Questo articolo è collegato e sviluppa quanto introdotto nell’editoriale ed esposto all’interno di Quando le parole, i silenzi e i gesti curano? contribuisce a sgomberare il campo da infondati luoghi comuni circa l’aspetto terapeutico del bello, delle arti e, nello specifico, della poesia e arriva a una conclusione dove cura e arte trovano una intima coniugazione.
Si può conquistare una ragazza con una poesia,
ma non la si può tenere con una poesia.[1]
Roberto Bolaño
La poesia è sempre terapeutica? è la domanda che pone un quesito nodale sia per approfondire il rapporto tra poesia e terapia, sia per sgomberarlo dei tanti luoghi comuni che lo circondano: primo fra tutti quello che chiamo la pericolosa beatificazione della poesia in corso. Sì perché dopo che per oltre più di un secolo la poesia è stata considerata la Cenerentola delle arti, ora sto assistendo alla sua, altrettanto ingiustificata, opposta estrema deformazione.
Nei precedenti due numeri di Poetry Therapy Italia, partendo dalle seguenti due domande, Biblio/Posiaterapia quale etica? (n. 8)[2] e Quali parole curano? (n. 7)[3], abbiamo compreso quanto fosse importante che le risposte dovessero correre insieme e quanto, a conti fatti, la questione di Quali parole curano? risultasse una domanda se non errata quantomeno incompleta e dovesse essere correlata da un’altra domanda: Quando le parole curano? questione che sprona a precisare confini, modalità d’azione, ragioni. Rispondere a questo quesito ha significato, infatti, comprendere quanto il linguaggio verbale delle parole, non si possa quasi mai scindere – com’è evidente per chi fa o fruisce della poesia performativa – da altri due linguaggi: il non verbale e il paraverbale. Ecco allora che la parola terapeutica non può essere disgiunta da molti altri canali di comunicazione privilegiati tramite il quale il facilitatore di poesiaterapia entra in relazione con l’utente/paziente/cliente, sia esso un singolo, un gruppo o una comunità di esseri umani, animali, vegetali o cose. Tra questi canali relazionali spiccano i silenzi e i gesti, le cui voci anche se insonorizzate sono spesso visibilmente ascoltabili ed eloquenti e possiedono, al pari della voce verbale, un analogico precipuo che li contraddistingue. Non a caso la questione del Quando le parole curano? si è sviluppata nel Festival Internazionale di Poesiaterapia – organizzato da Mille Gru dal 14 al 17 di dicembre 2023 - nel titolo/tema Quando le parole curano. I silenzi risuonano.
Talvolta, persino i poeti che non concepiscono la poesia innanzitutto come arte musicale, spesso sottovalutano quanto la poesia sia fatta, di base, da ritmi che regolano ad arte suoni e silenzi e che la voce nel suo sonorizzarsi altro non compia che gesti vocali. Ciò che ancora si fatica ad accogliere come fatto reale è che la poesia, in quanto energia canalizzata e modellata ad arte con parole di senso, parole di suono e parole di silenzio, è come l’essere umano, suo creatore, un vero e proprio organismo composto di materia viva: ha un cuore che batte e cammina (il ritmo dell’ictus da cui nasce il ritmo del piede), ha due polmoni che respirano insieme (il ritmo del verso, nel suo essere significante e significato), ha una testa (il verso di apertura) e una coda (il verso di chiusura), ha un apparato scheletrico (la struttura del testo), ha un corpo stratificato (carne/corpus del testo), ha un cervello (il pensiero del testo), ha le interiora (le emozioni nel testo), ha una voce (lo spirito), ha un’interiorità che è mistero (il non detto, il mai detto, l’indicibile, l’inaudito), è energia manifesta che si muove nel tempo (i suoni e la musica generata), che come onda nasce, si sviluppa e muore, nel mare magnum dell’infinito, secondo sue personali movenze, seguendo e dando un suo personale senso (verso), disegnando una lingua di terra che unisce il nulla al nulla (vita), mostrando col suo essere isolato corpus organizzato e risonante nella dimensione dello tempo/spazio, quel vuoto che c’è intorno e dentro di lei, come in ognuno di noi (poesia). La poesia nasce da una persona e come una persona si comporta, agisce, reagisce, oltre al linguaggio della musica, per comunicare parla una o più lingue, si attiva, resta in disparte, resta in attesa, si ammala, guarisce, scompare, riappare, muore, rinasce, spesso in un’altra forma ma è sempre lei, soprattutto in tutto quel che risuona, come ogni persona quando sente e risuona.
