A cura di Dome Bulfaro
Rachel McKibbens è una poetessa americana di Santa Ana, California. Nel 2013 compie un intervento in una video puntata di TEDx, sul tema della Poesia come terapia. Il presente articolo è la trascrizione e traduzione in italiano di tale intervento.
Rachel McKibbens è una poetessa americana di Santa Ana, California. Nel 2013 compie un intervento in una video-puntata di TEDx, sul tema della Poesia come terapia. Come dice la descrizione che accompagna il video “Rachel unisce la sua storia personale con la sua spoken word poetry per spiegare come la pratica di condividere le proprie parole scritte, ad alta voce, in un ambiente sicuro, incoraggiante, che ti sostiene, rappresenti una inestimabile esperienza di catarsi e di ri-organizzazione emotiva e intellettuale”. (db)
Video da cui è tratto l’articolo
Poetry as Therapy: Rachel McKibbens
TEDX FlourCity
Video Caricato il 2 ago 2013
https://www.youtube.com/watch?v=xcgKRJYu-5I
Trascrizione e traduzione del monologo di Rachel McKibbens
Vi racconterò qualcosa su di me. Ci sono giorni in cui sono completamente incapace di gestire una perdita. Inoltre, convivo con un disturbo bipolare e con un disturbo scaturito da uno stress post traumatico, quindi, non ho una normale risposta allo stress. Il lobo frontale della mia corteccia cerebrale invia gli stessi segnali di angoscia per una semplice seccatura come per una catastrofe. Poiché ho vissuto un'infanzia estremamente violenta sono costantemente impegnata a schivare i fattori scatenanti che potrebbero potenzialmente trascinarmi in una lunghissima e buia tana da coniglio.
A volte, qualcosa, un fatto banale come potrebbe essere quello di perdere le chiavi della macchina, mi fa desiderare di morire; una parte di me classifica questa idea come irrazionale, sono conscia che le chiavi verranno ritrovate e la mia vita potrà continuare, nel profondo dei miei macchinari difettosi so che questo è vero.
Entrambi i miei genitori soffrono di depressione. Mia madre, che mi ha abbandonata, ha iniziato a soffrire di deliri paranoici poco dopo la mia nascita e nessuno dei miei genitori mi ha mai parlato della propria condizione. Non sapevo nemmeno che esistesse un nome per questo disturbo.
Nel 2001, quando ho iniziato a leggere e a scrivere poesie, ho scoperto una poesia di Anne Sexton intitolata In attesa di morire. In questa poesia la Sexton scriveva che i suicidi hanno un linguaggio speciale, come quello dei falegnami che vogliono solo sapere quali siano gli attrezzi da utilizzare, senza chiedersi mai il perché del costruire (N. d. R.: But suicides have a special language. / Like carpenters they want to know which tools. / They never ask why build.)
Lessi quella frase più e più volte come se fosse una preghiera, finché il mio corpo non si riempì di quell'elettricità che si prova quando ci si riconosce in un'altra persona.
Finalmente avevo trovato qualcuno che parlava correntemente quella lingua malvagia che io parlavo, qualcuno che poteva convincermi a rimanere su questo pianeta, qualcuno con un cervello altrettanto terrificante.
Avevo letto molti libri, ma non avevo mai trovato nessuno che scrivesse in modo così franco, così onesto e spudorato della malattia mentale e del sesso, non solo dandogli un nome, ma dandogli una voce; la sua era la lingua che avevo nel sangue, e non è forse questo lo scopo di esprimere se stesso, liberare nostre canzoni più dolci o più oscure nell'etere, sperando che qualcuno da qualche parte riconosca la canzone esattamente come è stata cantata?
