Poetry Therapy Italia

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Lo psicoterapeuta fa riferimento inevitabilmente a degli schemi, che vanno tuttavia superati: per oltrepassarli bisogna appassionarsi al proprio lavoro e alla relazione di cura, o meglio, alla cura della relazione.

 

“Io sono solo il primo coinquilino con cui hai vissuto,
che ti ha sgridato per quella faccenda,
che ti ha insegnato a pattinare,
che… non ti ha mai chiesto, alla fine, il conto”
Bravuomo)

Il modello fondamentale dello psicoterapeuta si apprende attraverso l’esperienza della relazione che si costruisce nella terapia individuale, con il proprio terapeuta. Senza passare da questa esperienza lo studio e le conoscenze servono a fornire un utile bagaglio teorico e culturale, ma a cui manca l’ingrediente più importante.

Durante il processo della terapia individuale, infatti, si impara a costruire un pensiero e una direzione con il proprio terapeuta, con complicità e umorismo, indispensabili per gestire i momenti drammatici. Si fa esperienza di una modalità evolutiva di stare dentro i legami e si impara a comunicare in modo migliore rispetto alle problematiche presentate, oggetto del lavoro terapeutico. Si lavora anche sul modello di relazione interiorizzato, rispetto ai legami sperimentati nella propria famiglia d’origine e nel gruppo dei pari. La mappatura esperienziale del mondo avanza parallela alla relazione sviluppata durante la terapia individuale e procede verso la strada dell’integrazione, che risolve le modalità disfunzionali.

   “Chi pensa che la psicologia stia nei testi di studio, nelle teorie, nei protocolli, nei modelli, evidentemente cade in errore. Certamente c’è una base scientifica, che deve essere approfondita, bisogna leggere le storie di grandi pensatori e clinici che hanno cercato di ampliare la visione dell’umano, di costruire mappe per perlustrare la geografia del dolore mentale, le sue radici biologiche e mitobiografiche. Eppure, tutto questo non basta” (G., Ruggiero).

   

Il terapeuta utilizza se stesso in terapia

Per Freud “lo psicoterapeuta deve essere sufficientemente sano, ed essere stato in odore di malattia, tanto da comprendere quella dell’altro, in particolare la malattia di vivere”. Il terapeuta utilizza se stesso in terapia: le emozioni attivate nella seduta, che siano di rabbia o depressione, possono essere utilizzate e restituite.

Il terapeuta “deve restare se stesso, il che significa che deve aver lavorato su se stesso” (E., Fromm).

   Il modello di un orientamento teorico costituisce la struttura necessaria per contenere il dolore e la disperazione senza perdere se stesso, senza destrutturarsi a sua volta e liquefarsi nella sofferenza del paziente (che attiva la propria), ma allo stesso tempo va dimenticato. La rigidità con cui l’allievo aderisce ad esso o ad uno schema sul processo terapeutico può impedire l’ascolto e la sintonizzazione sull’altro, perché stare dentro la relazione significa anche coltivare incertezze (che si possono condividere) e mostrare un ragionamento verso una nuova soluzione. “L’unico modo per evitare di correre questo rischio è spiegare la fatica che ho fatto a imparare e a disimparare, a strutturare e a destrutturare, a credere e a diffidare, a nutrire certezze insieme ai dubbi, a fare esperienze, rimanendo un principiante” (G. Ruggiero).

   L’assenza di giudizio è essenziale per agganciarsi al paziente: ciò che appare superficiale o irrilevante può nascondere un punto di contatto importante per l’alleanza terapeutica, perché solo entrando nel mondo del paziente (nel suo linguaggio, nei suoi significati e nella sua capacità immaginativa) si possono costruire modalità relazionali, che a sua volta il paziente prende a modello. Ad esempio, in una seduta con un adolescente, parlare di un videogioco non è tempo perso, ma è necessario per portare avanti un lavoro terapeutico.

