Il racconto autobiografico del viaggio di un essere umano aiutato dalla Parola poetica nei momenti cruciali della vita. Patrizia Gioia mostra come non solo la poesia cambi la vita, ma anche come la vita cambi la poesia. Rischio, consapevolezza, trasformazione, tre passi fondamentali che la poesia illumina con le parole dei molti attraversatori delle terre desolate, il cammino verso se stessi.
Nessuno sa interamente ciò che gli è stato concesso di scrivere, scrive Borges, e parto da queste parole per ri-percorrere il mio cammino poetico, o meglio poietico, cioè quella facoltà creativa, soprattutto artistica, dell’essere umano e il suo realizzarsi. In questo caso la mia personale storia, il come si è realizzata e perché in quel particolare momento, riportando al cuore l’aiuto ricevuto e di che natura è stato quell’aiuto.
Una prima riflessione su quella affermazione che di solito, superficialmente e ottimisticamente, si sente dire: la “Poesia cambia la Vita”; è, a parer mio, naturalmente possibile il capovolgimento: è “la Vita che cambia la Poesia”, perché sono gli accidenti – buoni e cattivi – che la Vita ci porta che toccano la possibile nostra parola poetica, vivificandola o uccidendola.
Per la Vita, come per la Poesia (inseparabile la Via) non ci sono vie mediane, entrambe esigono spietatezza.
E ora entriamo nella mia storia poetica... e torno indietro, tanti e tanti anni fa.
Ricordo di avere avuto da parte paterna dei parenti alquanto “strani”, questo era il termine che sentivo usare in famiglia, anche riguardo al mio papà, la cui storia conteneva in nuce, e senza dubbio, anche il mio destino.
“Strani” perché non aderenti a quello che si vuole fare divenire norma (come se la norma ci garantisse certezze) e dunque, fortunatamente, un pochino eccentrici, anche nei nomi.
La nonna paterna si chiamava Isolina, lavorava il feltro e faceva pantofole colorate, parlava pochissimo, andava tutte le mattine alle sei alla messa nella chiesa sotto casa – la chiesa degli Angeli – e ogni mattina accomodava i lunghi capelli in una retina sottile e scura, in un movimento molto femminile che guardavo ogni volta eccitata e furtiva, fingendo di dormire, avvolte entrambe nella penombra che ancora regnava nella casa; percepivo in quel movimento così femminile delle mani della nonna tra i capelli, anche l’incapacità o l’impossibilità di vivere veramente quella femminilità, svelata dalla prigionia inferta dalla retina a quei bei capelli che mai furono sciolti e donati alle mani della luce del giorno, e forse anche mai a quelle di suo marito.
La nonna viveva un senso religioso quasi mistico ma, come i suoi bei capelli, ancora troppo costretto in dogmi e dottrine mortificanti l’essere e la vita.
Molto più viva e divertente era invece la sorella della nonna, la zia Veglia: si andava al mare insieme, a Fiumetto, tra Forte dei Marmi e Pietrasanta, luogo che amavo molto, dove si stava bene insieme a zii e cugini; ricordo gli improvvisi temporali estivi, il rosso della sera che si disfaceva nel mare e un grosso rospo che viveva nel piccolo giardino dove gigli bianchi e pitosfori strabuzzavano i loro grandi occhi.
La zia Veglia, come la Dickinson, vestiva sempre di bianco, e non mancava mai di indossare bianche calze corte di cotone.
Questa eccentricità (che non ricordavo affatto) mi è stata svelata ultimamente da una mia cugina notando la mia preferenza a vestire di bianco, è senza dubbio un’ulteriore tessera da tener presente per comporre il mosaico dei molti stupefacenti perché della nostra vita.
“Il naturale è soltanto il soprannaturale”, scrive infatti la Dickinson, i significati ci arrivano sotto forma di enigma, la realtà è soprattutto simbolica e il vero artista è colui che sa trasformare una soluzione in un nuovo enigma.
Come la nonna (e come me) la zia Veglia aveva folti e ricci capelli scuri, come gli occhi.
