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La storia del pugilato, la forza e il fascino di una disciplina millenaria, che il sociologo Wacquant ha definito una pratica “civilmente selvaggia”, che non si limita a insegnare a dare i “cazzotti”, ma che rappresenta un reale strumento educativo.

«Si accedeva per una scala buia a una palestra lugubre che non poteva non ricordare la stiva di un antico galeone. Si potevano distinguerne i suoni prima ancora che gli occhi si abituassero alla penombra: lo “slap slap” delle corde che sferzavano il tavolato, il suono sordo del cuoio contro i sacchi che ticchettavano bilanciandosi all’estremità delle catene, il crepitio delle “pere”, lo stridore soffocato delle scarpe sul tappeto del ring (c’erano due ring), il tirar su col naso dei pugili e, ogni tre minuti, il suono acuto della campana. L’atmosfera sapeva di crepuscolo in una giungla fetida

Le parole di Loїs Wacquant nella prima pagina del suo saggio Anima e corpo, la fabbrica dei pugili nel ghetto nero americano, non possono non sembrare familiari per chi ha frequentato l’ambiente pugilistico o per chi ha semplicemente avuto il piacere di vedere un film hollywoodiano. Il fascino di questa cultura sportiva è infatti potente e attrattivo, un richiamo calamitante anche per i più pavidi, anche per coloro che vogliono solo assistere al rito strutturato dello scontro. Uno scontro che prima facie può essere interpretato come violento. L’intenzionalità del gesto, infatti, è quella di causare un danno all’avversario, in modo volontario e più efficacemente possibile. Ma un’interpretazione che elimina la componente valoriale, culturale e simbolica di un gesto motorio è capziosa dal principio. L’uomo è antropologicamente un essere che agisce e che veste il mondo di significatività; non è possibile interpretare un singolo gesto come se fosse della semplice biomeccanica ignorando il sistema culturale che lo sorregge (figuriamoci una disciplina come il pugilato). Il sociologo Wacquant, infatti, la descrive come una pratica “civilmente selvaggia”. In questa espressione, ambigua e volutamente provocatoria, in quanto pone in relazioni due termini quotidianamente in antitesi, risiede tutta la struttura pedagogica implicita della pratica del pugilato.

Questo sport è spesso promosso da rinforzi mediatici e da una retorica educativa che appare vuota e superficiale, in quanto non accompagnata parallelamente da atti e comportamenti in grado di far scaturire le capacità poietiche della boxe. Perché una disciplina in cui “si fa a pugni” dovrebbe essere in grado di modificare l’etica di un giovane e direzionarlo verso un comportamento “virtuoso” come decantano tutti gli addetti ai lavori? Quante volte abbiamo sentito parlare dell’attività sportiva - e non solo nel pugilato ma nello sport in generale - come di un farmaco per la turbolente fase adolescenziale! Una medicina in grado di “raddrizzare” il giovane ribelle e farlo crescere sicuro di sé e disciplinato.

Quello che cercheremo di fare in questo breve articolo è di delineare le cause e le ragioni che fanno di questa disciplina millenaria un reale strumento educativo, al fine di prendere consapevolezza di uno strumento pedagogico che, se mal utilizzato, può trasformarsi in un instabile esplosivo. Insegnare a dare i “cazzotti” è infatti relativamente facile, ma educare a fare a “cazzotti” è estremamente più complicato.

Un po’ di storia sportiva

Già Paolo di Tarso metteva in dubbio lo scopo ultimo che aveva l’educazione sportiva e, comparandola alla filosofia cristiana, filosofia intesa come comportamento di vita volto alla contemplazione di Cristo, affermava così nella prima lettera ai Corinzi:

«Non sapete voi che i corridori dello stadio corrono sì tutti, ma uno solo ottiene il premio? Correte anche voi in modo da ottenerlo. Tutti i lottatori si sottopongono ad ogni sorta di astinenza; ed essi lo fanno per guadagnare una corona corruttibile, noi invece per una corona eterna. Io dunque corro, ma non come alla ventura; faccio del pugilato, ma non come uno che dà colpi nell’aria; bensì tratto duramente il mio corpo, lo sottometto affinché, dopo aver fatto da araldo agli altri, non rimanga io squalificato».

