Il presente contributo - collegato all’editoriale e che funge da importante premessa per comprendere ancora meglio l’articolo La poesia è sempre terapeutica? - sviluppa in modo dettagliato l’analisi di “quando le parole curano”, per poi applicare i principi individuati nella parola che cura anche ai silenzi e ai gesti che curano. Rappresenta, inoltre, la prima parte di un contributo che verrà in seguito approfondito nel prossimo numero di Poetry Therapy Italia.
Quando le parole curano?
“Allora aprirono le loro bocche bestiali
e vomitarono parole, parole, parole…”
(Norma Desmond, in Viale del Tramonto, Paramount Pictures)
Il cinema muto è tramontato nel giro di pochi anni dall’introduzione del cinema di voce, fatto di personaggi dei quali si potevano udire le parole, un profluvio di parole. Anche questo è l’effetto, nel bene e nel male, che potrebbero sortire le parole, nel momento in cui esse subentrassero al dire muto del silenzio e del corpo, con la sua mimica e i suoi gesti.
Le parole potrebbero interrompere una magia, così come potrebbero crearla. Le parole potrebbero curare come far ammalare. La parola è la materia prima più evidente della Poesia, così come lo è della Poesiaterapia, la quale come facilmente si deduce dalla parola che la definisce, impiega principalmente la Poesia, tra le forme letterarie esistenti, come suo strumento terapeutico precipuo. Ma quale ruolo ha la parola in un percorso di guarigione poetico-terapeutico? Come, attraverso la parola, si può aiutare una persona a ritrovare una strada che la conduca fuori dalla sofferenza in cui è sprofondata? Tutte le parole curano? Quando le parole curano?
Spostare sulle parole poetiche, anziché su quelle ordinarie, il baricentro del proprio percepire, comprendere, esprimere, sentire, non rappresenta uno spostamento da poco. Significa che in poesiaterapia si lavora con parole, lette e ritagliate con cura o con parole che sono state cucite o verranno cucite fra loro con cura.
Se la poesia è un’arte di alta sartoria nel cucire, con la massima cura, le parole tra di loro in modo che risuonino continuamente nuovi e inaspettati orizzonti di senso – si pensi ad esempio alla maestria di Dante nell’intrecciare i fili delle sue divine terzine – la poesiaterapia è l’arte di cucire, con la massima cura, per mezzo delle parole, un vestito interiore a misura di una specifica persona o una specifica coppia o uno specifico gruppo o una specifica comunità o una specifica altra cosa. Questa costante esposizione del paziente - persona o altro essere vivente esso sia - alle onde energetiche della parola curata o presa in cura, rappresenta un costante stimolo alla creazione/performatura di parole curate, stimolo che a sua volta immette il paziente in un clima terapeutico che favorisce il prendersi cura di sé.
Ma scegliere le parole con cura significa praticare un percorso terapeutico?
La comparazione tra Corso di scrittura creativa e Percorso di Poesiaterapia può essere utile per arrivare a una risposta chiarificatrice. Anche in un corso di scrittura creativa poetica si insegna a scegliere le parole con cura: questo fattore è sufficiente per renderlo anche un percorso terapeutico? Il dubbio è lecito, tanto più se si considera che creatività e poesia possiedono tendenzialmente di base un potere terapeutico anche quando non le si adotta con questo fine.
La risposta però è no, un corso di scrittura creativa poetica non può dirsi un percorso terapeutico.
Il motivo è legato, in primo luogo, proprio alle funzioni e finalità che essi svolgono, nel caso del corso di scrittura l’obiettivo è di tipo estetico: imparare a fare poesia; mentre nel caso del percorso di poesiaterapia l’obiettivo è il benessere psicofisico ed emotivo-spirituale della persona.
In secondo luogo, nel corso di scrittura creativa è richiesto al conduttore e ai corsisti un continuo esercizio del giudizio estetico e non solo, mentre nel percorso di poesiaterapia, come in tutte le artiterapie, è escluso l’esercizio di qualsiasi giudizio. Se opero da facilitatore all’interno di percorso di poesiaterapia, di norma, anche quando mi trovo di fronte al testo poetico di un paziente, che considero abbia un valore anche estetico, non intervengo mai. Quelle volte in cui nel ruolo di facilitatore decido di trasgredire questa norma e propongo al paziente modifiche o sviluppi del testo di tipo estetico-letterario (attivando, quindi, inevitabilmente un giudizio) è perché, comunque, sono mosso da ragioni e da un fine terapeutico. Le parole che dico nel ruolo di facilitatore e il mio modo di pormi e agire con il paziente, anche quando si opera e ragiona sul piano estetico, sono guidati dallo scopo di portare benessere.