Anche mio padre era strano, faceva un sacco di scherzi, e a me soprattutto quelli che sapeva mi spaventavano. Erano così giovani i miei genitori quando gli sono capitata tra capo e collo che non avevano avuto il tempo, né di comprendere quello che provavano l’uno per l’altra, né tanto meno di desiderare una figlia; facevano quel che potevano, alternando sprazzi di non necessaria durezza ad altri di allegra incoscienza, più che spaventati della responsabilità del compito, erano incapaci di condividerne la bellezza trasformando un incidente di percorso in un’occasione di conoscenza.
Si viveva a Monza, una bella città di provincia ed io ero diligente, mi piaceva la vita di ringhiera, chiacchieravo con tutte le persone, ero simpatica e anche un po’ prepotente, potrei dire una rivoluzionaria ubbidiente.
È di questo che parla il mio libro di Poesia: Tita, su una gamba sola, perché è proprio dalla prepotente e improvvisa irruzione della morte delle persone che più amavo, e dal diluvio universale che annegò fulmineo tutta quella vita, che è iniziata la mia poiesis, caratterizzata dapprima da una profonda, buia, silenziosa solitudine – tutto il mio mondo era scomparso, il papà, la nonna Isolina, la casa, la scuola, i giochi, gli amici, la città, la mamma persa nelle sue paure – e poi in un nuovo incontro con un maschile che si rivelerà, poco dopo, l’orco della nuova casa.
Tutto era scomparso, eppure tutto ancora viveva in me, proprio come dentro le acque tutto si muoveva nella mia pancia e nel mio cuore. Immaginate mobili e volti amici e libri che galleggiano nella profondità dei tuoi occhi. Come fare? Cosa fare?
ho così paura la domenica
Tappa questa infinita emorragia con il tuo dito divino
usa delicatezza e cotone emostatico e rosmarino
ho così paura la domenica
d’estate soprattutto
quando il calore che trovavo nel tuo corpo è diventato polvere
come il tuo sguardo steso nel letto invaso da fiori rossi
colpito a morte dipingevi livido il mio giorno
Padre mio strozzato all’alba dalla grande fede
dal tuo sguardo d’autostrada senza nebbia
dalla tua bellissima bocca che ha chiesto:
l’inferno esiste davvero?
Ho così paura la domenica
nessuno diede risposta
a quella tua domanda
io sola
qui sulla terra
da allora cerco
L’arrivo di quell’orco trasformò nuovamente la mia vita e la mia poesia, al dolore di tante perdite si aggiunse l’inconcepibile dolore dell’essere abbandonata e tradita da chi avrebbe dovuto invece amarmi e accudirmi; la luce che ancora avevo in me fu spenta dall’irrompere della volgarità e della violenza, un’ignoranza cupa e persistente, una totale mancanza d’empatia e d’amore che scese come velario sulla mia Anima, rendendola incapace di esistere per molto tempo.
La lunga notte buia dell’Anima. Sì, si vive anche da vivi, la morte.
Ma in quel tempo “morto” si può resistere ritrovando gli antenati e, attaccandosi al loro ricordo, come all’ancora di un corrimano (Wisława Szymborska), si può ritrovare la fiducia, imparando a spostare lo sguardo da fuori a dentro di noi e, togliendo una ad una tutte le pietre che per incapacità abbiamo lasciato accumulare dai grandi che non sanno quello che fanno, riscoprire l’amore, la sola Arte che serve per iniziare ogni volta la nostra nuova vita.