Sostanzialmente Paolo di Tarso fa del proselitismo nella città di Corinto, città seconda solo a Olimpia per quanto riguarda l’organizzazione di festival sportivi, mettendo in cattiva luce l’ascetica sportiva. Questa, sempre secondo le parole Paolo, avrebbe come obiettivo finale solo un mero riconoscimento privo di valore spirituale. Così, demonizzando una vita dedicata all’ottenimento di semplici beni materiali (una “corona corruttibile”), invita sì i cittadini a imitare la ferrea disciplina degli atleti, ma a rivolgere la loro mira verso la contemplazione di Dio e verso uno stile di comportamento “cristiano”. In questa sua richiesta emerge un duplice significato rispetto allo scopo di questo scritto. Da un lato si evidenzia positivamente la disciplina che possiedono questi atleti nella capacità di sottoporsi a ogni sorta di astinenza, dall’altro si intravede una pedagogia esclusivamente prestativa che come unico scopo ha la vittoria della gara e non la formazione del carattere e l’educazione, educazione che oggi chiameremmo civica. Dato confermato da storici dello sport che ci consegnano un’interpretazione dei festival sportivi, nei primi due secoli dopo cristo, fortemente indirizzati alla spettacolarizzazione dell’evento tanto da trasformare l’attività pugilistica – e non solo il pugilato – da attività idealmente educativa della Grecia classica ad attività professionistica esclusiva ai pochi “prestanti”. Sottolineo la parola idealmente in quanto gli stessi storici dello sport mostrano come la professionalizzazione sportiva potrebbe essere avvenuta già ai tempi della guerra del Peloponneso e quindi attorno alla fine del V secolo a.C.. Sembrerebbe infatti che la guerra tra la lega peloponnesiaca e la lega delio-attica abbia accentuato il valore politico della vittoria dei giochi panellenici, oltre al già importante valore economico della vittoria di una corona, modificando lentamente la struttura della paideia originaria, ovvero del processo educativo antico. Una modifica didattica dell’educazione all’interno dei ginnasi che iniziò a svuotare le palestre di tutta la gioventù cittadina per farla frequentare solo a quei giovani antropometricamente adeguati all’alta prestazione. Infatti Platone, che oltre filosofo fu un lottatore vincitore dei giochi di Corinto – informazione che ci è nota grazie alle indagini di Diogene Laerzio – nutre dubbi sulla quantità di ginnastica necessaria per l’educazione della futura classe politica nella sua utopica Repubblica. Afferma, infatti, l’importanza della musica e della ginnastica per una crescita armonica del cittadino, ma esorta i futuri guardiani a non allenarsi come gli atleti, in quanto, mantenendo quel tipo di regime di vita portato all’estremo delle capacità umane, sarebbe stato più facile ammalarsi.

Questo preambolo storico non è stato fornito per una semplice esposizione di eruditismo, ma per cogliere l’odore antico e storico della problematica politica educativa che da sempre allarma la società civile. Perché educare significa determinare e se veramente l’attività pugilistica e sportiva in generale è in grado di educare, allora bisogna tenere in pugno questo strumento deterministico e utilizzarlo con prudenza e consapevolezza.

Sport formativo

Ma allora come e quando è stato possibile vedere l’attività sportiva come strumento poietico del cittadino democratico? Forse, come tutte le cose che hanno radici nel reale e non nell’ideale, l’educazione sportiva non è mai stata perfetta. Come per tutto, non è mai esistito un in sé simbolico e funzionale della ginnastica, ma solo un continuo aggiustamento e modifica di uno strumento che, essendo padroneggiato da individui e quindi vincolato a relazioni tra persone (atleta-allenatore-spettatore), necessità di continui aggiustamenti di rotta rispetto alla meta prescelta.

Ciò che oggettivamente sappiamo, grazie a Hadot e contemporaneamente a Foucault, è che gli esercizi ascetici, definiti successivamente da Gehlen come «rinunzie necessarie, che sollevano le difficoltà più grandi», derivano da quegli esercizi sportivi mirati al raggiungimento della massima prestazione e il superamento di una prova». Āskesis non è, quindi, un esercizio contemplativo per l’ascesa verso dio, ma una pratica addestrativa sportiva, un insieme di esercizi razionalizzati e programmati volti a modificare tutto lo psichismo dell’atleta che deve affrontare prove sovrumane.