In terzo luogo, corso di scrittura e percorso di poesiaterapia richiedono due figure professionali molto diverse, quella del poeta e dell'insegnante nel primo caso e quella del poetaterapeuta nel secondo; professione quest’ultima che fa riferimento a determinati saperi, competenze, attitudini, nonché a un codice etico deontologico a cui ci si deve, giustamente, attenere durante ogni fase della pratica, nel rapporto con il cliente, i colleghi poetaterapeuti, tutti gli altri professionisti con cui si collabora, gli enti con i quali si eroga il servizio, nel rispetto delle regole vigenti nel Paese in cui si opera.
Le parole hanno un valore soggettivo-esperienziale-relazionale
Le parole hanno un valore soggettivo-esperienziale–relazionale. Il loro impatto e i loro effetti terapeutici o nocivi sono misurabili in chi o cosa è coinvolto nella loro azione, sia qui e ora, sia nel tempo a venire.
Sappiamo che le parole possono arrivare a salvarci la vita, così come possono tormentarci a tal punto da toglierci la vita. Come non pensare ai tanti adolescenti che si sono suicidati, istigati da parole di cyberbulli o haters, odiatori schiavi del loro odio e della loro codardia. La violenza gratuita e spietata della parola non risparmia nessuno: ancora oggi mi risuona dentro il dolore per il suicidio di Alberto Re – settantottenne “amante della vita, delle belle parole. Non amava infingimenti, ha fatto del garbo il suo stile di vita”[1] – travolto dalla derisione, dal dileggio, dalla denigrazione, di una violenza verbale disumana, avvenuto attraverso i canali social e la gogna mediatica della stampa, già prima che il Festival da lui organizzato diventasse un flop di cui “vergognarsi”. Il suicidio è stato il suo gesto estremo di protesta eclatante, per mettere fine a questo uso delle parole malefico e criminale. Nella lettera che ha lasciato prima di spararsi ha scritto: «Sono stato travolto da inaudita violenza, non deve succedere più».
La responsabilità etica della parola i grandi poeti ce l’hanno nel sangue, vogliono dire esattamente la loro verità nient’altro che la loro esatta verità. Anche per questa ragione scelgono ogni parola, ogni virgola, ogni andare a capo o meno, ogni elemento del componimento poetico, facendone una questione di vita o di morte. Nessuna parola, come quella poetica, ha in sé un potere trasformativo della realtà così performante.
Joy Harjo (1951), poeta indiana contemporanea della Nazione Muscokee-Creek (USA), scrive nella poesia Call it Fear[2] (Chiamala paura):
Volevamo solo parlare, ascoltare
una qualsiasi voce per rimanere vivi.
Ci sono situazioni in cui la presenza di una sola voce, basta per tenerci in vita. Questo potere energetico che le parole possiedono, viene consegnato certamente da chi formula le parole e le emette al mondo, ma ancor di più dipende da chi le riceve e le fa proprie. Il grado di potere delle parole dipende innanzitutto da quanto e quale peso attribuiamo alle parole che diciamo e ci vengono dette, a partire dall’esperienza che ne abbiamo fatto prima di quel momento.
Mi è capitato spesso, ad esempio, che la lettura a distanza di anni, giorni, talvolta ore, degli stessi componimenti haiku – forma di poesia che coniuga splendidamente attraverso processi analogici il qui e ora con l’eternità – sortissero in me effetti diversi o mi illuminassero su aspetti e significati diversi da quelli colti nelle precedenti letture.
Ci sono giorni, ad esempio, in cui il nostro paesaggio emotivo passa repentinamente dall’essere solare all’essere tempestoso. Quale effetto sortirebbe in noi la stessa buona o cattiva notizia se ci fosse detta, allo stesso modo e dalla stessa persona, nel momento in cui il nostro stato interiore fosse solare o burrascoso?
Quali sarebbero gli effetti se questa stessa notizia non fosse data solo a noi, ma a noi quando siamo insieme a un gruppo di amici o a noi come a tutto il resto della nostra comunità, in chiesa, in un collegio docenti, allo stadio, a un concerto? L’effetto del potere delle parole, in questo caso, dipenderebbe anche da quante persone e quali persone condivido l’introiezione, da come reagiscono i singoli e il gruppo o la comunità di singoli. Siamo singoli di molti, ci ricorderebbe il poeta-filosofo Giancarlo Majorino.