quante cose credute perdute
e lasciate per anni meteoriti nell’universo
stelle senza più alcuna luce
per incapacità di allora
per paura della vera conoscenza
improvvisamente
con volontà di nuovo astronauta
intravvista la lontana luce dispersa
fu fede e coraggio
dentro strette impossibili pareti di dura roccia
allargata in immensi deserti di sabbia e arbusti
sommersa da abissi d'acqua
la piccola astronave scomparve all'umano
per andare incontro al diverso
e spazio e tempo cessarono
orizzonti eterni e illimitati
crebbero come merletti
intorno alla mia anima in attesa
e la resero possibile all'incontro
Buio Luce Dolore Gioia
nello stesso gioco misterioso
del loro mistero accettarono la forza
e nell’impossibilità umana di dire l’indicibile
fecero di me l’umano in divenire
come un menhir
mi sto ergendo alla lenta comparsa di me stessa
e grande stupore
essere pietra e anima
insieme eterne
e il bene e il male
delusi dall’umanità
diedero ragione ad altra forza
Forza sconosciuta a questo vecchio uomo
che orgoglioso com’è della sua ignorante vita
chiama scoperta sua
forza divina invece è ancora sulla terra
e invoca un nome nuova santità e diversa guerra
Uomo
ancora in divenire è il tuo cammino
all’inesplorato abisso di sconosciute dimensioni
poni sull’ara un’anima sconfitta
Ma dentro
il tuo divino eterno non è mai morto
è solo in te la nuova santità
niente modelli e eroi
Creare è il tuo lavoro
creare nel mistero senza saperne il fine
ma crederci – ecco la Fede
la sola spada che potrai usare
Anni di solitudine e di un’irrequietezza che non sapeva trovare nome, portata al continuo fare e creare e distruggere, sino a trovare la forza e il coraggio di ritornare, non a dare, ma ad essere fiducia alla Vita, e ritornare a fidarsi e chiedere aiuto per ritornare ad Itaca, nella terra interiore, dove potersi fermare e stare dentro a quei dolori inaudibili e finalmente ascoltarli e finalmente poterne sostenere il peso.
Il ricordo
vale più della realtà?
Il pensiero
più della fantasia?
Quando mi assale il dubbio
mi rifugio in una spaventata vigliaccheria
una pigrizia inquieta.
Certo varrebbe la pena di rischiare
e ci provo anche a volte
ma più forte appare il dubbio
e non ricordo più e non penso più
ho imparato così bene a scomparire a me stessa
che a volte spero sia un tu
misteriosamente a trovarmi
era che l’amore adesso
mi faceva paura
ti guardavo senza vederti
tu mi chiedevi
perché mi butti via?
E io lottavo per non amarti
l’avevo sempre ingannato
Io l’amore lo prendevo lo allontanavo
per soffrire un po’meno di quello che soffrivo
non contiamo gli errori
o i disavanzi
facciamo vivi
anche i tempi morti
contiamo i giorni da vivere
senza resti né scarti
contiamo tutto sulle nostre dieci dita di bene
E a poco a poco ecco arrivare gli incontri visibili e invisibili, i mortali e gli immortali amici, “ mai a caso” capitati sulla via che ora potevo percorrere, trovando via via la capacità di trasformare la polarità distruttiva in creativa, il solo modo di ridare nuova vita all’adulto, inseparabile da quel bambino interiore che in noi vive e che va liberato e che conferma quel che scrisse Wordsworth: “il bambino è il Padre dell’uomo”.
mi hanno punito
ora taccio
mi addormento piangendo
sereno mi desto
mi hanno punito
mi dicono piccolo
non voglio più piangere
mi addormento ridendo
i grandi, zio nonno
muoiono
ma io, io resto
per sempre qui.
(Hermann Hesse)
Cercavo alleati, una voce che mi riconoscesse, la vita familiare era una continua sedia elettrica, un silenzioso violento mutismo d’incapacità, mi guardavo intorno e cercavo, cercavo. Una delle mie prime poesie fu pubblicata in un’antologia di giovani poeti, rileggendola oggi è commovente, disarmante, tanto fa chiaro in quel buio:
lo stagno si ribella alla sua lenta morte
vorrebbe essere mare
di notte lacrime di rugiada
lo sfiorano appena
e il canto delle rane
lo fa sentire ancora più vecchio
Vorrebbe essere mare
e non conosce ancora l’acqua di sorgente
La mia iniziazione fu un rischio e una sfida alla Vita: rubai deliberatamente in una grande libreria nel centro di Milano due libri, uno di Poesia (Prevert) e uno di Psicologia (Freud).
Dovevo misurarmi, quello che sentivo, la necessità d’essere misura, passava da qui; non avevo più alcuno sguardo amorevole su di me e necessitavo disperatamente di uno sguardo che fosse misura, che qualcuno si accorgesse che io esistevo, così sfidai lo sguardo della legge, ma non pensai d’essergli sfuggita (visto che nessuno vide il mio furto), pensai invece che ero stata completamente assolta, le colpe non erano mie.