Negli Stati Uniti l'espressione di sé è lodata come il percorso verso la libertà illuminata, la celebrazione definitiva del nostro io più irrinunciabile e brillante; ma se volessimo parlare di espressione di sé dovremmo anche riconoscere che la cultura della vergogna permea le forme alternative di auto-espressione, in particolare, si insinua in quelle voci che sono state sepolte sotto lo stigma della malattia mentale e da decenni di silenzio, imposto inconsciamente, come è successo con la Sexton, audace poetessa confessionale, mio cervello e mio cuore più vero, che si è uccisa un anno prima che io nascessi. Aveva due bellissimi figli, un talento straordinario grazie al quale ha vinto un premio Pulitzer, e ha commesso una delle peggiori forme di espressione di sé che un essere umano possa compiere, un gesto che capisco, che vorrei non avesse fatto, ma che capisco.
Nel 2004 sono diventata insegnante di scrittura creativa in una scuola superiore di Manhattan, situata all'interno di una delle più famigerate strutture di salute mentale della nazione. Tutti gli studenti avevano una qualche forma di malattia mentale e molti di loro sono stati abbandonati dalle famiglie e sono stati costretti a vivere in case di accoglienza per bambini o rifugiati. La mia unica missione era quella di far uscire questi studenti dalla nebbia dei farmaci che gli erano stati prescritti, li angosciavano con antipsicotici e antidepressivi per fargli venire voglia di scrivere poesie.
Semplice:
oh, ciao classe all’apice dello stress da adolescenti, che di tutto questo mondo hai sperimentato gli orrori indotti, così come tutti i sentimenti legati all’isolamento, e che sei costretta a frequentare una scuola superiore in un ambiente ospedaliero, vorrei che scrivessi una poesia sui tuoi sentimenti!
– Ehi, Prof, non so come si scrive una poesia...
– Ok
– Non voglio scrivere una poesia, okay? Odio le poesie.
– Ok
– Ti odio
– Ok
– Voglio che il mio testo sia pieno solo di parolacce
– Ok
– Non leggerò mai la mia poesia ad alta voce di fronte a nessun altro
– Ok
– Voglio scrivere quanto odio mia mamma
– Ok
– Voglio scrivere quanto vorrei essere morto vorrei essere morto vorrei essere morto vorrei essere morto vorrei essere morto, settanta volte sul fronte e sul retro di questa pagina
– Ok
– Voglio scrivere come ci si sente a essere a pezzi
– Ok
– Voglio scrivere come ci si sente a scrivere di come ci si sente a essere a pazzi
– Ok
– Voglio dare un nome al mio dolore. Voglio dargli il nome di mia nonna
– Ok
– Voglio scrivere che quando avevo due anni non smettevo di piangere e mio padre mi ha scosso così tanto da farmi cadere il cervello. Voglio scrivere che quando andavo a trovarlo non riusciva mai a guardarmi negli occhi
– Ok
– Voglio scrivere di come mio zio mi ha violentata
Voglio scrivere di come mi manca vivere a casa mia
Voglio scrivere che stanotte dormirò nel mio letto
Voglio essere una persona normale in questa poesia
Voglio essere una persona normale
Voglio essere una persona
Per quattro anni ho lodato questi studenti per il loro coraggio e la loro grinta, spronandoli a scrivere ciò che è successo o ciò che avrebbero voluto fosse accaduto, immaginando di raccontarlo e liberarlo.
Nell'ultimo anno scrivevano poesie fuori dalla classe, stormi di strofe uscivano dai loro zaini quando suonava la campanella della scuola. Si sedevano insieme e scrivevano esprimendo ogni perdita, ogni paura, ogni gioia, ogni confusione e amore che riuscivano a scoprire. Avevano creato questo spazio dove le loro idee erano sostenute, a volte contestate, a volte addirittura incomprese, ma sempre rispettate. Avevano immaginato la loro via d'uscita dalla perdita dandole il nome che le spettava. Alcuni di loro sono morti otto volte in una poesia: meglio morire otto volte sulla pagina e una volta sola nella vita reale. Le mutevoli dimensioni della luna diventavano una metafora del perdono. Alcuni di loro, in quattro anni, non hanno mai letto ad alta voce un solo rigo scritto, ma almeno hanno scritto. Non ho insegnato loro nulla che non potessi insegnargli.