Le poesie, come le persone, non sono sempre buone, non sono tutte/i brave/i ragazze/i, non sono a priori tutte terapeutiche, certamente molte non lo sono anche per come concepiamo oggi la poesiaterapia, professione in costante mutamento e adattamento che, allo stato odierno, generalmente si fonda sull’ascolto profondo, sulla sospensione del giudizio, le non forzature, la trasformazione armonica dei conflitti dettata dai tempi personali del paziente, la condivisione empatica in un luogo protetto e sicuro, la crescita della consapevolezza nella reciproca fiducia.
La poesia è uno strumento di cura potentissimo, un’arma bianca non convenzionale, che in quanto tale va maneggiata con la massima accortezza e preparazione, secondo regole deontologiche convenzionali condivise da poetaterapeuti professionisti. La poesia impiegata con finalità terapeutiche e non estetiche, può farci ottenere in tempi brevi grandi risultati, così come può anche aggravare lo stato di malessere e disagio in cui versa il paziente, se la poesia viene usata in modo maldestro, irresponsabilmente, privi di un’adeguata formazione.
La poesia poi, come le altre forme d’arte impiegate con fine terapeutico, non è detto sia lo strumento più idoneo in quel dato momento, per quella data persona, né tantomeno è detto che in quel momento lo sia quel/la dato/a il/la facilitatore/trice.
La poesia come strumento terapeutico ci può aiutare tanto, specie se si agisce nella chiara consapevolezza che essa non può guarire tutto. Non si curano con la poesia le metastasi al cervello, un malato di alzheimer non recupererà perfettamente la memoria grazie agli incontri di poesiaterapia. La poesia talvolta si è rivelata taumaturgica ma di mestiere non fa grandi miracoli. In futuro forse scopriremo come ricavare dalla poesia anche questi poteri, ma oggi queste prospettive non sono che immaginazione, utopia. Non dobbiamo commettere l’errore grossolano di idealizzare né la poesia, né tantomeno la poesiaterapia. Un biblio/poetaterapeuta ha il dovere di essere e restare più realista del Re. Certamente la parola (così come i silenzi e i gesti), tanto più se poetica, può agire al pari di un farmaco in numerosi casi di malattia, oramai lo confermano tanti studi di neuroscienziati; sappiamo che la poesia ha il potere di medicare, ricucire, operare chirurgicamente nell’animo umano, ma essa non agisce per astratto, è una professione che si pratica nella realtà, con persone vere, che chiedono di ritrovare o potenziare realmente il proprio stato di benessere. Comprendere di quale parte della persona ci si possa realmente prendere cura con la poesia, in quale modo, se integrandola con altre terapie o in autonomia, è parte fondamentale e prioritaria della disciplina del biblio/poetaterapeuta.
Non rimuoviamo il fatto che esistano poesie tanto belle quanto terribili, che alcune siano spietate, ti parlino a muso duro: a volte per cambiare in meglio il mondo occorre essere frontali, volere degli scontri frontali, occorre entrare a gamba tesa, denunciare senza fare sconti, come ci insegnano ad esempio le tante invettive di Dante: ancora oggi a distanza di secoli come risuona nella sua bellezza feroce, l’attacco dell’invettiva del Sommo poeta contro l’Italia, da lui marchiata a fuoco nel Canto VI del Purgatorio:
Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello![4]
Se c’è un insegnamento che attraversa molta dell’arte moderna e contemporanea è che l’arte per essere tale, spesso sceglie di provocare, trasgredire le leggi, “uccidere il padre”, così si dice in gergo. Dall’Impressionismo a oggi, prendendo a esempio solo il segmento di tempo a noi più prossimo, i movimenti e gli artisti dell’arte visiva si sono avvicendati per fratture e conflitti, più o meno radicali. Cosa sarebbe l’arte dal 1874 in poi senza le continue sconvolgenti introduzioni dei nuovi media come la fotografia, la radio, il cinematografo, il video, il computer? O cosa sarebbe l’arte del Novecento senza Les Demoiselles d'Avignon di Picasso? Senza le idee futuriste che “la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità” o “Non v'è più bellezza, se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro”? Cosa sarebbe l’arte contemporanea senza i ready-made di Duchamp? I Merzbau di Kurt Schwitters? Senza il Quadro bianco su fondo bianco di Malevic? Senza i buchi e i tagli di Fontana? Senza fluxus? Senza gli happening? Senza Una e tre sedie di Joseph Kosuth? Senza le serigrafie di Andy Warhol che ritraggono Marilyn Monroe? Senza la performance di Beuys Come spiegare i dipinti a una lepre morta? Senza le scelte estreme dell’azionismo viennese? Senza la serie Women of Allah della Neshat? Senza Mother and Child (Divided) di Damien Hirst? Senza i Tre bambini impiccati di Cattelan? Senza A minute of silence della Abramovic? Non sto dicendo che l’arte sia o debba essere solo frattura col passato o provocazione della società, piuttosto vorrei dire che l’arte, a differenza delle arti terapie, è sempre stata in passato, ed è bene che resti nel presente e in futuro, anche con questa modalità.