   Individuare i punti di risorsa di un paziente quando pensa di non averne più, anticipare i suoi stati d’animo, offrire un luogo d’ascolto in cui depositare il dolore, che viene custodito, condiviso e rielaborato, permette di diventare una persona significativa, di lasciare una traccia di sé nell’altro e anche l’esperienza di un modello relazionale di riferimento. Questo modello, infatti, è incentrato sulla capacità di curare la relazione: “per apprendere l’arte di creare relazioni autentiche, mobilizzare parti profonde del proprio sé interiore, prestare il proprio cuore e la propria mente per rimettere in moto processi intrapsichici e relazionali rimasti bloccati in seguito ad esperienze traumatiche o difficoltà evolutive, è necessario andare oltre la psicologia stessa e nutrirsi ad altre fonti di conoscenza: la letteratura, la poesia, le arti figurative, il cinema, la musica, ma anche l’antropologia e la religione nelle sue varie declinazioni” (G. Ruggiero).

 

Elementi basilari del processo terapeutico

  Il paziente va accompagnato lungo un tragitto condiviso: “io preferisco pensare ai miei pazienti e a me stesso come a compagni di viaggio” (I., Yalom).

Il terapeuta rappresenta la memoria e la testimonianza della storia di vita narrata e sostiene il paziente a decollare in maniera autonoma.

Capire dove il paziente vuole arrivare (e non dove il terapeuta vuole che arrivi), rispettare la scelta di accontentarsi di aver raggiunto un obiettivo (quando noi vediamo le potenzialità che ne raggiunga altri) e valorizzare i suoi “limiti”: sono elementi basilari di un processo terapeutico. Il tema del valore è un nodo cruciale da recuperare, perché spesso le persone giungono in terapia con un senso del sé molto svilito.

Il silenzio, inoltre, non va riempito di parole (mossi, per esempio, dall’ansia) ma lasciato fluire così che la persona possa esprimersi con i suoi tempi.

“Come psicoterapeuti, se una fedeltà dobbiamo scegliere è quella al paziente. Se è necessario, da una parte, continuare ad approfondire il nostro modello, dall’altra, è altrettanto necessario sapersene separare o alterarlo, laddove esso non sia utile per quel paziente” (K. Giacometti, D., Mazzei, 2011).

 

Integrare i modelli

   L’integrazione di modelli teorici è “la sfida per il tempo attuale: sentirsi appartenenti ad un paradigma clinico, sapere frequentare i vari setting clinici, saper dialogare con altri paradigmi” (V. Cigoli, in K. Giacometti, D. Mazzei 2011[1]).

Nella mia esperienza professionale, l’orientamento sistemico relazionale è stato arricchito dal lavoro con una collega specializzata in terapia della Gestalt, con la quale seguiamo in coterapia coppie e famiglie: è stato possibile integrare i due approcci e fare un lavoro approfondito sulle emozioni, dopo aver costruito un’adeguata struttura sistemica relazionale. Con le coppie l’alleanza terapeuta è più difficile da costruire (perché la complicità maggiore resta tra i membri della coppia, nonostante la crisi), per cui è fondamentale sviluppare un ambiente contenitivo rispetto ad un’esperienza emotiva significativa. Il contesto trasformativo va strutturato in modo che contenga la libera espressione emotiva senza esserne allagato. Dopo la conclusione della terapia, infatti, il paziente si porta dietro, non tanto l’orientamento del terapeuta ma soprattutto l’esperienza emotive: ciò che ha sentito quando li avete compresi nel loro dolore e visti nel loro valore, in maniera catartica. Inoltre, rimane impresso il momento in cui il paziente si è sintonizzato, cioè si messo nei panni, ad esempio, del figlio (o della madre o del compagno) e si è commosso. Quel pianto denso e pieno di condivisione porta a un cambiamento.  “La terapia parla a questo riguardo di insight psicologico intendendo con ciò la riconnessione della fantasia con il comportamento” (J., Hillman[2]).

 

Integrare pensare e sentire (gli schemi del cuore)

“C’è come un diario che ho chiuso nel petto,
sento che devo tirarlo fuori
e devo farlo senza schemi
se non gli schemi che mi porto nel cuore”
(C. Bukowski).

    Nella vita di tutti i giorni ci muoviamo seguendo dei modelli interiorizzati oppure opponendoci ad essi, rompendo gli schemi. Questo avviene anche rispetto alla scelta del partner, anche se pensiamo che l’innamoramento avvenga per caso.