E in questo superamento, in questa rinunzia, risiede tutta la realtà educativa che possiede un’attività pratica come lo sport e in particolar modo il pugilato. Come Platone afferma nelle Leggi, un buon cittadino deve saper controllare l’impeto delle passioni attuando quelle pratiche che gli permettono di resistere alle pulsioni che animano la realtà umana. Il prorompere della rabbia o della paura, l’insorgere di irrequietezza o della pigrizia, ma anche l’incapacità di controllare la fame, la sete, la sessualità, tutte quelle pulsioni biologiche che, se non controllate, avvicinano il nostro comportamento a una devianza sociale. Per Platone, nelle Leggi, la ginnastica e le “arti belle” possiedono i mezzi con cui controllare la propria animosità, «se ne può spegnere l’impeto crescente e la marea che tutto invade».

Ma ora torniamo agli studi di Hadot e Foucault: gli allievi delle scuole stoiche, del periodo ellenico romano, prendevano spunto dalle esercitazioni sportive per implementare la loro capacità di mantenere la filosofia di vita della loro scuola. Etica di vita dedicata alla tensione e al controllo delle passioni umane per il superamento del dato biologico e l’avvicinarsi al saggio “ideale”. Nelle Diatribe di Epitteto, nel capitolo Dell’esercizio, si può avere una panoramica della qualità psichiche e fisiche a cui uno stoico doveva ambire:

E poiché l’abitudine ha una grande influenza […] bisogna opporre a questa abitudine l’abitudine contraria. […] Sono incline al piacere: a mo’ d’esercizio, mi spingerò dalla parte contraria oltre misura. Aborrisco alla fatica: occuperò ed eserciterò in questo campo le mie rappresentazioni onde cessi alfine la mia avversione da qualunque cosa di questo genere. […] Uomo, se sei irascibile, esercitati a sopportare gli insulti, e non irritarti d’essere disprezzato. […] Esércitati, inoltre, a usare con discrezione del vino, non in vista di ingozzarne molto (sebbene anche in questo s’esercitino taluni sciocchi), ma in primo luogo per astenertene, e tienti lontano dalle ragazze e dai dolci. Talora, poi, per metterti alla prova, se ti va, scenderai opportunamente in lizza contro te stesso, per conoscere se le rappresentazioni conservano sopra te lo stesso potere di un tempo. […] Per ciò diceva bene Apollonio: “Se vuoi esercitarti proprio per te, quando hai sete ed è caldo, tira su un sorso d’acqua fresca, poi sputala e non dirlo a nessuno”.

L’allievo della scuola tramite gli esercizi – ovvero quelle pratiche in grado far acquisire l’armatura (paraskeuē - Παρασκευή) e i mezzi per l’indipendenza dell’individuo (autarkeia - αὐτάρκεια) e per il raggiungimento della tanto ambita atarassia (ataraxia - ἀταραξία) – incarnava comportamenti e pulsioni culturali caratteristiche del sistema valoriale stoico, che diventavano essi stessa una seconda natura. E per fare ciò traevano spunto dagli esercizi a cui si sottoponeva un pugile o un atleta, esercitazioni pratiche in grado di “costruire” la fortitudo dell’individuo e renderlo capace di controllare con dimestichezza i turbolenti moti che animavano (e animano) il mondo sportivo e l’interiorità dell’atleta stesso quando affrontava una gara.

Cito il grandissimo campione Marvin Hagler: «sono un pugile, sempre. Mentre cammino, parlo, penso». Queste parole hanno un significato più profondo di quello che sembrano. Le ascesi sportive a cui Marvin si è sottoposto, non sono servite per fare il pugile, ma per essere pugile. Una differenza a prima vista insignificante, ma che interpretata in un’ottica educativa stabilisce la differenza tra recitare di essere un certo tipo di ragazzo o esserlo veramente.