Quando P. P. Pasolini al giornalista, tipico uomo medio, nel mediometraggio La Ricotta (1963), dice tramite il suo alter ego Orson Welles: “Ma lei non sa cosa è un uomo medio? È un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, colonialista, razzista, schiavista, qualunquista!”, lo sta dicendo a ¾ degli italiani dei primi anni Sessanta. Ed è difficile credere che Pasolini possa di fronte a noi esseri umani degli anni Duemila, dato il tracollo socio-culturale planetario della nostra specie, pensarci meno mediocri degli occidentali del suo tempo. Eppure, pur nell’evidenza di questo degrado, quanti di noi sarebbero disposti a riconoscere di essere sostanzialmente degli irrimediabili pirla, come sosteneva Montale, con la sua inconfondibile causticità e autoparodia:
I pirla non sanno di esserlo. Se pure
ne fossero informati tenterebbero
di scollarsi con le unghie quello stimma.[5]
La profetica frase La bellezza salverà il mondo, così tanto in questi ultimi anni assai inopportunamente sbandierata, mostra tutti i suoi limiti e la sua infondatezza fin nel romanzo de L’idiota di Dostoevskij e il suo principe Miškin, il personaggio che proferisce questa frase e che proprio per essa viene canzonato. A ragione, mi viene da aggiungere. A quale bellezza si riferisce il principe Miškin e a quale ci riferiamo noi quando affermiamo una frase-slogan tanto d’effetto quanto inconsistente?
L’idea di bello, ne siamo ben consci, muta e si confuta di epoca in epoca, di cultura in cultura, persino fra culture di popoli coevi. Senza contare che l'idea di bello di una cultura si impone a livello planetario sull’idea di bello di altre culture – anche questo lo sappiamo con sempre maggiore consapevolezza – non solo per ragioni di “maggiore” valore estetico, ma anche (e spesso soprattutto) per ragioni egemoniche di tipo economico, imperiale-linguistico, o per ulteriori altre ragioni, sempre di natura extra estetica.
Lo slogan La bellezza salverà il mondo, come i suoi slogan derivati come: l’arte salverà il mondo, o la poesia salverà il mondo (non me ne voglia l’amica poetessa Donatella Bisutti), hanno il dono di infondere speranza, non lo nego, ma sono troppo generici per restare, dopo un'approfondita analisi, ancora credibili e mascherati. Sia chiaro: non dubito che il bello e tutte le arti che lo incarnano, abbiano in sé le potenzialità di contribuire, anche enormemente, alla salvazione del mondo, ma affinché queste potenzialità si manifestino in concreto, molto dipenderà da quale bello e da quale arte, per quali esseri viventi e da tante altre variabili, le quali poco o nulla hanno a che fare col bello e la sua arte.
Ciò che si può affermare, tutt'al più, con una certa serenità è che, tendenzialmente, il bello e le arti sortiscano del bene all’umanità e al mondo, dato che spesso si manifestano in virtù della volontà di cambiare in meglio l’essere umano e il mondo. Ma le idee di cosa sia bello, cosa sia arte, cosa sia bene o male, cosa sia meglio o peggio, alto o basso, a destra o a sinistra, sono idee relative; non possono in alcun modo assolvere alla pretesa di risultare in senso assoluto salutari per tutti gli esseri viventi, tantomeno salvifiche. Non commettiamo l’errore di elevare la Poesia (o un'altra delle arti maggiori) a nostro Dio sostitutivo, né affibbiamole attributi assoluti, quando lei stessa necessita delle cure umane per poter vivere e curare.