Spesso i membri di una coppia si assomigliano molto, tanto da far pensare che siano fratelli, oppure presentano dei tratti simili a un parente, a uno zio, perché veniamo richiamati da ciò che ci è fisicamente familiare. Rispetto al carattere invece siamo attratti da chi ha delle competenze diverse dalle nostre, stimiamo nell’altro ciò che sa fare meglio di noi.

   Se la mappa del mondo e il programma ufficiale del paziente non coincidono si sviluppano le situazioni descritte da Elkaim[3], a proposito delle coppie, che danno vita alla contraddizione se mi ami, non amarmi: le esperienze affettive precedenti non permettono di fidarsi dell’altro, nonostante quello sia il progetto di vita.

Questa drammatica conflittualità interiore, se non individuata e rielaborata, potrà ostacolare la relazione della coppia.

   È fondamentare essere consapevoli dell’imprevedibilità delle reazioni emotive (su questo non ci sono schemi) e domandarsi “quando mai al chimico è stato impedito di occuparsi delle sostanze esplosive, indispensabili per il loro effetto, a causa della loro pericolosità[4]?”

 

Supervisione con gli allievi

   Il terapeuta fa lavorare gli allievi su un modello teorico e sul modello interiorizzato di relazione. “Si tratta di far emergere dall’allievo le caratteristiche del suo stile terapeutico… convincerlo a riprendersi e ad utilizzare al meglio quelle parti rifiutate e nascoste al suo interno… Supervisione non è insegnare una tecnica al terapeuta o trasmettere acriticamente il nostro modello, quanto costruire un nuovo modello assieme a lui.  Non si dovranno mai fornire soluzioni complete, ma solo stimoli atti a costruire soluzioni nel rispetto dello stile dell’allievo” (de Bernart, Dobrowolski, 1996[5]), così come con il paziente.

Il modello teorico può essere abbellito, ornamentato, con una tecnica al posto di un’altra (utilizzo di immagini o musica, la scultura, Poesiaterapia, etc) in base all’individualità del terapeuta (e ai bisogni emersi nella seduta).      

Tutto questo può bastare nel processo terapeutico?

Come scrive Giuseppe Ruggiero “oggi ho detto ad alcune giovani allieve, che aspirano a diventare persone di cura, che mi dispiaceva insegnare loro come si osserva un gruppo di famiglia, come si parla, come si ascolta, come si fanno domande, come si gioca. Perché anche se queste sono cose importanti, al tempo stesso rischiano di far perdere quell’innocenza dello sguardo, quell’ingenuità del pensiero, quello slancio del cuore che solo i principianti possiedono” (G., Ruggiero).

Come terapeuti, dunque, riferirsi a degli schemi è inevitabile ma devono essere superati, attraverso l’integrazione tra pensare e sentire: per oltrepassarli bisogna appassionarsi al proprio lavoro e alla relazione di cura, o meglio, alla cura della relazione. “Che cosa in fondo sarebbe la vita senza l’intelligenza del cuore e a che cosa servirebbe avere una testa piena di nozioni, senza sapere come si fa a sintonizzarsi con il ritmo pulsante della vita?” (G. Ruggiero).

 

[1] Giacometti K., Mazzei D. (2011) Il terapeuta sistemico relazionale, FrancoAngeli, Milano.

[2] Hilman J., Saggio su Pan.

[3] Elkaim M., (1992) Se mi ami non amarmi, Bollati Boringhieri, Torino.

[4] Freud S., 1914, Introduzione al narcisismo.

[5] de Bernart R., Dobrowolski D. (1996) La supervisione clinica nel training, Terapia familiare 2° numero speciale per la formazione, volume 52 novembre.

 

 


Trevisani Bach Ivana

Francesca Papp è educatrice, psicologa e psicoterapeuta, specialista in Terapia di Coppia e della Famiglia.
Ha pubblicato una raccolta di racconti e tre raccolte di poesie che ripercorrono metaforicamente alcuni viaggi speciali.

Da febbraio 2021 cura la rubrica mensile di poesia e psicologia LeggerMente, in collaborazione con l’Istituto di Alta Formazione di Firenze e, da luglio 2022, anche con la rivista Poetry Therapy Italia.

 

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