Poetry Therapy Italia

017 massi

In questa intervista Valeria Rossi ci racconta delle sue canzoni preferite, delle sensazioni corporee che il canto produce e della scintilla creatrice

Questa intervista è avvenuta il 14 dicembre 2020 ed è nata dopo un bellissimo gesto da parte di Valeria Rossi che, venuta a conoscenza della nostra Scuola di Poesia, ha voluto donare una parte dei suoi libri di poesia, avviando di fatto la nostra biblioteca poetica ad uso degli utenti.

I più la conoscono come cantante pop nota per la canzone “Tre parole” ma non molti sanno che, già da quegli anni e sempre più, ha coltivato molti altri aspetti di sé diventando anche scrittrice, istruttrice di tecniche vocali e movimenti di Bioenergetica, e canalizzando la sua attenzione sul counseling a mediazione artistico-corporea. Per questa sua particolare cura del percorso interiore nella relazione con l’altro venne naturale intervistarla.
Mancava il contesto migliore per pubblicare questa intervista e abbiamo atteso entrambi il momento giusto, che è maturato in questo numero di Poetry Therapy Italia.  

Dome Bulfaro: Quali sono i migliori testi di canzone, quelli che più ami?

Valeria Rossi: Tutti i testi di Ivano Fossati. Impossibile non amarli perché lambiscono acque profonde, arrivano in luoghi in cui solitamente non si arriva, sono molto introspettivi. Infatti, in alcuni casi, sono testi “pesi” e richiedono un ascolto selettivo, nel senso che non puoi ascoltare Fossati in circostanze qualsiasi, a colazione o a mezzogiorno per esempio, perché i suoi testi sono più da crepuscolo o da malinconia, in quel caso però può rivelarsi essere curativo: proprio perché al di là delle coordinate temporali convenzionali, quando sei in una fase di TUO crepuscolo personale risuoni e il fatto di trovare una corrispondenza lenisce. Se ascoltato in una certa misura lenisce, non oltre il tempo utile a guarire però… (ride). Penso in particolare di Fossati a Vola – nell'interpretazione di Mia Martini – a Matto…
Per fortuna il cantautorato italiano mi ha, come dire, pasciuta, nutrita e confortata. Devo il mio lessico, e anche la mia ricerca successiva, alla canzone italiana degli anni Settanta e Ottanta.
Anche alla sovversività di Edoardo Bennato all'epoca dei “concept album”, ossia, progetti che ruotano attorno a un tema, nella fattispecie, una favola, come nel caso di “Burattino senza fili”, nell'allusione evidente a Pinocchio, in cui i personaggi della favola, Mangiafuoco, la Fata, il Gatto e la Volpe, ecc, ma soprattutto, i loro vizi, o le loro virtù, trasfondono nella realtà e li riconosciamo nelle persone con cui possiamo ritrovarci ad avere a che fare, una coppia di impresari o una cattiva compagnia.
Erano testi irraggiungibili, nel senso che, successivamente, ci sono stati pochissimi casi simili, erano testi articolati, complessi, ricchi e pieni di significato. Certo, ad ascoltarli adesso possono non risultare come canzoni "fresche", nel senso che i riferimenti attuali sono diversi, ma sono tuttavia sempre molto valide, anche addirittura nella ricerca sonora.

Eppoi erano parecchi, da Lauzi a Jannacci, da Fabrizio De Andrè a Francesco De Gregori, da Pino Daniele ad Antonello Venditti, persone che rappresentavano anche numericamente un fronte compatto, non erano una contingenza, erano veramente una frangia compatta.
Negli anni del dopoguerra, quando è iniziato il Festival di Sanremo, per dire, si era ancora sotto la compressione della sconfitta, c’erano pochi spazi per fiorire, eravamo ancora in una fase politica di ri-costruzione, si cercava di normalizzare, erano un'Italia 'media', contrita, con Sanremo che era molto condizionato dalla facciata.

Non tutti riescono a vivere a lungo di facciata però, il concetto di facciata è, per definizione, una coperta corta... poi da qualche parte l’anima scappa e se non la vai a cercare tu allora ti scova lei e, in questo caso, sono dolori; è meglio sia tu il cercatore, il cane da tartufo dell’anima piuttosto che il contrario, perché l’anima c’è sempre, dunque è importante che tu le dia corda, voce.
Ancora nel dopoguerra c’era la ricerca di un’identità politica legata alla canzone di contestazione e, infatti, si passa dagli “urlatori” come venivano chiamati, tipo Celentano, che importavano in Italia il rock statunitense, a una fase fortemente introspettiva anche nella forma.
Anche perché c’era la voglia di riprendersi un’identità e un’integrità dopo il rigore, la normativa e la penitenza della guerra e dell'immediato post-guerra e, dopo un'altra decade circa, con questi autori di cui sopra si apre una fase più introspettiva. Inoltre, il linguaggio dell'anima è immaginale, è quello del sogno, del mito, è quello che mette in relazione i piani al di là della narrazione lineare dell'intelletto, Lucio Dalla, per esempio, era un visionario come molti cantautori della vecchia scuola.

DB: Se dovessi dare dei consigli e un segreto a chi scrive canzoni quali daresti?