Oh quanto sono stata sola
debitrice di un vuoto che non mi apparteneva
Ora arrivava il cammino più difficile, quello del perdono.
L’iniziazione era avvenuta, i primi due amici invisibili che mi avevano protetta nel furto mi invitavano anche a non ripetere, fu così che Prevert e Freud entrarono nella mia poiesis, facendomi fare esperienza, come più tardi lessi scritto da Pasolini che :
La mia indipendenza, che è la mia forza,
implica la solitudine, che è la mia debolezza.
(Pier Paolo Pasolini)
Sono stati soprattutto gli amici invisibili ad accompagnare i miei passi di allora, non era facile addomesticarmi all’amore, avevo così paura di essere nuovamente tradita che uccidevo subito ogni batticuore umano, sopravvivevo succhiando i battiti dell’invisibile, mi rendevo lucidamente conto d’essere diventata un vampiro che succhiava linfa dai morti.
Mi ero perfino innamorata di James Dean, morto poco dopo la mia nascita, e dunque il mio era un rivisitare tombe, sistemarmici accanto e parlare loro senza timore d’essere ferita.
Scrivevo poesie dove la putrefazione usciva da ogni poro, un mio simpatico amico lo chiamò “periodo ossianico”: ossa, polvere, topi, stagni e cimiteri erano i miei luoghi privilegiati, leggevo Edgar Allan Poe e François Villon, insomma ero nella più completa e necessaria nigredo :
vili spergiuri, privi di fede;
che rubi, arraffi, compia rapine:
dove va il frutto, non lo si vede?
Tutto alle bettole e alle sgualdrine.
Naturalmente allora non ero consapevole di questo necessario passaggio alchemico, del resto il cammino verso il sé necessita continuamente di uno sguardo girato all’indietro, ma necessita anche di una fiduciosa fiducia nel rischio del mistero e io davo completa fiducia a quella vigorosa fonte istintiva che sentivo in me e che lasciavo fluire liberamente, una sorgente viva che mi ha portata compiere cose, per i più folli, ma che si compiono proprio per non diventare folli.
Invece dei ninnoli che le ragazze allora indossavano, mi legavo al collo una corda con un bullone comprato dal ferramenta, a mo’ di smeraldo; invece degli abitini leziosi, jeans e maglietta di cotone bianco, come i ribelli americani; sull’autobus, visto il lungo percorso che dovevo compiere, mi portavo salsiccia e yogurt e, stupefacendo i miei vicini, mangiavo tirando fuori forchetta e cucchiaino come se fossi seduta da Burghy; per strada mi immaginavo seguita da malviventi, assassini e ricettatori, camminavo guardinga lungo i muri, attenta a non farmi catturare da quei delinquenti. Insomma, mi stavo facendo istintivamente e da sola una fantastica drammaterapia o, come lo chiamavo io, il mio metodo Stanislavskij per imparare l’arte della Vita, come se fossi seduta all’Actor Studio cercando di mettere pace tra James Dean e Marlon Brando, che se le davano di santa ragione!
Si sa che siamo noi l’interprete, il regista, lo sceneggiatore e anche la donna delle pulizie dei nostri sogni e della nostra vita.
Come ti chiami? “Legioni”, rispondeva l’indemoniato di Gerasa. Il pluralismo che c’è dentro di noi non mi lasciava mai in pace, ma contemporaneamente mi salvava dalla mortificante sterilità della dialettica. Così quando, molto più tempo più in là, dopo il benefico cibo di Hermann Hesse e Carl Gustav Jung, incontrai il pensiero di Raimon Panikkar, fu solo conferma di quel che da tempo nella mia vita avevo sperimentato.
Abbasso il principio di non contraddizione! E “questo” E “quello” sono parte di me, quel che conta non è l’unità ma l’armonia; e si sa che il Maestro risveglia in noi quello che siamo e che spesso abbiamo dimenticato.
tutti coloro che perdiamo qualcosa ci tolgono
resta ancora uno spicchio sottile
che, come luna, qualche torbida notte
obbedirà al richiamo delle maree.