Il professionista di un’arte terapia ben sa che le stesse opere visive, musicali, teatrali o poetiche, applicate per il benessere delle persone, potrebbero dimostrarsi efficaci per alcune persone ma deleterie per altre; ben sa come ci siano straordinarie opere d’arte che in linea di massima non presentano le caratteristiche base per essere impiegate in un percorso di arte terapia. Ho potuto per esempio verificare sul campo della poesiaterapia quanto sia fuori luogo impiegare, data la sua difficile accessibilità, Laborintus di Edoardo Sanguineti rispetto all’immediatezza della poesia di Vivian Lamarque, tuttavia, non escluderei mai a priori e in assoluto, che non vi siano casi specifici, in cui anche i versi del Laborintus potrebbero tornare molto utili. La selezione dei testi poetici preesistenti da prescrivere o proporre a un gruppo che sta compiendo un percorso di poesiaterapia, richiede sia una vasta cultura letteraria, sia una formazione adeguata in funzione della loro somministrazione, comprensiva anche di competenze da parte del facilitatore nella dizione di poesia ad alta voce applicata a percorsi di poesiaterapia.
Cavare dalla parola, dai silenzi e dai gesti, le loro proprietà farmacologiche: anche questo fa o dovrebbe fare il poetaterapeuta. Come la parola può agire al pari di un farmaco lo spiega in modo chiarissimo il neuroscienziato Fabrizio Benedetti, uno dei massimi studiosi dell’effetto placebo:
Oggi la scienza ci dice che le parole sono delle potenti frecce che colpiscono precisi bersagli nel cervello, e questi bersagli sono gli stessi dei farmaci che la medicina usa nella routine clinica. Le parole innescano gli stessi meccanismi dei farmaci, e in questo modo si trasformano da suoni e simboli astratti in vere e proprie armi che modificano il cervello e il corpo di chi soffre. È questo il concetto chiave che sta emergendo, e recenti scoperte lo dimostrano: le parole attivano le stesse vie biochimiche di farmaci come la morfina e l’aspirina.[6]
Benedetti però, nella relazione tenuta al Festival internazionale di Poesiaterapia, rispetto a quanto espresso nel suo libro La speranza è un farmaco. Come le parole possono vincere la malattia, ha giustamente affiancato alla parola vittoriosa la parola tossica: vale a dire ad esempio quella insensibile, apatica, scientifico-tecnocratica, istituzionalizzata, che spesso adotta il medico nel comunicare al paziente (o ai suoi familiari) patologie, stati degenerativi della malattia, talvolta anche la morte imminente; oppure parole tossiche come lo sono tutte quelle che generano nei pazienti nuovi blocchi emotivi e psicologici o ne aggravano di già preesistenti. Le sostanze, il farmacista la sa, possono trasformarsi in veleno o medicina, a seconda della dose. Le stesse medicine possono finire, in caso di dose errata, per avvelenare, talvolta diventare tanto tossiche da essere letali. La tossicologia – disciplina scientifica che studia le sostanze, naturali o sintetiche, che hanno o possono avere il significato di veleni per la loro capacità di agire più o meno dannosamente sull’organismo[7] –, spesso adotta la frase di Paracelso: Sola dosis veneum facit[8]: è la dose che fa il veleno. La parola non è meno soggetta a questa legge. Dovremmo cominciare a introdurre il concetto che anche l’uso della parola debba prevedere/abbia una dose-soglia (Threshold Limit Value ovvero valore limite di soglia o TLV) tossicologica, ovvero un livello di dose nella diffusione della singola parola e della quantità di parole, che se oltrepassata evidenzia per la prima volta un effetto tossico. Il solo considerare che anche le parole abbiano una dose-soglia tossicologica, ci renderebbe subito consci di quanto il nostro uso delle parole sia sclerotico, malato, perché abusato, mal-educato, e quindi mal gestito, mal autoregolamentato, e dunque, mal digerito, portatore di conflitti.