VR: Per la mia esperienza vale molto l'alleanza con il corpo, utilissima a ritrovare una dimensione di “in-state”, il cd “Stato di Grazia”, senza aspettare che arrivi da sola, perché può arrivare come non arrivare, non siamo abituati ad averci a che fare, quindi, nel migliore dei casi, ha una presenza, e una valenza, intermittenti. E invece, attraverso una pratica ben definita e rigorosa, che, sinteticamente, consiste in una serie di passaggi progressivi di maturazione, magari ripulita dall'ansia di avere aspettative, paradossalmente posso dire di aver trovato l’anima nel corpo.
Sono sempre stata abbastanza restia, ribelle, allergica e refrattaria alle regole, rifiutavo qualsiasi metodo, qualsiasi coalizione e qualsiasi affiancamento continuativo; ho imparato per lo più dall’esemplare dedizione di maestre e maestri fantastici che ho avuto la fortuna e l’onore di aver frequentato per lunghi periodi e che riuscivano nel tempo a sciogliere e a ri-costruire... in realtà, via via che dismetti la tua armatura scopri che una certa tecnica può aiutare, una collaborazione felice può essere un valore aggiunto, ecc.
Partiamo dal presupposto che la comunicazione, di qualsiasi tipo sia, è anche vibrazionale e, quindi, la ricerca non è di un’idea di produttività come potremmo intenderla in senso convenzionale, ma è una ricerca della propria “vibrazione originaria”: è la tua impronta, hai solo tu quella particolare e precisa vibrazione e da lì si parte per un viaggio unico ed imprevedibile.
Le persone con cui hai vibrazioni affini diventeranno il tuo pubblico, la tua tribù, la tua cassa di risonanza, di riconoscimento.
Questo lavoro sul corpo – che poi si collega alla branca terapeutica che pratico da diversi anni – è terapeutico, cantare è terapeutico. A tutti piace cantare perché per un momento si ha quella sensazione di integrità data dall'attivazione spontanea del circuito completo. Perché la voce parlata, quella che stiamo usando io e te, è solo un segmento del circuito integrato che fa la voce cantata che quindi draga e tocca parti di noi che normalmente non sono raggiunte. Quindi, diciamo che la chiave di volta è, di fatto, il corpo.

DB: Quindi, il consiglio è di ascoltare il corpo ed esplorarlo?

VR: Sì, il consiglio di praticarlo, affinando l’ascolto, per questo sento che questo periodo di costrizione in casa per via della pandemia, rispetto agli standard di “normalità” a cui eravamo abituati, in realtà mi sta regalando quella immobilità curativa che è uno stadio necessario, inevitabile, per arrivare a quell’altra visione interna. E in effetti hai la sensazione di apertura di un’altra qualità di spazi a cui ti connetti trovando un contatto più saldo in te. Milarepa diceva “Camminate sempre sul fermo suolo della non-oggettività delle cose”...

DB: Sembra una contraddizione, ma in realtà ti pone in un assetto di pensiero diametralmente opposto a quello che usi di solito.

VR: Esatto. Questo periodo mi sembra un bel crocevia per entrare in un tratto di strada non battuta e non esclusivamente materiale, come del resto è la vita. Questa idea di “dondolare il corpo” di cui ti ho accennato, la utilizzo nelle mie sessioni di songwriting con i giovani cantautori: “dondolando” si crea una condizione in cui uno è come se si dovesse svuotare fuori da sé il testo, perché tu non lo devi pensare troppo mentalmente, soprattutto nel momento iniziale, che è quello che io chiamo della “scintilla”, non è il momento in cui devi usare la ragione, perchè in questo momento di creazione devi essere un medium, un canale, un corridoio, dove vieni semplicemente “attraversato” dal testo. E questo ci solleva anche un po’ dalla presunzione, e dall’illusione, di essere noi il master, il creatore, il creativo; che è una trappola da cui uscire il prima possibile, non è lì che risiede il valore che diamo a noi stessi o che ci aspettiamo che gli altri ci riconoscano... Ma qui si apre un altro capitolo...


 

Dome Bulfaro Foto Dino Ignani Rimini 2016

Dome Bulfaro (1971), poeta, esperto di poesiaterapia, si dedica alla poesia (di cui sente un servitore) ogni giorno dell’anno. È tra i più attivi e decisivi nel divulgare e promuovere la poesia performativa; ed è il principale divulgatore in Italia della poetry therapy/poesiaterapia. Dal 2021 è docente di Poesiaterapia e Lettura espressiva poetica presso l’Università degli Studi di Verona, nel pionieristico Master in Biblioterapia. Nel 2013 ha ideato e fondato con C. Sinicco e M. Ponte la LIPS - Lega Italiana Poetry slam. Nel 2023, ha ideato e fondato con M. Dalla Valle. P. M. Manzalini e I. Monge la BIPO - Associazione Italiana Biblioterapia e Poesiaterapia, prima associazione di categoria. Ha fondato e dirige Poetry therapy Italia (2020), rivista di riferimento della Poesiaterapia italiana. Ha fondato e dirige (con Simona Cesana) PoesiaPresente – Scuola di Poesia (2020) performativa, scrittura poetica e poesiaterapia. www.domebulfaro.com

(Foto Dino Ignani)
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