L’effetto del potere delle parole, naturalmente, dipenderebbe anche dal contesto e dalla situazione in cui le parole vengono emesse-fruite. Di fatto:
il potere trasformativo delle parole attivato con fine terapeutico è variabile, essendo la sua valenza soggettiva-esperienziale e situazionale.
Qualsiasi professionista della cura non può non avere una preparazione adeguata e consapevole nell’utilizzo del potere della parola, perché il peso che, consciamente o inconsciamente, noi attribuiamo alle parole determina il peso d’incidenza (peso netto) che quelle parole avranno sugli altri e sulla nostra persona. Molto di questo peso d’importanza (peso lordo) dipende da chi ci dice queste parole.
Se, ad esempio, qualcuno che stimiamo poco o niente o che ci è del tutto indifferente, ci dicesse “ti amo” o ci insultasse dandoci con animosità del “bastardo”, probabilmente modificherebbe poco o niente il nostro paesaggio emotivo e psichico interiore. Se quelle stesse parole ce le dicesse invece una persona che stimiamo più di ogni altra, esse probabilmente sconvolgerebbero a tal punto il nostro paesaggio interiore, in bene o in male, da segnare forse per sempre un prima e un dopo quel momento in cui quelle parole ci sono state sparate addosso.
Ci sono parole che una volta emesse al mondo hanno determinato una svolta decisiva alla nostra biografia di individui, di popolo, di specie.
Penso a quando è nata la prima parola, avendone coscienza, oppure penso a quel “sì, lo voglio” che si dicono gli sposi al loro matrimonio, ma penso anche a parole dette secoli fa, che hanno determinato un prima e un dopo, tanto che ancora oggi influenzano il nostro vivere. L’onda energetica delle parole e delle azioni del medico e aforista greco Ippocrate di Cos, solo per fare un esempio, risulta ancora decisiva per la cultura della medicina occidentale, malgrado siano trascorsi più di due millenni: agisce profondamente su come noi contemporanei concepiamo il medico, tanto che ancora oggi l’ordine dei medici riprende, nel giorno dell’iniziazione alla professione, le parole del suo giuramento.
Certe parole, a livello energetico, non smettono mai di lavorare nel nostro inconscio, anche se ci sono state dette anni fa o giungono a noi da millenni fa. Il flusso energetico sotterraneo di certe parole, anche se come la luce delle stelle ci arriva in differita, esercita il suo potere e ha degli effetti nella persona che le assume qui e ora.
Ogni parola contiene in sé un potere salutare e un potere tossico o velenoso
“multo quam ferrum lingua atrocior ferit”
La lingua ferisce molto più della spada[3]
Proverbio latino
Ogni parola si muove tra due polarità: potere salutare e potere tossico, a cui però non corrispondono necessariamente processi rigenerativi e processi degenerativi nel malato, che dipendono perlopiù dal loro dosaggio.
Ce lo insegna la medicina allopatica: contraria contrariis curantur (i contrari si curano con i contrari): una mirata contrapposizione può risultare molto salutare; così di contro un’azione sulla carta altamente salutare come, ad esempio, lo è quella di innaffiare una pianta, potrebbe rivelarsi non solo poco salutare ma persino deleteria: la somministrazione di acqua nella misura e con una frequenza sbagliate, anche se svolte con le migliori intenzioni, potrebbero uccidere la pianta. L’amore, l’amicizia, la generosità e tutte le altre manifestazioni dell’essere umano, parole comprese, a cui solitamente assegniamo un valore salutare e che dovrebbero essere come acqua per la pianta, soggiacciono tutte alla stessa legge della “giusta misura”. Questa è la conclusione a cui è arrivato il Buddha per curare la sofferenza, che è poi la stessa conclusione a cui è arrivato Paracelso (1493-1541), padre della tossicologia: “Tutto è veleno, e nulla esiste senza veleno. Solo la dose fa in modo che il veleno non faccia effetto” e che, quindi, tutto diventi curativo. Per Paracelso, medico, alchimista e astrologo, “ogni medico deve essere ricco di conoscenza e non solo di ciò che è scritto nei libri; i suoi pazienti devono essere il suo libro e da ciò non sarà tratto in errore”: la relazione dose-risposta, pietra miliare della scienza tossicologica, segna la dose-soglia di quella data persona (il libro più attendibile), oltre il quale ciò che è terapeutico diventa tossico.