(Emily Dickinson)
Il mondo del trauma è un fantastico mondo immaginario, una torre dove ci rinchiudiamo, dapprima per difenderci, ma il rischio è che diventi prigione e che nessuna treccia salvi più nessuno; da lassù non solo i principi azzurri appaiono ranocchi, intoccabili e intrasformabili, ma la vita stessa appare senza significato.
Ma non è che la nostra proiezione,
prigionieri nelle quattro mura di carne di noi stessi.
Ero così terrorizzata dal maschile orco che mi teneva segregata nelle mura di casa, che non vedevo gli sguardi amorevoli dei ragazzi, il loro avvicinarsi dolce fatto di una tenerezza giovane e irruente, così come evitavo l’amicizia vera tra amiche, il mio segreto famigliare era un peso insostenibile che mi faceva sentire brutta e sporca, chi mi avrebbe voluta se fosse venuto a sapere di quel segreto?
Eppure ero simpatica a tutti e tutti mi volevano bene e mi cercavano.
Ancora oggi spesso scatta, come un burattino a molla dalla scatola di latta, la domanda di allora:
“ma come fanno a volermi bene?”
Come se io fossi un essere impossibile e il bene una merce di scambio e, nelle condizioni in cui mi sentivo, in me non c’era nulla che valeva per quello scambio.
io che ti vedo
tu che sorridi
io non capisco
tu mi rincorri
io ti guardo
chi sei?
la tua mano
la bocca
che faccio?
ti dico
ciao
come a un passero
il non saper dare
che cosa tremenda è stata
mangiavo le pedine
per rimanere sola
sola senza capire
che si poteva giocare
ed arrivare ad essere
anche senza ammazzare
sorrido al miracolo
oggi mi vuoi
io non rivoglio il passato
I diari di allora parlavano di odio per il mondo intero, un’ingenua inconscia copertura per un infinito bisogno di amore negato, ma ci sono pagine dove arriva inaspettata e intatta la voce poetica dell’anima di una ragazzina, fatta da un’infinita tenerezza, ricca di necessari bisogni, sogni, aspirazioni, che non sa a chi dire, tanto il tradimento patito, ma che vorrebbe provare a dire, una voce che pulsa irruente e coraggiosa e che vuole ora iniziare a parlare anche con i vivi.
La nigredo si apre all’albedo, una flebile luce si intravede in fondo al tunnel, il piccolo fiore è sopravvissuto al diluvio e alza il capo riccioluto.
Finita la scuola è il lavoro che diventa poiesis; è arrivata la possibilità di scendere dalla torre ed entrare nel rischio della Vita.
Una domanda fa capolino: “il sopravvissuto parla la stessa lingua del vivo”?
Scrivo il piccolo libro “Finalmente riccia”.
Tu trovi
battendo le mani
un solo gioco che mi faccia ancora divertire?
tanta gente insieme
mette paura coi loro tacchi a spillo
di vernice nera
sopra i miei piedi nudi in tutta questa sera
nell’incrocio della vita
la mia vita
avrà un’altra vita?
“turritopsis nutricola” è un nuovo insieme di poesie che raccoglie il non detto, il non fatto.
il sessantotto
dov’ero io
quando tu ruggivi davanti al conosciuto?
Dov’ero io
forse nella pancia della balena?
Ma se non c'era più ormai neanche Pinocchio!
Dov’ero io
quando tu rubavi all’amore
i denti per la rivoluzione?
Quando rubavi all’amore
lo stomaco per vomitarci addosso
nuove e insolite parole?
Era l’azzurro
nuovo
e il rosso disperato.
Erano altre mani altre menti
altri peli di incolte barbe di studenti.
Erano nuovi sapori
quelli che tu già conoscevi
ce li dosavi però troppo tutti insieme.
Noi eravamo stupidi
analfabeti
e per di più astemi.