Per comprendere meglio questo principio è utile ricordare il mito del caduceo, simbolo della farmacia, termine nato dal latino caduceus che deriva dal greco karikaion, che significa messaggero, annunciatore. La leggenda narra che il dio Mercurio durante un viaggio nell’Arcadia, intervenne nella lotta tra due serpenti, picchiando in mezzo a loro sul terreno un bastone[9], i due serpenti subito dopo questo gesto si attorcigliarono intorno al bastone riappacificandosi.[10]
Il bello e le arti che lo incarnano, certamente, svolgono in genere per le culture e le persone che le praticano e ne fruiscono un ruolo di cura di sé, così come afferma Parini nella poesia L’innesto del vaiuolo rivolgendosi Al dottore Giammaria Bicetti De’ Buttinoni:
Più dell’oro, bicetti, all’Uomo è cara
Questa del viver suo lunga speranza:
Più dell’oro possanza
Sopra gli animi umani ha la bellezza.[11]
La bellezza incarnata dall’arte per salvare il mondo o, quantomeno, risultare più dell’oro salutare per gli animi umani, dovrebbe agire come il bastone di Mercurio per i due serpenti in conflitto: far attorcigliare intorno a sé corpo e psiche pacificandoli, porre il bello e il bene, fronte a fronte, con il fine congiunto di portare armonia e benessere nel corpo come nell’animo, del mondo e di tutti i suoi figli.
Ciò accade quando l’arte assume un ruolo ascetico, meditativo, contemplativo; quando essa è fortemente votata all’elevazione spirituale, in armonia con il proprio sé, perseguendo la grazia, suscitando positività nell’essere umano; in breve, quando l’arte e il bello sorridono è facile che il loro aspetto terapeutico e salvifico emerga e si attivi in modo diffuso e trasversale in più persone, siano esse di differente età, estrazione sociale e culturale. Non è un caso che una delle forme letterarie più utilizzate nella poesiaterapia sia l’haiku giapponese, sintesi poetica della cultura spirituale zen; o che alle pareti degli ospedali ci si imbatta sovente in quadri impressionisti pieni di colori vibranti, luminosità e spensieratezza; o che l’arte visiva più amata sia in genere quella scultorea greca classica o quella pittorica del Rinascimento italiano, legate l’una all’altra da una figurazione corrispondente a un bello idealizzato che ricerca armonia nelle forme e grazia nei gesti e nelle espressioni del viso; non è un caso in ultimo che si amino opere la cui bellezza esteriore, come già cantava il dolce stil novo, altro non ritraggano che la bellezza interiore del soggetto rappresentato.
Ecco maturato il tempo, in questo studio, di smontare un altro luogo comune: l’arte e il bello non nascono solo dalla sofferenza: il Grande inno ad Aton di Amenofi IV o Inno al Sole è un testo teologico-letterario, tra i più significativi dell’antico Egitto, proteso a cantare gli attributi del disco solare Aton, anche col fine politico di sostituire un nuovo sistema di culto religioso monoteista a discapito del precedente politeista; la prima composizione di autore noto della letteratura italiana è il Cantico delle Creature, laude nata dal cuore traboccante di gioia e gratitudine di San Francesco d’Assisi nei confronti dell’Altissimu, onnipotente, bon Signore; da Jacopone da Todi a oggi, la figura di Maria, madre di Cristo, è stata costantemente glorificata dai più grandi poeti della letteratura italiana[12]; non si contano le odi, non solo religiose, dedicate alle feste, alle virtù, alle donne, ai bambini: quanta letteratura portatrice di dolcezza e leggerezza c’è nella storia di ogni popolo; quanta poesia dai tempi più remoti all’ecopoesia contemporanea, canta la bellezza della Natura, facendosi spesso testimone della simbiosi panica avvenuta tra esseri umani e Natura.
