In questo breve articolo il Dott. Paolo Maria Manzalini mette in risalto alcune delle questioni che discendono dal tentativo di definire la specificità dell’essere umano, a partire dal linguaggio e il cervello per approdare al perché “è importante riflettere sul fatto che se usate bene le parole curano”.
Nella nostra vita quotidiana molti dei processi e delle abilità che ci definiscono e ci caratterizzano vengono espressi in modo automatico, senza che noi ci soffermiamo a verificarne i meccanismi e il loro divenire. Vedere, respirare, stringere la mano a qualcuno o abbracciare, sono fatti e modalità che caratterizzano l’esperienza di miliardi di esseri umani, e di ciascuno di noi. Vediamo e talvolta guardiamo, respiriamo e capita che ci sentiamo il petto che si espande e si vorrebbe riempire d’aria, ancora e ancora. Stringiamo mani e abbracciamo persone care senza chiederci i passaggi necessari per rendere possibili queste azioni e soprattutto senza soffermarci sugli effetti che queste modalità relazionali innescano su di noi e sul nostro interlocutore.
Negli ultimi duecento anni la Scienza ha studiato con curiosità e passione il funzionamento degli esseri umani e in particolare il ruolo del cervello per cercare di comprendere i meccanismi che sottostanno a tutte quelle caratteristiche peculiari che fanno dell’uomo un abitante particolare del pianeta. Molto particolare potremmo dire, visto che nella storia evolutiva è riuscito a differenziarsi grandemente da tutte le altre specie viventi.
In questo breve articolo intendo mettere in risalto, senza nessuna pretesa di approfondimento, alcune delle questioni che discendono dal tentativo di definire la specificità dell’essere umano.
Cercando di evitare radicalismi o posizioni esageratamente parziali, cercherò anche di anticipare come al crocevia delle molte prospettive che hanno sospinto la ricerca su queste questioni ci sia la parola. Anche la parola è una delle competenze che quotidianamente adoperiamo in modo continuo e automatico, senza che ci soffermiamo tutte le volte non tanto sui meccanismi che la generano ma soprattutto sugli effetti che essa produce quando entra nel sistema sensoriale, nella percezione e nella rielaborazione cognitiva ed emozionale di chi ascolta.
Cosa caratterizza la specie umana più di ogni altra specificità?
Per molti secoli si è cercato di rispondere a questa domanda secondo un approccio filosofico o teologico. La Scienza ha più recentemente cercato di trovare la differenza tra l’uomo e gli altri esseri viventi cercando la specificità nelle strutture somatiche, senza però addivenire a risultati dirimenti.
Anche l’analisi delle strutture cerebrali non aiuta a chiarire alcuni degli aspetti peculiari della nostra specie. Coscienza, memoria, emozioni sono difficilmente comprensibili e spiegabili se ci si limita ad una analisi strutturale. La questione cambia se si entra in un approccio, potremmo dire sistemico, che si focalizza sui processi neurali.
Nel 2020 Gerald M Edelman e Giulio Tononi nel loro volume Un universo di coscienza scrivono:
«Se vogliamo svelare i meccanismi neurali della coscienza sarà per noi utile avere chiara la distinzione tra coscienza primaria e coscienza di ordine superiore. La coscienza primaria si riscontra in animali dotati di alcune strutture cerebrali simili alle nostre. Essi sembrano capaci di costruire una scena mentale, ma possiedono limitate capacità semantiche o simboliche e mancano di un vero linguaggio. La coscienza di ordine superiore (sbocciata negli esseri umani, e che presuppone la coesistenza della coscienza primaria) è associata a un senso del sé e alla capacità nello stato di veglia di costruire esplicitamente scene passate e future. La coscienza di ordine superiore richiede come requisito minimo una capacità semantica e, nella sua forma più sviluppata, una capacità linguistica.»
Il viaggio che i due Autori descrivono all’interno della complessità di strutture, connessioni e processi per spiegare cosa siamo non è sintetizzabile. Basti dire che è un contributo molto interessante che aiuta a capire i presupposti del funzionamento neurale che portano in evidenza come il linguaggio, e in particolare la parola, siano le competenze che maggiormente distinguono l’uomo dalle altre specie viventi.
La distinzione tra linguaggio e parola è d’obbligo poiché citando l’Enciclopedia on line Treccani si capisce come
«La capacità di comunicare (cioè di individuare stati dell’esperienza collegandoli a variazioni dello stato di un mezzo fisico nell’ambito di un codice) non è privilegio esclusivo dell’uomo: oggi conosciamo un numero crescente di diversi codici di comunicazione che vengono adoperati dalle più varie specie di animali.»