Il concetto di dose-soglia tossicologica applicato alla parola mi porta a ricercare nella professione di poetaterapeuta qualcosa di analogo a ciò che ricerco quando compongo o performo della poesia. Infatti, se nel fare poesia ricerco di ogni sua componente e aspetto la “morte sua”, ovvero il massimo gusto estetico di parole, silenzi, gesti, il loro picco di bellezza, allo stesso modo nei percorsi di poesiaterapia ricerco - all’interno del grado salutare di ogni parola, silenzio o gesto che adotto - la “morte sua”, ovvero il massimo effetto benefico, il picco di salubrità. Per contro cerco con la massima attenzione di tenermi lontano dalla dose-soglia tossicologica, avendo ben chiaro che ogni range tossicologico possiede una dose-soglia letale, oltre il quale il veleno di quelle parole, quei silenzi e quei gesti non solo nuoce gravemente alla salute, ma uccide.
Se esistono una dose-soglia salutare e una dose-soglia tossicologica, di tipo soggettivo, significa che ne esistono anche di specie, se esistono un picco di salubrità soggettivo e una dose-soglia letale soggettiva e di specie, si può parlare di range salutare e di range tossicologico. Questo vuol dire che:
ogni parola o silenzio o gesto contiene in sé un potenziale terapeutico relativo (soggettivo) minimo e massimo e un potenziale tossicologico relativo (soggettivo) minimo e massimo.
Le parole hanno in sé un potenziale terapeutico relativo variabile minimo e massimo. Guardando specificatamente all’aspetto terapeutico delle parole, esso si muove all'interno di una ideale scala che ha un minimo e massimo.
Un ruolo decisivo, nell’alzare o abbassare il potenziale terapeutico delle nostre parole, lo giocano spesso i gradi di fiducia, empatia e stima, che si stabiliscono tra facilitatore e utente.
La misura effettiva del potenziale terapeutico relativo che ogni parola ha in sé, dipende poi da innumerevoli fattori che influenzano il comportamento comunicativo. Tra questi incide:
- il contesto socio-ambientale
- il tipo di relazione, la quale si muove su tre direttrici: parità/potere, familiarità/estraneità, confidenza/freddezza
- i ruoli dei comunicanti, ovvero l’identità al momento dello scambio
- il canale comunicativo (visivo, telefonico, dal vivo, online, ecc.).
Più nello specifico, il valore terapeutico della parola dipende anche dal termine che viene scelto e, come abbiamo visto, dalla qualità intima della relazione io-tu tra poetaterapeuta e paziente/gruppo di pazienti.
Tipo di relazione tra poetaterapeuta e paziente/gruppo di pazienti
- La qualità intima della relazione io-tu
- La qualità del setting in cui avviene la relazione
- Il grado di fiducia che esiste tra le identità comunicanti
- Il grado di stima che esiste tra le identità comunicanti
Valore energetico della parola
- L’etimologia della parola e, quindi, i primi semi che contiene
- L’evoluzione della sua semenza
- Il vissuto energetico che ogni parola ha nella specifica cultura in cui si opera
- La musicalità della parola e, quindi, il suo ritmo, la sua armonia e melodia
- La plasticità della parola
Tipo di relazione con la parola
- La tendenza positiva o negativa con cui di norma quella cultura percepisce una parola
- La tendenza positiva o negativa con cui viene percepita personalmente una parola
- L’energia simbolica che ogni parola possiede
- L’affettività culturale e individuale di cui è intrisa quella parola
- Il clima affettivo in cui viene emessa/ricevuta una parola
- Il peso oggettivo che ha e il peso soggettivo che le si attribuisce
Valore della parola nel discorso
- Il valore e, quindi, il ruolo che ogni parola assume nel contesto del discorso
- La valenza poetica che in base al contesto assume una parola
- La reiterazione e la sua frequenza
Da cosa dipende il potere terapeutico delle parole?
Il potere terapeutico delle parole, in un percorso di poesiaterapia, dipende principalmente dai seguenti fattori:
- qualità di ascolto del facilitatore e dell’utente/paziente
- valore personale che, dicendo, versiamo nelle parole
- valore personale che, ricevendo, attribuiamo alle parole
- valore che esse hanno o assumono rispetto al contesto/situazione
- intenzione con cui sono state emesse
- disposizione alla cura dell’utente/paziente.
La Poesiaterapia impiega la poesia e altre forme letterarie per attuare un cambiamento al fine di stare bene, ma se il paziente/utente è mal disposto a questo cambiamento o, peggio ancora, rifiuta l’aiuto, allora la poesiaterapia può fare poco.
