Andrea Tavernati, compositore di haiku, si domanda se la sua frequentazione periodica quanto esclusiva di questa forma poetica sia stata per lui autoteraputica. L’autore racconta del “senso di liberazione” che prova, della propria “sensazione di benessere interiore” che in lui “nasce dalla percezione di compiere, contemporaneamente, un doppio movimento: di sprofondamento e di allontanamento”.
Dentro un haiku, in un tempo spoglio, sei vissuto da un te stesso che non ha età, assorto nell’istantaneo. Il primo inscindibile in cui puoi afferrare l’eterno ritorno del tutto.
Psicologi, psicoterapeuti, educatori e professionisti dell’ambito medico hanno già illustrato con la loro esperienza sul campo e con ampia ricchezza di riferimenti le azioni terapeutiche che la scrittura degli haiku può mettere in moto.
Io, che mi limito a essere un frequentatore periodico di questo genere poetico, posso solo riflettere se tale familiarità mi abbia portato dei benefici. Un’esperienza che forse può essere utile a chi voglia accostarsi a questo genere letterario con una curiosità, diciamo così, innocente, senza specifiche attese.
Da qui l’esigenza, in primo luogo, di mettere un punto di domanda in fondo al titolo di quest’articolo: non so dire quanto la scrittura di haiku mi “abbia fatto bene”, ma la sensazione che percepisco è che, in un periodo di haiku, cambino sia il modo con cui mi specchio dentro di me e quello con cui assorbo l’altro dentro di me.
Parlo di periodo di haiku, perché è un genere che richiede esclusivitá, almeno per me. Se scrivo haiku, non riesco a scrivere nient’altro. Viceversa, se mi dedico ad altre tipologie di scrittura creativa, non riesco a scrivere haiku.
Non credo si tratti di una distintivitá casuale: lo haiku innesca una sorta di facoltà percettiva particolare, diversa da quella richiesta dalla funzione narrativa, e anche dalla funzione poetica in senso più ampio.
Di tale innesco è massimamente responsabile la disciplina dello haiku, che combina l’estremo rigore metrico con l’esigenza, altrettanto estrema, di esprimere una visione nel modo piú conciso possibile. Proprio il voluto rispetto per la definizione della forma haiku, mi ha sempre portato a diffidare di chi appiccica tale nome a componimenti poetici molto ondivaghi nel numero di sillabe, nell’uso dei versi e perfino nel loro numero.
Percepire attraverso lo haiku vuol dire costringersi, prima di tutto, a una modalitá di ascoltare e comprendere nella quale ogni singola parola, ogni singolo fonema e ogni singola pausa assumono una pienezza di valore che è quanto di piú distante si possa immaginare dal flusso quotidiano della verbalitá, nella quale siamo immersi e che subiamo nostro malgrado.
Come già notava Roland Barthes in un celebre capitolo dell’Impero dei Segni, lo haiku nega il valore connotativo della parola, così invasivo nella mentalità occidentale, con il suo corteo di metafore, analogie, allegorie, riferimenti culturali e letterari.
Lo haiku si propone come un atto spontaneo e quasi istintivo. Un istante colto al volo, come una fotografia scattata per sbaglio, senza inquadrare volontariamente un dato soggetto. E più l’atto poetico è istintivo, più è autentico.
Da questi presupposti deriva la sconcertante semplicità di tanti haiku, che per un occidentale può sconfinare nella banalità. Quello che ci disorienta è una letteratura che non si propone entro il paradigma della letterarietà, ma che si definisce, coerentemente con lo zen da cui nasce, come “una via”, una delle tante, parallela alla cerimonia del tè, alla calligrafia, alla pittura, al teatro giapponese e alla spada del samurai.
Ma, proprio per la sua specificità, la funzione liberatoria dell’esercizio dello haiku è più evidente: spontaneità delle energie interiori e incanalamento nelle forme di una espressività chiusa.
La sensazione di benessere interiore che ne scaturisce nasce dalla percezione di compiere, contemporaneamente, un doppio movimento: di sprofondamento e di allontanamento.
Sprofondamento nell’identità delle cose che stanno dietro le parole. La selettività che lo haiku chiede, si concretizza in una scelta rigorosa dei significanti in quanto espressione di significati, che risuonano di una autenticità ritrovata: la parola ritorna “vergine” e ritrova tutta la forza evocatrice dei valori originari.
Allontanamento dall’invasività dell’io e quindi dal transitorio, dal contingente. Gli stati dell’essere evocati dallo haiku, pur essendo tradizionalmente connessi al succedersi delle stagioni, sono senza tempo.
Frammenti assoluti, che, nel momento stesso in cui circoscrivono schegge infinitesime del “mondo fluttuante”, le sottraggono alla marea incessante di creazione e dissoluzione, avvicinandole a una vibrazione di eternità.
Cosa desta questo doppio movimento dentro di me? Pace e Silenzio.
Miyamoto Musashi, uno dei maggiori samurai vissuto a cavallo tra XVI e XVII secolo, nel suo Il Libro dei cinque anelli impiega i primi quattro capitoli per descrivere la propria arte della spada, le virtù necessarie al perfetto guerriero e al comandante militare, le tendenze delle altre scuole. Poi, nel quinto ed ultimo libro, brevissimo, parla del vuoto. Il vuoto è la mente: se la mente non si fa vuoto, cioè non si pone in uno stato svuotato da ogni condizionamento esterno e auto-condizionamento, non può accogliere l’essenza dell’essere. Non le sue rappresentazioni o descrizioni, non il racconto dell’essere, ma l’essere in sé: ciò che nel momento in cui è, è. Quando ciò avviene non esiste più alcuna separazione tra il pensiero dell’azione e l’azione, tra la volontà di compiere un gesto (colpire in un certo modo con la spada) e il gesto stesso: l’essere fluisce naturalmente nel tempo e quindi si trasforma in divenire, in moto inafferrabile e in eterno presente. È allora che si desta un senso di pace e silenzio, che non sono immobilità, ma pienezza del vuoto – mai ossimoro fu più calzante –.
Il silenzio nello haiku è come il vuoto nella mente del samurai. Prima e dopo le poche parole che compongono ogni haiku, e fra le parole stesse, si spalanca questo vuoto-silenzio, che non è assenza, è pienezza di presenza nel qui e ora. Entrarci è cogliere la scintilla della tua pace interiore.
Di una visione che concilia e spiega gli opposti, che ama anche il dolore.
Ruotano stelle,
perpetui ricordi.
Un mormorare.
Di un senso di liberazione.
Che può essere razionalizzato a posteriori, come ho fatto adesso. Ma, in verità, solo molto approssimativamente posso raccontare la stupefazione immediata che genera lo haiku nel suo prender vita nel vuoto della mente.
Questo è davvero liberatorio: scoprire una monade indivisibile di pura essenza, il cui più alto valore terapeutico sull’anima è forse proprio l’evidenza di una verità oggettiva compiuta in se stessa.
Qui altri 5 miei haiku ispirati dalla stessa affinitá percettiva:
Pensare assente.
D’altrove nostalgia,
indefinita.
Silenzio vasto.
Sorgono suoni azzurri,
ronde di sole.
Prossime rive.
Il muto contemplare
cenni sospesi.
Mutarsi intento
muove il fluttuare passi
sul pelo d’acqua.
Stipato vuoto
babelico silenzio
aperto pieno.
Bibliografia personale
Tavernati Andrea, L’intima Essenza, La via dell’haiku, EEE edizioni, 2013
Tavernati Andrea, Haiku delle 5 stagioni (di prossima pubblicazione presso Puntoacapo editore)