Hanno rinunciato alla vergogna e si sono dati il permesso di esprimere cose che mi ammutolivano e terrorizzavano al punto di generare fantasie segrete di suicidio che si andavano ad accumulare dentro di me. Hanno imparato a darsi un linguaggio appropriato per esistere, si sono permessi di esistere al di là della loro malattia, affrontandola, riconoscendola, accettandola. Mi hanno spodestata come insegnante, diventando agili e consapevoli nell’utilizzo della lingua dei vivi. Alleluia!
Due anni fa ero seduta nel mio salotto e guardavo il cursore del mio computer che lampeggiava come un semaforo difettoso. Non scrivevo una poesia da nove mesi. Non tenevo un corso di poesia da anni. Volevo darmi un compito. Volevo scrivere solo qualcosa di reale, qualcosa di vero. Così dissi a Rachel: scrivi solo qualcosa che sai, ma che non hai mai raccontato.
Questa poesia è dedicata agli studenti e ai poeti della PS 811.
Mi dispiace che mi ci siano voluti sei anni per comprendere le lezioni che mi avete insegnato.
I. Letter From My Heart to My Brain
It's okay to hang upside-down like a bat,
to swim into the deep end of silence,
to swallow every key so you can’t get out.
It’s okay to hear the ocean calling your fevered name
to say your sorrow is an opera of snakes,
to flirt with sharp and heartless things.
It’s okay to write, I deserve everything,
to bow down to this rotten thing
that understands you, to adore the red
and ugly queen of it, to admire
her calm and steady rowing.
It’s okay to lock yourself in the medicine cabinet,
to drink all the wine, to do what it takes to stay
without staying. It's okay to hate God today
to change his name to yours, to want to ruin all that ruined you.
It’s okay to feel like only a photograph of yourself,
to need a stranger to pull your hair and pin you down,
it’s okay to want your mother as you lie alone in bed.
It’s okay to brick to fuck to flame to church to crush to knife
to rock to rock to rock to rock to rock and rock.
It’s okay to wave good-bye to yourself in the mirror.
To write, I don’t want anything.
It’s okay to despise what you have inherited,
to feel dead in a city of pulses. It’s okay
to be the whale that never comes up for air,
to love best the taste of your own blood.
II. Letter From My Brain To My Heart
This house is dirty, but comfortable.
Behind each crooked door
waits the angry weather of a forgiveless child.
I cannot help but admire this horrible
power of mine, how each small thing
can become a death: the lost house key. A spoiled egg.
A howling dog. There is no prayer or pill for this.
It is a ruthless botany; I might as well
be buried in the yard. I have no one to blame.
Not the mother who sang to an empty cradle.
Not the Dog of Spite who bit my hand,
just this long-legged sorrow
who trails my every joy like a dark perfume.
You have my permission not to love me;
I am a cathedral of deadbolts
and I’d rather burn myself down
than change the locks.
I. Lettera del mio cuore al mio cervello
Va bene appendersi a testa in giù come un pipistrello,
nuotare nel profondo del silenzio,
ingoiare ogni tasto per non poterne uscire.
Va bene sentire l'oceano che chiama il tuo nome febbricitante
dire che il tuo dolore è un'opera di serpenti,
flirtare con cose taglienti e senza cuore.
Va bene scrivere: "Mi merito tutto",
inchinarsi a questa cosa marcia
che ti capisce, per adorare la sua rossa
e brutta regina, per ammirare
la sua calma e costante voga.
Va bene chiudersi nell'armadietto dei medicinali,
bere tutto il vino, fare ciò che serve per restare
senza restare. Va bene odiare Dio oggi
cambiare il suo nome con il tuo, voler rovinare tutto ciò che ti ha rovinato.
Va bene sentirsi solo una fotografia di se stessi,
avere bisogno di un estraneo che ti tiri i capelli e ti immobilizzi,
va bene desiderare tua madre mentre sei solo a letto.