Solo la specie umana ha sviluppato la capacità di generare parole.
Sverker Jhoansson, consulente senior presso l’Università di Dalarna in Svezia, è uno scienziato eclettico che, laureatosi in Fisica ha collaborato come ricercatore al CERN in Svizzera, decidendo successivamente di occuparsi di linguistica e in un recente saggio porta in evidenza che:
«Le scimmie non sono capaci di imitare i suoni, dunque nemmeno di parlare. Questo dipende in buona misura dal fatto di avere un controllo soltanto indiretto sulla fonazione. Normalmente, l’apparato fonatorio dei mammiferi è governato da un modulo cerebrale molto piccolo, ben sepolto fra le parti più antiche dell’encefalo. Questo modulo è preprogrammato per produrre i normali versi dell’animale in questione, e non lascia alcuno spazio di manovra alla creazione di nuovi suoni. L’unica cosa che l’animale può fare, più o meno intenzionalmente, è inviare segnali a questo modulo sonoro affinché esso comandi all’apparato fonatorio di produrre uno o l’altro dei suoi versi preimpostati.»
A confondere le carte lo stesso Jhoansson dà una descrizione sintetica e chiara di come la mente umana sia predisposta al linguaggio per la sua capacità di mettere in connessione la creazione di parole con il concetto che ne definisce il significato. Quest’ultimo non è altro che qualcosa che vive nella nostra mente ma che è collegato a qualcosa che è al di fuori di noi. Questo vale sia per concetti riferiti a cose concrete che per quelli che riguardano categorie più generali. Nel descrivere come la costruzione di un linguaggio verbale necessiti di una continua correlazione tra concetto e parola che lo rappresenta, egli sottolinea l’importanza dell’off-line thinking (che potremmo tradurre con l’espressione di pensiero scollegato) che indica le rappresentazioni mentali di cose che non sono presenti nel qui e ora. Sebbene questa capacità sia presente in forma limitata anche in diverse specie animali, tuttavia egli mette in evidenza come solo nella specie umana questa competenza si sia sviluppata la opportunità di scambiare concetti tra simili, con la necessità di definire i concetti attraverso delle “etichette” che sarebbero poi le parole. L’uomo sarebbe arrivato a costruire la sua competenza comunicativa linguistica basata sulla parola grazie alle sue competenze di rappresentazione della realtà attraverso la concettualizzazione e grazie alla capacità fonatoria di creare parole condivisibili attraverso la imitazione di suoni.
Un punto di incrocio interessante per capire l’importanza del linguaggio verbale e quindi della parola è quello che interconnette coscienza, memoria e condivisione dei concetti. Facendoci aiutare ancora da Edelman e Tononi possiamo considerare, in raffronto alle altre specie animali, che
«... l’animale ha un’individualità biologica, ma non un vero sé, un sé consapevole di se stesso. Esso, benché possieda un “presente ricordato”, sostenuto in tempo reale dal nucleo dinamico, è privo di un concetto del passato o del futuro. Questi concetti sono emersi solo quando le facoltà semantiche – le capacità di esprimere i sentimenti e di riferirsi a oggetti ed eventi con mezzi simbolici – hanno fatto la loro comparsa con l’evoluzione. La coscienza di ordine superiore include di necessità le interazioni sociali. Quando tra gli antenati di Homo sapiens comparve una piena facoltà linguistica basata sulla sintassi, maturò la coscienza di ordine superiore, in parte esito di scambi in una comunità di locutori. I sistemi sintattici e semantici ci hanno fornito un nuovo strumento per la costruzione simbolica e per un nuovo tipo di memoria, mediatrice della coscienza di ordine superiore. Divenne possibile la coscienza della coscienza.»
I ricercatori evidenziano l’importanza di uno specifico schema di connessioni rientranti tra i neuroni dei sistemi cerebrali del linguaggio e le preesistenti regioni concettuali del cervello.
Potrebbe sembrare che queste ricostruzioni si soffermino su aspetti specialistici che interessano o i fisiologi o i linguisti più inclini alla ricerca. In realtà capire come si è strutturata la competenza linguistica nella nostra specie è presupposto importante per comprendere come mai la parola sia efficace per sostenere o recuperare il benessere delle persone. E questo riguarda la quotidiana esperienza di ciascuno di noi, se consideriamo quello che avviene nelle relazioni sia naturali come quelle tra un genitore e un figlio, sia quelle che si determinano nei processi educativi o quelle che caratterizzano gli interventi di quanti fanno una professione di aiuto.