Se, quindi, le attività pratiche svolte in modo continuo sono in grado di rinforzare esperienze e azioni che cambiano l’essere, l’essenza, o se si preferisce chiamarlo il carattere dell’individuo – ovvero citando Gehlen come l’insieme di «interessi, bisogni, inclinazioni e abitudini (insomma: pulsioni) […], assunti come propri » –, bisogna approfondire come vogliamo agire educativamente.

L’educazione sportiva oggi

Che caratteristiche ha l’essere pugile? Che tipo di ragazzo vogliamo educare, o che ci aspettiamo diventi, tramite il pugilato? Che tipo di filosofia di vita vogliamo che attui tutti i giorni nella vita quotidiana? Guido Giugni, pedagogo sportivo degli anni ’80 definisce lo stile sportivo come:

«un modo caratteristico di esprimersi e di concepire la vita personale; ed un particolare modo di intendere e praticare rapporti interpersonali. Questo stile ha le sue basi nella coscienza della propria disponibilità: ossia di ciò che possiamo o non possiamo, di cui siamo o non siamo capaci, nel modo migliore possibile, con gioia e serenità; e di realizzarlo, insieme agli altri, in una interdipendenza di rapporti, mirante non a contrapporre gli uni agli altri per separarli, ma per unirli in una comune idea di perfezionamento».

Questa definizione – obbligata ad essere prolissa per l’estensione semantica del concetto stesso – chiarisce tutta una serie di aspetti psichici, etici e morali. Lo stile sportivo viene definito come un’espressione e una concezione di vita, ossia di un moto esistentivo che tende a interpretare un mondo in una determinata maniera. Un punto di vista che viene presupposto che emerga dalla pratica sportiva.

Ma se, come sostiene Gehlen, l’uomo può essere concepito complessivamente come «un essere che agisce», e l’azione è sempre rivestita di aspetti simbolici e culturali che influiscono sul carattere dell’individuo, allora il nostro compito da allenatori ed educatori non è quello di presupporre che l’azione sportiva specifica abbia in sé la capacità di formare uno stile sportivo. Certamente l’agire stesso, all’interno di una cultura sportiva, è carico già di per sé di significato, in quanto la comunità sportiva condivide regole e valori. Nonostante ciò l’allenatore deve fare in modo che l’azione specifica o gli esercizi ascetici sportivi, siano ulteriormente formativi, così da plasmare lo psichismo dell’atleta verso un determinato modo di essere che consideriamo eticamente sportivo.

La stessa routine di allenamento può essere già considerata un esercizio in grado di formare uno stile sportivo. Ogni pratica di allenamento, infatti, coinvolge tutto l’individuo nella sua totalità e adatta il soggetto, non solo una parte, a intraprendere un scopo prestativo. L’agonismo sportivo in generale pone degli obiettivi finalistici che sono insiti nell’esito dell’azione stessa. Tramite l’allenamento finalizzato a uno scopo (per esempio fare un primo incontro), l’atleta scopre il proprio essere agente e scopre i suoi limiti e le sue possibilità in un giusto e appropriato concetto di sé.

Allenarsi significa imparare la reciprocità e sostituire all’invidia l’ammirazione per chi sa fare meglio; significa imparare sulla propria pelle l’importanza del lavoro collettivo per il raggiungimento del risultato. L’allenamento adatta il soggetto al fare fatica pur di raggiungere l’obiettivo e insegna come strutturare e regolare il tempo in vista di esso. La capacità di resistere alla fatica e di organizzare il tempo, sono i fattori più evidenti dell’atletismo che maggiormente si riflettono nel sociale. La dura prassi di allenamento per raggiungere un risultato, crea individui che sono disponibili a qualsiasi tipo di fatica, in grado di possedere una resilienza molto alta anche nei casi di possibili insuccessi. La necessità di organizzare il tempo libero, il tempo di allenamento e il tempo dei pasti, per potersi allenare con la squadra sportiva in piena efficienza psico-fisica, si ripercuote sulla struttura mentale dell’individuo che migliora l’economia personale nella spesa delle energie fisiche e mentali anche al di fuori della palestra. Infine, l’allenamento giova all’educazione dei giovani perché, parole di Giugni, li aiuta a comprendere «le norme che regolano la competizione» e a traslarle negli aspetti di vita quotidiana.