La poesia è in grado di condurci fino alle terre più estreme della beatitudine, passando dall’estetico all’estatico. Come accade nell’Estasi di Santa Teresa del Bernini, come accade nei dervisci rotanti nati dalla danza meditativa del poeta mistico Rumi, come accade negli attimi estatici che inseguiva Ejzenštejn nel suo modo di fare cinema. Il regista e teorico russo ne La natura non indifferente è illuminante nel descrivere la sua concezione ed esperienza di estasi:
Questo ci autorizza a dire che la struttura dell’Estasi è quella che ci conduce, nel seguire il suo sviluppo, a esperire gli attimi della realizzazione e della formazione delle leggi dello sviluppo dialettico. Con attimo della realizzazione definiamo la soglia attraverso cui passa l’acqua nell’attimo in cui diventa vapore o il ghiaccio che diventa acqua, o la ghisa che si fa acciaio. In tutti i casi abbiamo la stessa «uscita fuori da sé», l’uscita dalla propria condizione, il passaggio dalla qualità in un’altra: l’estasi. E se l’acqua, il ghiaccio, il vapore, l’acciaio potessero registrare psicologicamente il sentimento di quei momenti critici, nei quali avviene il salto, ci direbbero che essi parlano con pathos, che sono in estasi.[13]
Sono gli stessi attimi estatici che Scriabin espande in oltre venti minuti nella sua Sinfonia No. 4 Opus 54 “Le Poeme De L'Extase”, o è l’attimo estatico che Dreyer (anche per merito di una Falconetti in stato di grazia) espande in centodieci minuti nella pellicola La passione di Giovanna D’Arco. O si tratta degli stessi attimi estatici che vive l’attore “santo” di Grotowski:
Non sarà mai possibile raggiungere la perizia tecnica del cinema o della televisione. Il teatro deve ammettere i suoi limiti. [...] Non ci rimane allora che un attore “santo” in un teatro povero. La vicinanza dell’organismo vivo: ecco il solo elemento, di cui il teatro non può essere defraudato né dal cinema né dalla televisione: grazie a ciò, ogni provocazione lanciata dall’attore, ognuno dei suoi atti magici (che il pubblico è incapace di ripetere) diventa qualcosa di grande, straordinario e simile all’estasi.[14]
Ma può l’arte, per quanto straordinaria sia l’esperienza trascendentale diretta compiuta da un uomo, esaurirsi nella sola funzione spirituale? Per quanto il sentimento del dissolvimento (Ejzenštejn) che si prova in stato di estasi sia attrattivo, per quanto questa ex-stasis, ovvero dello stare fuori di sé sia attrattivo, per quanto già solo l’idea e l’esperienza di vivere sulla propria pelle, nel proprio corpo in quanto poeta performer, la trasmutazione da parola di carne a verbo di spirito[15] siano estasianti, non vorrei mai che il bello e l’arte che lo incarna si riducessero a sola ricerca spirituale.
L’arte è bene che viva nella respirazione tra repulsione ed estasi, quiete e caos, candore e scuotimento violento, certezze relative e mistero di fronte all’assoluto. L’arte deve avere la forza di portarci di fronte ai nostri turbamenti, come ci riescono le pietà e i prigioni di Michelangelo, le scene drammatizzate di Caravaggio, L’urlo di Munch, le fotografie della grande depressione di Dorothea Lange, i grandi quadri metafisici di Rothko, La tomba di Brion di Carlo Scarpa; l’arte deve metterci di fronte ai nostri limiti, ai nostri fantasmi, alle nostre miserie, alla nostra stupidità, alla nostra gratuita cattiveria: l’arte è legittimata a mostrarci dove l’aria è viziata, dove l’acqua è torbida, dove sono e cosa nascondiamo nelle nostre stanze più recondite. Farlo con arte significa spalancare le finestre, far decantare, trovare le chiavi delle nostre stanze segrete.
Se invece volessimo che la poesia, le arti visive, la musica, il teatro, la danza diventassero servitrici delle arti terapie, occorrerebbe che il nostro focus di massima cura si spostasse dalla bellezza dell’opera in sé, al benessere del soggetto in cura; occorrerebbe che il bello cessasse di essere ricercato anche come fine per il fine, e l’arte si piegasse ai bisogni della sofferenza: occorrerebbe che l’essere umano investisse i suoi talenti creativi non per diventare un io-artista ma un noi-essere umano migliore di ieri.
Ci sono oramai diversi siti, molto utili, come questo libguides.ucc.ie/bibliotherapy, che ti spiegano cosa sia la biblioterapia e quali libri potresti utilizzare per approfondire e curare la rabbia, l’ansia, sviluppare la tua assertività, affrontare l'autismo e via dicendo; potresti certamente intraprendere un cammino anche di auto aiuto o auto guarigione – fatto auspicabile visto che l’essere umano ha una propensione intrinseca all’autorealizzazione (Horney, 1950)[16] – ma il fulcro di un percorso di biblio/poesiaterapia avviene nella relazione con se stessi e l’altro, un altro che sentito come parte di me, attraverso un auto-mutuo aiuto, permettesse la rimozione degli ostacoli affinché la ghianda diventi quercia, come afferma la Horney. Ghianda=quercia, la stessa potente iconica metafora/similitudine, che qualche anno più tardi adottarono anche Yoko Ono e John Lennon, quando nella performance acorn event, il 15 giugno del 1968, piantarono due ghiande nei pressi della St Michael’s Cathedral di Coventry (U.K.), invitando simbolicamente tutti gli esseri umani di oriente e occidente, a cominciare dai Capi di Stato, di diventare coltivatori di Pace e sciogliere con il calore dell’amore la guerra fredda tra Russia e Stati Uniti che caratterizzava quegli anni.