Dalle neuroscienze e dalla psicolinguistica scopriamo che la relazione fondamentale in uno scambio linguistico è tetradica: i quattro elementi coinvolti sono di almeno due individui che comunicano, un simbolo (ad esempio la parola) e un oggetto (dove quest’ultimo va inteso in senso ampio, potendo essere anche un evento o una esperienza emozionale). La costruzione di un lessico stabile e dotato di significato dipende dalla stabilità dell’oggetto. Nel cervello di ciascuno le connessioni possono essere variabili e così pure i simboli possono essere arbitrari. Ma se l’oggetto della comunicazione è stabile, si stabilirà una connessione duratura nel cervello di ciascuno tra quell’oggetto e il simbolo che noi gli associamo. L’efficacia comunicativa ha bisogno della comprensibilità condivisa per cui se si pronuncia la parola “casa” ciascuno di noi la riconosce come simbolo che viene collegato ad un oggetto e cioè la concettualizzazione di un edificio eretto dagli umani per abitarvi. Tuttavia le considerazioni appena fatte su arbitrarietà del simbolo e la variabilità delle connessioni neuronali all’interno del cervello di ciascuno, portano a considerare che le parole in quanto tali non sono né buone né cattive.
Questo perché nella esperienza umana la comunicazione verbale non attiene solo al significato attribuito dalle aree corticali al simbolo/parola. La parola, soprattutto parlata, una volta che entra nel campo esperienziale di un individuo segue strade multiple, come avviene per tutti gli stimoli sensoriali. Qualunque stimolo ci giunga, che sia un lampo o il boato di un’esplosione, che sia una improvvisa fiammata che divampi davanti a noi, un odore, o il sapore di un alimento portato alla bocca, l’essere umano ne fa sicuramente una ricostruzione attraverso le specifiche aree corticali che sono il capolinea cognitivo delle vie sensoriali. Limitandoci alla prima esemplificazione, quando il nostro occhio rileva lo stimolo luminoso del lampo nell’oscurità del cielo notturno, sicuramente si arriva alla decodifica razionale che i fenomeni atmosferici possono determinare la scarica di cariche elettriche che portano a radiazioni luminose che generano anche calore. Tuttavia gli stimoli sensoriali in modo non ancora del tutto chiaro per ciascun stimolo, vanno a determinare attivazioni lungo circuiti che non sono univocamente diretti alla parte corticale, che è quella più evoluta e specie-specifica del nostro cervello.
Per capire questi passaggi è sufficiente accennare nella brevità di questo contributo che il cervello è stato per lungo tempo descritto come una struttura tripartita, dettata dai passaggi evolutivi che hanno visto nei salti progressivi dalle specie più semplici fino a quella umana l’integrazione di tre livelli di organizzazione. Secondo questa teoria, il cui massimo esponente è il neuroscienziato statunitense Paul McLean (1913-2007), si parla di cervello rettiliano, cervello limbico o mesencefalo e neocorteccia. Sebbene questa teorizzazione così nettamente centrata su aspetti strutturali sia destinata ad essere superata dalle più moderne acquisizioni delle neuroscienze, essa può aiutare a ridimensionare la tendenza a sopravvalutare la priorità della parte corticale che è quella che maggiormente ci distingue dalle altre specie. Il cervello rettiliano è quello che ha la funzione di garantire la sopravvivenza: agisce rapidamente, in automatico senza aspettare le più lente elaborazioni corticali. Il cervello limbico che caratterizza le specie che appartengono alla classe dei mammiferi, viene considerato il centro della vita emozionale e serve a regolare le relazioni interpersonali. La neocorteccia è coinvolta nei processi di integrazione delle informazioni e sarebbe la sede delle funzioni cognitive avanzate.