A chi ho amato
non ho mai chiesto permesso
Aquila senza pensiero
mi buttavo dentro a capofitto
A chi ho amato
ho rifatto il letto per sentire odori
che non trovavo dentro il cuore
A chi ho amato
ho dato
il mio corpo tutto
le mie parole tutte
Riempivo vuoti tutti
e mi piaceva sbancare sempre io e non il banco
A chi ho amato
ho dato tradimenti
memorie storte
parti di me avariate
indizi falsi parole ricopiate
denti rifatti mutande bianche
per fantasie erotiche
tutte da banco di mercato
A chi ho amato
ho tolto
ho rubato sui loro comodini
libri pensieri sguardi
anche lacrime di loro occhi veri
A chi ho amato
non ho mai detto grazie
o meglio l'ho detto ma non era vero
Buttati giù dal letto
chiusa la porta
chiudevo anche tutti i miei pensieri
E ora sola-sazia-sfatta-vecchia
finalmente sento
sento che il mio cuore è stato poco
molto più grande il letto del non detto
autoritratto
Vecchia e bambina / amante di Peggy e di Modì
debole contorsionista in corpi poco celebri /il cervello è ormai così lontano
illusionista-maga-strega di abissi e di memorie
Bevo vino frizzante e melatonina / discuto violenta solo con me stessa
incessantemente / mai contenta
incapace di fermarmi e deformarmi / come un ramo dentro le stagioni
magari solo di tradirmi
Fumo sigarette spente nei momenti di bisogno
quando il desiderio o la mania / di poter stringere al cuore un sasso un osso
magari un braccio lasciato li – ma non a caso – son diventati vizi
Bevo zuppe calde la sera
possa così il mio corpo mozzare quel desiderio ininterrotto
quella specie di sconvolgente sete di calore
Fatta per la fine del secolo / dedita alle verdure / a Hesse / a Jung e alla magia
Pronta per altari e letti / lasciata dentro un lagher e li dimenticata all'armistizio
Sono un cartoon anni 50 / sputnik / cammella / filo di ragno e stoffa damascata
Sono quieta / odoro di limone e menta
Mi sciolgo come tacchino di Natale e colo come miele millefiori
dentro tutti questi stomaci da cineforum
Sono una contraerea e un carrarmato / uccello di bosco e stanco cormorano da marea
Fragola / poco matura ancora / eppure già colta con l'inganno
Questa mia bianca casa
che dovrò lasciare / sia sguardo e voce / per chi mi ha amata
Non distruggete altari / e anche se sconosciute le parole / comprendeteli nel vostro cuore
io sarò candela / cornice e vetro / pentola da frittata e cielo
“Il sopravvissuto parla la stessa lingua del vivo?”
No, il sopravvissuto non parla la stessa lingua del vivo, sono livelli di vita differenti, come quelli che hanno attraversato il deserto e quelli che ne hanno una percezione più astratta.
Il linguaggio di “chi non è calato a picco nel mare gelido senza equipaggiamento, si nutre di eufemismi, frasi fatte, modi di dire consunti dall’uso e dall’abuso”, scrive Pierluigi Battista a proposito del libro di Julian Barnes Livelli di vita.
Chi è sopravvissuto si nutre di un altro tipo di Speranza, che non è un alibi e non ha nulla a che vedere con lo sterile ottimismo di chi è ancora illeso, è una Speranza lucida che osa accettare il Mistero, perché ha percepito l’impossibilità di sfidarlo e di comprenderlo.
Oltre il buio c’è un altro buio che contiene l’inizio di un’indicibile luce.
vivo
orizzontalmente
ma ho un lungo chiodo
trafitto
tra piedi e testa
per una verticalità
sempre in protesta
e si inizia a scegliere
tra ripetere o fare nuovo
anche l’Amore
per sentire in modo diverso
la mancanza
come un pipistrello appeso al cielo
non arrendersi
al dolore
numerare gli anni
da capo
rendendo incandescente
il buco del cuore
Sono sempre tornata a vivere, non a sopravvivere, pur se la Vita mi ha ogni volta tolto quello che aspiravo a vivere.
La morte del compagno tanto amato, il successivo tradimento e l’abbandono del nuovo ardimento del cuore; la Vita non è mai sazia se sa che tu ce la puoi fare, ti offre sempre di attraversare un’altra solitudine, quella di un’innocenza sempre nuova, che sa che è più importante l’albero della Vita che quello della Conoscenza.