Il biblio/poetaterapeuta, rientrante nelle professioni di cura, ha il compito di utilizzare al meglio, con la massima consapevolezza amorevole che possiede, tutta la straripante bellezza che le arti forniscono. Ha il compito di cercare le forme letterarie e i modi più congeniali per aiutare, in un rapporto paritario, quella straordinaria paziente creatura che ha di fronte o quel paziente gruppo o quella paziente comunità, consapevole che in realtà anche loro, i suoi pazienti, sono lì come dono per aiutarlo nello spazio sacro dell'incontro – come Irvin D. Yalom ci insegna ne Il dono della terapia[17] - a diventare un essere umano migliore nel suo ascoltare e ascoltarsi profondamente, nel suo essere presente, in consapevolezza e amorevolezza, nel rispetto di chi e cosa eravamo prima che avvenisse questo incontro, così nostro, così sentito come irripetibilmente nostro. Tu-io-noi uni-versi, interconnessi e intraconnessi, in auto mutuo aiuto, solidali. Stringere i mortali in social catena, come ci insegna La ginestra di Leopardi - senza però considerare matrigna la Natura – questa è la poesia che vorrei leggere in ogni strada e angolo della Terra.
Come poeta non posso che amare con struggimento, non senza un certo egoismo, quanto di bello nasce dalla sofferenza, ma da poetaterapeuta mi auguro che nessuno più arrivi a scrivere una poesia tanto bella quanto straziante com’è questa della Achmatova:
Ultimo brindisi[18]
Bevo a una casa distrutta,
alla mia vita sciagurata,
a solitudini vissute in due
e bevo anche a te:
all’inganno di labbra che tradirono,
al morto gelo dei tuoi occhi,
ad un mondo crudele e rozzo,
a un Dio che non ci ha salvato.
Manca però ancora un anello affinché il cerchio di cura si chiuda. Per quanto io ami Leopardi che indica la solidarietà come unico rimedio consolatorio all’infelicità che accomuna tutti gli esseri umani, e per quanto io apprezzi la solidarietà in sé – in quanto rapporto di fratellanza e di assistenza reciproca che unisce i membri di un gruppo – non può essere lei la risposta definitiva alla cura degli esseri umani. Perché anche la solidarietà, compiuta senza consapevolezza, potrebbe arrecare danni involontari se i nostri gesti e le nostre parole solidali non fossero guidate dalla consapevolezza. Se c’è un insegnamento molto utile all’apprendimento che ho tratto dal mio mestiere trentennale di docente è che, a volte, si aiuta di più non aiutando. Lo chiamo insegnamento per sottrazione.
Questo principio vale anche per la solidarietà: nella gran parte dei casi la solidarietà, offerta amorevolmente, aiuta, rafforza, unisce, solidifica i rapporti, altre volte però, anche se capita di rado, proprio perché guidati dalla stessa intenzione amorevole di aiutare l’altro, sarebbe meglio non compiere quel gesto di solidarietà che noi e l’altro istintivamente vorremmo: a volte si è più solidali evitando gesti di solidarietà.
Il principio dell’aiutare per sottrazione vale anche per altri comportamenti che fanno riferimento all’amore, come ad esempio, la generosità, la cura, l’aiuto, l’amicizia, la gentilezza, l’altruismo, il donarsi, l’empatia, la compassione, la bellezza, l’arte, la poesia... Ogni gesto d’amore, sia esso di solidarietà, generosità, cura, aiuto, gentilezza, artistici… potrebbe rivelarsi dannoso, essere nocivo, persino uccidere, se non fosse coniugato alla consapevolezza.
Agire verso noi stessi e l’altro con amore consapevole – che in sé racchiude tutti i gesti d’amore – è l’atto più intimamente umano che possiamo compiere come specie, nei confronti di tutte le altre specie animali e vegetali, così come nei confronti del nostro pianeta e dell’intero cosmo. Nell’amore consapevole c’è, intimamente, tutta l’arte e la poesia che può esprimere e percepire il nostro essere umani.