Il pugilato ha anche notevole impatto sull’attenzione e la vigilanza. Queste sono condizioni fondamentali e necessarie per poter essere un pugile. La velocità di esecuzione dei colpi, rispetto alla distanza molto ravvicinata del duello, esige una elevata capacità di riflessi, un alto sviluppo cognitivo per la lettura dell’avversario e la previsione delle sue azioni. Queste esigenze tecnico/tattiche sviluppano inconsapevolmente la capacità di essere vigili e attenti mediante la normale pratica sportiva e diventa abito comportamentale nella vita quotidiana. Si possono sviluppare con allenamenti specifici e con allenamenti generali[1], per esempio l’attenta osservazione della fiamma di un candela per tutta la durata di un round (tre minuti) o l’allenamento dei movimenti saccadici attraverso la captazione delle informazioni di un contesto dopo una veloce osservazione. Dell’inventario di un frigorifero aperto per pochi secondi il nostro atleta deve imparare a recepire il massimo numero di informazione e saperle riferire (si può iniziare da cinque secondi di osservazione fino ad arrivare ad un solo secondo!). Questa alta capacità attentiva richiesta dal maestro deve essere costante in tutta la vita dell’atleta. Il pugile deve essere attento e analitico nell’apprendimento delle abilità, nell'osservazione dell’avversario, nello sviluppo corretto delle consegne somministrate dall’allenatore, ma anche nella scelta di una condotta di vita sana e “legale”. Nonostante si associ il pugile ad un delinquente, le scelte morali, che possono portare effettivamente a questa condotta di vita, non sono insite nella disciplina, ma sono probabilmente frutto di condizioni culturali esterne. L’attenzione al corpo e alla libertà, condizione fondamentale per poter praticare il pugilato, trasformano l’individuo, il quale agirà analizzando le possibili conseguenze di ogni suo gesto. Un punto di vista utilitaristico che può evolversi in scelta morale consapevole se coadiuvata dal dialogo con l’allenatore. Soprattutto in età adolescenziale è importante non lasciare sottintese le motivazioni che inducono la scelta dell’azione, sia in ambito sportivo che in ambito sociale, richiedendo all’atleta grande capacità di immedesimazione.

Ma la formazione più importante del pugilato risiede nel dominio emotivo. Infatti le procedure allenanti, esposte poco sopra, sono la descrizione della sfera umana da un punto di vista comportamentale che ignora gli aspetti emozionali. Colori e tonalità imprescindibili dall’essere umano e che hanno un ruolo fondamentale nei processi di crescita dell’adolescente. La consapevolezza dell’emotività, che può emergere nelle più svariate situazioni della vita, può essere il primo livello di conoscenza che permette un controllo delle proprie pulsioni. Controllo pulsionale non significa repressione dell’animosità. Anzi, quello che intendo per “controllo” è il risultato dell’esperienza analizzata, e compresa nelle sue cause, che permette al soggetto di non essere “colto di sorpresa”. La rabbia e l’amore, l’entusiasmo e la melanconia e tanti altri modi degli affectus umani, devono essere necessariamente provati e assaporati, così da poter essere preparati al sopraggiungere di tali tempeste. Una preparazione emotiva tale da permettere anche la previsione stessa delle emozioni e, perché no, l’accettazione razionalizzata e ricercata.

Qui si risiede la pratica civilmente selvaggia. Qui la pulsionalità dionisiaca deve fare i conti con la razionalità apollinea. Qui sul ring Apollo e Dionisio si strinsero la mano e, citando le parole di Nietzsche, «entrambi gli dèi uscirono per così dire vincitori dalla loro gara: una riconciliazione sul campo di battaglia». La risoluzione della rottura che avviene tra le pulsioni umane e le regole civili. Il conflitto tragico della vita che trova catarsi nell’esposizione violenta dei corpi all’interno di un agone regolamentato e delimitato nel tempo e nello spazio. Wacquant per arrivare a comprendere questa caratteristica della pratica pugilistica ha dovuto affrontare lui stesso l’ascetica sportiva che lo ha portato, alla fine del suo progetto di studio, a debuttare nei golden gloves americani, uno dei più importanti tornei dilettantistici degli Stati Uniti d’America.