Conducimi oh Dio!
nella terra promessa
dove possa attingere alla tua acqua
dove possa abbeverare le mie bestie
dove possa ancora altri figli partorire
Non ho altro luogo dove andare
non conosco altre pareti altri giardini
altre bocche da baciare
Non ho meta non ho mani
nessun ricordo chiede ancora vita
nessun volto ancora chiede di vedere
Conducimi adagio
e per le stanche spalle reggi tutta me
che possa più dentro udire la voce
che chiama a risorgere
Adagio
nel punto più fondo e doloroso
che io possa infine sentire
tutto il dolore che ancora
insieme alla gioia rimane
Parole di passaggio (un nuovo libro)
sono le parole di un io che si è trovato sull’estrema frontiera dell’individualità dove ha rischiato di essere cancellato come un’orma sulla sabbia e di diventare nessuno. Eppure ha resistito minimo quasi anonimo con le sue passioni e i suoi valori.
Le parole di questo passaggio sono state unguento sulla ferita riaperta dal tremendo dolore.
Sono uscite da me come sangue al taglio verticale delle vene, dandomi la consapevolezza
che il coagularsi mi avrebbe resa per sempre inferma.
Perché il ricordo paralizza dopo che qualcuno ci depreda di un sorriso duramente conquistato e sorridere potrebbe diventare solo esibizione di forza.
Ma oggi accolgo la mia debolezza come la terra accoglie la foglia in autunno, con Amore.
Perché da qualche parte l’amore esiste e mi sta chiamando.
Come ad Auschwitz Dio dovrebbe incidere l’Amore sulla pelle e iniettarlo nelle vene puro come eroina, perché ne sia facile la memoria ed eterna la sua dipendenza.
Io ancora resisto confusa dai tanti sosia e dai troppi tradimenti.
Eppure sento che voglio diventarne schiava fino a morirne.
Pregavo?
Non sapevo di pregare
ascoltavo il silenzio
volevo essere preda
Ma senza il volere
fui sorpresa
delle tue braccia
Il sepolcro è pieno del suo Mistero.
Nuova innocenza
Abbandonati
tutti i tentati e propiziatori riti
Rattrappite le infantili ali
dall’incanto soffocato
della prima innocenza persa
Come statua
di tutti i miei passati fatta
di terra divenuta consapevole
dei comandamenti dei padri
delle ubbidienze di tutti i figli
della responsabilità di nuova nascita
e nuova innocenza
Insieme al mondo
ma nuovamente sola
incerta
compagna solo
di un’intuizione appena nata
È me
che nuovo creatore concorde in dio
l’esperienza dell’anima ancora chiama.
Nota dell’autrice
Questo scritto autobiografico ha cercato di ripercorrere alcune delle tappe salienti e trasformative della mia vita. Lo scrivere è stato per me salvifico e, andando a ritroso, ho potuto vedere il senso ed il perché quelle fonti mi hanno abbeverato. Ecco una nota cronologica dei libri (perlopiù autoprodotti nei libriccini "Semi della Gioia", tranni gli ultimi): Poesie sparse, dal 1968 a 1983; Inutile fare trasloco, 1984; Copia dal vero, 1986; Danzando con Shiva, 1989; Autoritratti, 1992; Finalmente riccia, 1995; Turritopsis nutricola, 1998; Cercavo il papà ho trovato il dadà, 1999; Il Bene Il Male, 2000; Parole di passaggio, 2003; Si vive, 2005; Qui a Milano tempi di gelo, 2007; Tita, su una gamba sola, 2012 (Edizioni Mille Gru); Il rovescio di Maria, 2014 (Edizioni Moretti e Vitali).
Patrizia Gioia, designer e poetessa, cofondatrice di Mille Gru (2006), è responsabile del settore arte e cultura di Fondazione Arbor, che ha avuto come primo presidente Raimon Panikkar. Opera per diffondere il dialogo inter/intra culturale e religioso, organizzando giornate di lavoro e incontro con studiosi di fama mondiale. Membro di ARPA ( Associazione per la Ricerca in Psicologia Analitica ) scrive libri di poesia e articoli per riviste e giornali web, rivitalizzando il pensiero mistico simbolico al crocevia tra oriente e occidente. Nel 2000 fonda SpazioStudio13 a Milano, luogo di incontro e confronto.
» La sua scheda personale.