[1] Bolaño Roberto (2009), I detective selvaggi, Palermo Sellerio, p. 220.
[2] Poetry Therapy Italia (luglio 2023), Biblio/Posiaterapia quale etica?, n. 8, Monza: Mille Gru.
[3] Poetry Therapy Italia (novembre 2022), Quali parole curano?, n. 7, Monza: Mille Gru.
[4] Alighieri Dante (2020), La Divina Commedia, Bagno a Ripoli (FI): Le Lettere, p. 214.
[5] Montale Eugenio (1973), Diario del ’71 e del ’72, Milano: Mondadori.
[6] Benedetti Fabrizio (2018), La speranza è un farmaco. Come le parole possono vincere la malattia, Milano: Mondadori.
[7] https://www.treccani.it/enciclopedia/tossicologia/, consultato il 29 dicembre 2023.
[8] Paracelso arriva alla conclusione che: “Omnia venenum sunt: nec sine veneno quicquam existit. Dosis sola facit, ut venenum non fit.” (Tutto è veleno: nulla esiste di non velenoso. Solo la dose fa in modo che il veleno non faccia effetto.) In Elf Traktate von Ursprung, Ursachen, Zeichen und Kur einzelner Krankheiten (Undici trattati sull’origine, le cause, i sintomi e la cura di singole malattie), 1520.
[9] Il bastone presenta in alto due ali, una per lato, simbolo di Mercurio.
[10] Va detto a integrazione per completezza e correttezza d’informazione che: “Originariamente questo serpente era situato sul bastone di Asclepio (simbolo della medicina, con un solo serpente avvolto), (...) utilizzato (...), per esempio nel simbolo dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.” Da: https://it.wikipedia.org/wiki/Caduceo, consultato il 29 dicembre 2023.
[11] Parini Giuseppe (1975), Le Odi, Milano: R. Ricciardi.
[12] Lacchini Angelo, Toscani Claudio (2001), Figlia del tuo Figlio. Poesie mariane dal Duecento ad oggi, Castelleone (CR): Arti Grafiche 2002.
[13] Ejzenštejn Sergej Michajlovič (1992), La natura non indifferente, Venezia: Marsilio, p. 37.
[14] Grotowski Jerzy (1970), Per un teatro povero, Roma: Bulzoni Editore, p. 59.
[15] Ho approfondito questa trasmutazione nel seguente studio: Bulfaro Dome (2023), “La poesia che si dice. Dal corpo musicale all‟essere poesia”, nella rivista “Ulisse”, Poesia e musica oggi (dal secondo Novecento al presente), n. 26, novembre/dicembre 2023, pp. 355-365.
[16] Horney Karen (1950), Neurosis and HUman Growth. Neurosis and HUman Growth. The Struggle Toward Self-Realization, New York: W. W. Norton & Co.
[17] Yalom I. D. (2018), Il dono della terapia, Vicenza: Neri Pozza.
[18] Achmatova Anna Andreevna (1992), “Ultimo Brindisi” (trad. di Michele Colucci) da La corsa del tempo, Torino: Einaudi, p. 123.
Bibliografia essenziale
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Dome Bulfaro (1971), poeta, esperto di poesiaterapia, si dedica alla poesia (di cui sente un servitore) ogni giorno dell’anno. È tra i più attivi e decisivi nel divulgare e promuovere la poesia performativa; ed è il principale divulgatore in Italia della poetry therapy/poesiaterapia. Dal 2021 è docente di Poesiaterapia e Lettura espressiva poetica presso l’Università degli Studi di Verona, nel pionieristico Master in Biblioterapia. Nel 2013 ha ideato e fondato con C. Sinicco e M. Ponte la LIPS - Lega Italiana Poetry slam. Nel 2023, ha ideato e fondato con M. Dalla Valle. P. M. Manzalini e I. Monge la BIPO - Associazione Italiana Biblioterapia e Poesiaterapia, prima associazione di categoria. Ha fondato e dirige Poetry therapy Italia (2020), rivista di riferimento della Poesiaterapia italiana. Ha fondato e dirige (con Simona Cesana) PoesiaPresente – Scuola di Poesia (2020) performativa, scrittura poetica e poesiaterapia. www.domebulfaro.com
(Foto Dino Ignani)
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