Lui stesso quindi ha affrontato la rabbia, la paura, l’esaltazione, in un processo di apprendimento graduale e continuo sul ring di allenamento e davanti allo sfiancante sacco pesante ma, soprattutto, sotto l’ autorevole e lapidaria voce del suo vecchio allenatore Dee Dee. Wacquant comprende come questa figura sia il timoniere di questo spettacolo teatrale e dedica numerose pagine alla descrizione di questo allenatore. Dee Dee è come un asceta. Mangia poco, vive al freddo e pratica una vita dedita esclusivamente al pugilato. Una vita ascetica in grado di “dare l’esempio” e di calamitare i giovani del quartiere (uno dei più malfamati e problematici di Chicago) nel tentare l’ascetica pugilistica seguendo il proprio maestro. Forse proprio come Epitteto era seguito dai suoi studenti della Scuola. Wacquant infatti non esita a chiamare questo processo di reclutamento volontario dei tesserati del Gym come “ascesi collettiva”.

Conclusione

La società odierna è incatenata a processi economici e tecnici che rischiano di influire enormemente sulla cultura pugilistica. Grandi campioni come Mohamed Alì hanno lasciato il posto a piccoli campioni come Floyd Maywheater Jr. Sì, un grande pugile – per alcuni forse il più forte – ma che non ha voluto incarnare l’eredità millenaria tramandata da pugili di tutti i secoli. Floyd rappresenta l’incarnazione dei modelli di spettacolarizzazione fini a se stessi, che ricordano vagamente il processo di volgarizzazione dello sport avvenuto negli ultimi secoli di Roma. Il rischio di questa rotta sportiva è quello di perdere la reputazione educativa che questa disciplina possiede. Se nell’epoca Romana Filostrato, retore autore del Gymnasticus, invocava allenatori in grado di essere esemplari e proprietari della sophia oltre che della téchne, se a fine ‘800 De Coubertien rispolverava la tradizione sportiva classica organizzando la rinascita dei giochi e del loro sistema di valori, le attuali olimpiadi moderne, ora è venuto il momento di bloccare e demonizzare questo processo di svilimento sportivo partendo dall’educare consapevolmente dalle palestre. È il momento di difendere l’eredità millenaria che possiede il pugilato per evitare che una pratica civilmente selvaggia diventi una disciplina esclusivamente selvaggia o, peggio ancora, selvaggia civilmente.

 

Renato De Donato, Biografia
Sono un ex pugile, già campione italiano professionisti nel 2012 con tre difese all’attivo. Da dilettante ho fatto parte della squadra nazionale dilettante partecipando alle selezioni Road to World Championship e ho fatto parte della squadra della Dolce&Gabbana Italia Thunder nel torneo mondiale delle world series of boxing.
Il mio percorso di studi è molto variegato. Provengo da un liceo artistico, divento dottore in scienze motorie triennale a Pavia e magistrale a Milano. Successivamente, dopo la carriera professionistica di pugilato, mi sono laureato alla Statale di Milano in Filosofia.
Ora sono professore a contratto presso l’Università degli Studi di Milano e docente federale per la Federazione Pugilistica Italiana. Inoltre libero ricercatore presso il Centro di Ricerca Aldo Rovelli per le Neurotecnologie e le Terapie Neurologiche Sperimentali.
A latere del percorso accademico ho aperto un luogo che vuole essere la riproposta moderna di un antico ginnasio. Heracles Gymnasium è una palestra di boxe che al suo interno ha una biblioteca per adolescenti e universitari e uno spazio per il teatro e i concerti di musica.

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[1] Nelle scienze motorie si distingue:1- allenamento specifico: stimoli allenanti mediante la gestualità propria della disciplina; 2- allenamenti generali: stimoli allenanti provenienti da gesti che non sono parte della disciplina (in questo caso per esempio la corsa); 3- allenamenti speciali: stimoli allenanti generali ma che coinvolgono certe catene muscolari e certi gesti che possiedono un transfer diretto con il gesto specifico.