La parola parlata è uno stimolo uditivo che colpisce le cellule sensoriali dell’orecchio. Prima di giungere ai neuroni della corteccia lo stimolo passa da stazioni intermedie che sono di fatto dislocate in tutti i livelli della descrizione tripartita alla quale facevamo riferimento. Infatti il primo passaggio avviene mediante il nervo acustico ad una prima stazione collocata in una struttura che appartiene al cervello rettiliano che si chiama midollo allungato. Le cellule di questa prima stazione trasportano l’informazione ad una struttura del cervello limbico (collicolo inferiore del mesencefalo) e da qui ad una seconda stazione mesencefalica che è il corpo genicolato mediale (definita anche come talamo uditivo). Queste due stazioni intermedie appartengono alla porzione del cervello che si occupa della modulazione emozionale che avviene per lo più in maniera inconscia e senza il controllo corticale. Solo dopo questo passaggio la nostra parola giunge ai neuroni della corteccia. Qui si individuano le aree uditive. Questo percorso, che potrebbe sembrare un viaggio lungo e tortuoso, avviene in frazioni millesimali di secondo. Tuttavia comporta che le parole hanno la possibilità di determinare effetti anche molto diversi. Per essere espliciti e puntuali possiamo sottolineare che gli effetti paraverbali (come ad esempio il tono e il volume con cui la parola viene enunciata) possono determinare automaticamente delle risposte attivate dalle strutture del cervello rettiliano che condizionano ad esempio la frequenza cardiaca o la velocità degli atti respiratori. Ma soprattutto nelle stazioni del mesencefalo la parola può determinare un’attivazione emozionale che è sostanzialmente preconscia e legata alle esperienze individuali che sono associate a quel dominio concettuale. Infine la parola giunge alla corteccia e lì avviene una rielaborazione cognitiva rigorosa, creativa e cosciente. Questa descrizione non deve trarre in inganno per la sua linearità dal momento che la struttura del cervello è caratterizzata da connessioni circolari e non solo da connessioni unidirezionali. Le strutture appena descritte in modo assai sintetico sono collegate tra loro e con altre da circuiti neuronali, i quali formano una rete intricata in grado di favorire il rientro di uno stimolo attraverso una struttura che è già stata attraversata da quella informazione. La parola casa non determina effetti univoci nell’ascolto di ciascuno di noi dal momento che il collegamento concettuale è sì nitido, ma i meccanismi di funzionamento del nostro cervello permettono una rielaborazione soggettiva che è molto variabile, all’interno dei processi che determinano la coscienza di ordine superiore tipica della specie umana ma poi differenziata in ogni individuo della specie. Se facciamo riferimento alla parola casa, è indubbio che essa sia una etichetta comprensibile rispetto al concetto di struttura eretta dall’uomo per abitarvici. Ma se ad ascoltarla sono i membri di una coppia che a breve andrà a vivere insieme l’effetto emozionale sarà diverso da quello che potremmo evocare parlando di casa ad una coppia di anziani che vivono da sette anni in una casa prefabbricata perché la loro è andata distrutta dal terremoto.
Le attivazioni emozionali sono di pertinenza del cervello limbico e ad esso gli stimoli sensoriali, e dunque anche le parole, giungono prima di arrivare alla neocorteccia, ma ad esso lo stimolo può ritornare anche dopo essere stato processato dalla corteccia. La base scientifica di queste specificità umane sono descritte in un libro molto interessante per lo stile divulgativo, rigoroso e affascinante nel contempo, scritto da Joseph LeDoux quasi trent’anni fa e che si intitola Il cervello emotivo.
In conclusione, nel prendere atto della complessità dei meccanismi del cervello umano, dobbiamo riconoscere che le parole non sono chiavi che aprono singole serrature. Piuttosto si tratta di passepartout che aprono la strada a livelli di consapevolezza non solo cognitiva, ma anche emotiva, e persino di attivazione fisica e motoria. Per questo diciamo che le parole di per sé non sono né “buone” né “cattive”, ma non possiamo neanche dire che siano “neutre”. Di fatto le parole entrano a interagire con il nostro universo di coscienza e nel farlo possono ferire o creare disagio, ma hanno anche la benedetta funzione riparatrice, cioè di innescare processi correttivi, riparativi, rigeneratori. Per questo è importante riflettere sul fatto che se usate bene le parole curano.
Paolo Maria Manzalini (Napoli 1963) medico, psicologo clinico, psicoterapeuta si occupa di cura e riabilitazione psichiatrica dal 1992, prima in contesti residenziali e da dieci anni in contesti territoriali. Attualmente Responsabile della Struttura Semplice dell’Area Territoriale Psichiatrica della ASST di Vimercate. Promotore con l’Equipe del CPS di Vimercate della rassegna Far Rumore – Azioni per la salute mentale. Da sempre attento alla parola come fondamento dell’incontro e della comunicazione tra gli umani, negli ultimi cinque anni ha ripreso ad approfondire l’espressione teatrale e ha preso parte alla edizione 2017-18 del Corso di TeatroPoesia condotto da Domenico Bulfaro presso il Teatro Binario 7 di Monza. Responsabile Comitato Scientifico di Lì sei vero – Festival Nazionale di Teatro e Disabilità.
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