Va bene fare mattoni, scopare, fiammeggiare, andare in chiesa, schiacciare, accoltellare.
to rock, to rock, to rock, to rock, to rock, to rock.
Va bene salutare se stessi allo specchio.
Scrivere: "Non voglio niente".
Va bene disprezzare ciò che si è ereditato,
sentirsi morti in una città di pulsazioni. Va bene
essere la balena che non viene mai a galla,
amare al meglio il sapore del proprio sangue.
II. Lettera del mio cervello al mio cuore
Questa casa è sporca, ma confortevole.
Dietro ogni porta storta
aspetta il tempo rabbioso di un bambino senza perdono.
Non posso fare a meno di ammirare questo mio orribile
mio potere, come ogni piccola cosa
può diventare una morte: la chiave di casa persa. Un uovo rovinato.
Un cane che ulula. Non ci sono preghiere o pillole per questo.
È una botanica spietata; potrei anche
essere sepolto in giardino. Non ho nessuno da incolpare.
Non la madre che ha cantato per una culla vuota.
Non il cane del disprezzo che mi ha morso la mano,
solo questo dolore dalle gambe lunghe
che segue ogni mia gioia come un profumo scuro.
Hai il mio permesso di non amarmi;
Sono una cattedrale di catenacci
e preferirei bruciarmi
piuttosto che cambiare le serrature.
Questa poesia è tratta da:
Poesie per ragazze di grazia e di fuoco
Poete autrici: Karen Finneyfrock, Rachel Mckibbens, Mindy Netttifee.
Traduzione di Eugenia Galli e Tommaso Galvani.
Rizzoli, 2018.
Waiting to Die di Anne Sexton
https://www.poetryfoundation.org/poems/42567/wanting-to-die
Voler morire
di Anne Sexton
Visto che me lo chiedi, la maggior parte dei giorni non riesco a ricordare.
Cammino con i miei vestiti, non segnati da quel viaggio.
Poi torna la brama quasi innominabile.
Anche allora non ho nulla contro la vita.
Conosco bene i fili d'erba di cui parli,
i mobili che hai messo sotto il sole.
Ma i suicidi hanno un linguaggio speciale.
Come i falegnami, vogliono sapere quali attrezzi.
Non chiedono mai perché costruire.
Due volte mi sono dichiarato così semplicemente,
ho posseduto il nemico, mangiato il nemico,
ho assunto il suo mestiere, la sua magia.
In questo modo, pesante e riflessivo,
più caldo dell'olio o dell'acqua,
ho riposato, sbavando dal buco della bocca.
Non ho pensato al mio corpo nel momento dell'ago.
Anche la cornea e i resti di urina erano spariti.
I suicidi hanno già tradito il corpo.
Nati morti, non sempre muoiono,
ma abbagliati, non riescono a dimenticare una droga così dolce
che anche i bambini guardavano e sorridevano.
Spingere tutta quella vita sotto la lingua!
Questo, da solo, diventa una passione.
La morte è un osso triste; ammaccato, si direbbe,
eppure mi aspetta, anno dopo anno,
per sciogliere così delicatamente una vecchia ferita,
per svuotare il mio respiro dalla sua cattiva prigione.
In equilibrio lì, i suicidi a volte si incontrano,
che si infuriano per il frutto di una luna pompata,
lasciando il pane che hanno scambiato per un bacio,
lasciando la pagina del libro sbadatamente aperta,
qualcosa di non detto, il telefono staccato
e l'amore, qualunque cosa fosse, un'infezione.
Anne Sexton, "Wanting to Die" da The Complete Poems of Anne Sexton (Boston: Houghton Mifflin, 1981). Copyright © 1981 di Linda Gray Sexton e Loring Conant, Jr. Ristampato con il permesso di Sterling Lord Literistic, Inc.
Fonte: The Complete Poems of Anne Sexton (Houghton Mifflin Harcourt, 1981).