetano Dei Morti: “continuare a esistere in una qualunque forma di esistenza è dolore … La pace è nel dissolversi inconsapevole in quella luce incolore da cui tutte le cose traggono nascimento e che, senza che ne siamo consapevoli, brilla in noi stessi”.
A prescindere dallo sguardo che scegliamo di adottare, per rispondere agli interrogativi sulla morte è necessario considerare che una parte insostituibile della nostra esperienza interiore, e della sofferenza che ognuno è chiamato ad affrontare, scaturisce dal confronto con i “dati di fatto” dell’esistenza e, dunque, con la sua fine (Yalom, 2018). Sembra infatti che non sia necessario giungere allo scadere del tempo per imbattersi nel sentimento di terrore e di luttuosa perdita che accompagna la morte.
Illustrando la prospettiva della psicologia umanistica esistenziale, De Marchi (2017) definisce l’angoscia di morte come l’emozione predominante dell’essere umano e il terreno in cui si radicano vari disturbi mentali o condizioni di disagio.
In modo simile, lo psichiatra statunitense Yalom (2020) descrive la mortalità come l’orizzonte di tutte le discussioni riguardo a particolari vissuti, a piccoli e grandi cambiamenti o a quelle esperienze di confine che talvolta hanno il potere di scuoterci dalla nostra quotidianità, di risvegliarci e di inchiodarci con urgenza al significato più profondo dell’essere. Sulla base delle osservazioni cliniche svolte durante i lunghi anni di lavoro con i pazienti, l’autore sostiene che l’angoscia di morte sia una costante, che invade in misura diversa il nostro sentire a seconda del momento di crescita, senza tuttavia abbandonarci. E vivere, nell’incessante consapevolezza di dover morire, risulta arduo come rivolgere lo sguardo direttamente al sole. Dunque tendiamo a gravarci di questo peso per poco, sopportiamo, paralizzati dalla paura, il tempo indispensabile per seppellire l’angoscia negli abissi della mente e del corpo. Tuttavia, occultare l’angoscia di morte non significa evitarne l’impatto: questa rimane sopita, per poi rovesciarsi all’esterno attraverso sintomi, preoccupazioni e conflitti. Pertanto, se non ci è possibile guardare altrove, forse vale la pena di fissare il sole. Forse, facendolo, ci accorgeremmo che il sole non brucia o che bruciarsi è l’unica via per “riprendere a vivere in una maniera più ricca e più caritatevole” (Yalom, 2020, pp.18). Tutto ciò sembra suggerire che non sia una questione di scelta, che non vi sia salvezza. La morte, celata e disconosciuta, sbiadisce l’opportunità di una vita piena. Ma anche chi fosse disposto ad accontentarsi non potrebbe evitare di presenziare ripetutamente al proprio funerale e di rivolgere l’estremo saluto a tutte le parti di sé che, crescendo, occorre lasciare andare. Crescere è morire, ancora e ancora.
Viorst (2019) offre una prospettiva evolutiva dei distacchi endogeni e delle perdite esterne con cui ogni individuo è chiamato a misurarsi nelle diverse fasi di sviluppo, affermando che queste esperienze siano del tutto assimilabili a piccole morti. Con una perdita veniamo alla luce e dobbiamo perdere molto per sciogliere l’unione simbiotica con nostra madre e definirci come un Sé separato. Esplorando il mondo, davanti ai limiti imposti da ciò che è impossibile o proibito siamo costretti a rinunciare alla nostra onnipotenza. Sporgendoci verso l’altro, i nostri sogni di un amore ideale si infrangono e siamo obbligati a riconoscere che le relazioni umane si nutrono di legami imperfetti. Entrando nella seconda parte della vita le perdite si fanno molteplici, imponendoci di abbandonare metaforicamente chi siamo stati e di lasciare andare concretamente i nostri cari. Alla fine, le piccole morti che ci hanno permesso di esistere incontrano la grande morte. E il cerchio si chiude.
La morte si intreccia con la vita. Cercare di dipanare questo intreccio conduce oltre la soglia del conosciuto, in un luogo colmo di chiaroscuri e di domande sospese. Qui potremmo sentirci smarriti. E in questo smarrimento, se riconosciamo la perdita come una condizione connaturata all’esistenza, è nostro dovere renderci disponibili a una riconfigurazione interiore e restituire alla morte lo spazio che nella vita – e nel nostro intimo – le appartiene.
Bibliografia
De Marchi, L. (2017). La psicologia umanistica esistenziale: una nuova teoria della cultura e della nevrosi, un nuovo approccio psicoterapeutico. In Lo Iacono, A. (Ed.), Psicoterapia umanistica. L’anima del corpo. (pp. 37-54). Milano: Franco Angeli.
Filippi, G. G. (2010). Il mistero della morte nell’India tradizionale. Vicenza: Itinera Progetti.
Grof, S. (2017). L’ultimo viaggio. La coscienza nel mistero della morte. Dalle antiche pratiche sciamaniche alle nuove cartografie della psiche. Milano: Feltrinelli.
Kübler-Ross, E. (2020). La morte e il morire. Assisi: Cittadella.
Lisciani Petrini, E. (2009). Introduzione. In Jankélévitch, V., La morte (pp. IX-XXIX). Torino: Einaudi.
Rilke, R. M. (2012). Il libro d’ore. Bergamo: Servitium.
Tucci, G. (1988). Il libro tibetano dei morti. Milano: Tea.
Viorst, J. (2019). Distacchi. Milano: Sperling & Kupfer.
Yalom, I. D. (2018). Il dono della terapia. Vicenza: BEAT.
Yalom, I. D. (2020). Fissando il sole. Vicenza: BEAT.
Zambrano, M. (2019), I beati. Milano: Se.
Nota Biografica
Agnese Ranieri è psicologa e psicoterapeuta ad orientamento umanistico-bioenergetico.
Ha preso parte ad attività di volontariato nel settore della disabilità e dell’infanzia, in Italia e all’estero. Ha un’esperienza professionale pluriennale nell’ambito dei servizi educativi e nel trattamento di problematiche individuali, di coppia e familiari. È specializzata in tecniche creative e corporee, in pratiche meditative e si dedica allo studio e all’approfondimento della filosofia orientale e delle discipline inerenti alla sfera del fine vita.