Il Dr. Hirsch Lazaar Silverman, psicologo, nell’articolo Riflessioni: Poetry Therapy[4] del 1986, ha definito la poetry therapy uno strumento clinico che utilizza la scrittura poetica al fine di facilitare la consapevolezza psicologica, la creatività e il significato personale di sé, in cui “il terapeuta usa la poesia per migliorare la relazione terapeutica, con l’esplorazione delle proprie esperienze e della percezione del disagio, per invocare il cambiamento cognitivo ed emotivo, e rivoluzionare la vita intrapersonale e interpersonale del paziente” (Silverman, in Shafi, 2010, p. 2)[5].
Nel 1969 lo psichiatra Jack Leedy, nel pionieristico Poetry Therapy: l'uso della poesia nel trattamento dei disturbi emotivi, definisce i nove principi per l'impiego della poesia con fine terapeutico. Il primo principio racchiude una delle grandi sfide che il poetaterapeuta deve affrontare, ovvero la: “resistenza al cambiamento come target primario dell’intervento terapeutico”.
Saper trasformare quello che un paziente chiama e vede solo come un buco nell’acqua, nello scavo necessario in cui gettare e far sorgere dal letto del fiume, le fondamenta della sua palafitta, della sua nuova casa.
Sherry Reiter, che è stata anche vicepresidente dell'Association of Poetry Therapy (APT), poetaterapeuta pioniera statunitense, in una conferenza della NAPT del 2014 ha detto che: “immaginazione, condensazione e spostamento sono le tre componenti che condividono i sogni, la poesia e la magia. Immaginazione, condensazione e spostamento: per imparare meglio l'incanto dai bambini. I bambini sono stupiti dalla magia e dalle molte meraviglie della vita. Ogni cambiamento o sorpresa è accolta con stupore. Come disse una volta Adrienne Rich “Il momento del cambiamento è l'unica poesia”[6].
Una delle sfide della poesiaterapia è quella di aiutare le persone in cura a uscire dal vicolo cieco in cui si sono finite, aiutarle a uscire dai loro dannosi loop psichici ed emotivi, aiutarle ad aprire porte in cui sono state imbottigliate o in cui si sono rinchiuse e non riescono più ad aprire, aiutarle a tirarsi fuori dal pantano in cui sono arenate e riprendere il corso della loro vita in acque salubri e più sicure. Aiutarli, in sintesi, a cambiare. Cambiare prospettiva, abitudini, sguardo, percezione, legami, valori, stati emotivi, pensieri, condizionamenti, considerazione di sé e degli altri… cambiare, spesso è il primo grande passo per uscire dalla propria sofferenza.
Il potere analgesico della parola
Quando si prende una botta, in un’azione di pronto intervento per curare l’ematoma, si contiene il gonfiore e il dolore fisico mettendo del ghiaccio sulla parte lesionata. Leggere e ascoltare le parole giuste al mento giusto, dette nel modo giusto dalla persona giusta, può come il ghiaccio rendere quelle parole analgesiche: ovvero capaci di lenire o placare il dolore interiore.
In una sua poesia Madre Teresa di Calcutta pone fianco a fianco quello che forse è il veleno più terribile per un individuo, il rancore, e il farmaco più salutare che potremmo donare e donarci, il perdono:
Il sentimento più brutto? Il rancore.
Il regalo più bello? Il perdono.
Si possono sviluppare azioni di sostegno interiore, attivando della parola il suo potere decreatore del dolore. Il perdono è il massimo decreatore del male, secondo Panikkar. Le parole sincere di perdono o autoperdono contengono e rilasciano effetti analgesici nel corpo dell’altro e nel nostro se ci rivolgiamo al perdonato o solo nel nostro corpo se ci auto perdoniamo. Jorge Luis Borges preferiva decreare il dolore scostandosi a latere del perdono, scrisse infatti: “Io non parlo di vendette né di perdoni; la dimenticanza è l'unica vendetta e l'unico perdono”. Ognuno ha le sue visioni e scale di valori, e di conseguenza, i propri decreatori del proprio mal-essere, le proprie parole analgesiche.
Altre parole analgesiche sono, per esempio, quelle che attivano processi di sublimazione del dolore: lo teorizza con lucida follia Nietzsche quando individua nella pulsione dell'apollineo, che si esprime nelle forme limpide e armoniche della scultura e della poesia epica greca, il processo di sublimazione del tragico, manifestazione della pulsione dionisiaca di questo popolo, la cui cultura è per noi occidentali fondativa.
La fantasia può essere un’altra via poetica per raggiungere la sublimazione. Scrive Freud del poeta, paragonandolo al bambino, circa il suo gioco di fantasticare attraverso la composizione di poesia, un mondo migliore che egli prende molto sul serio e su cui investe una grande carica emotiva:
Un bambino giocando si comporta come un poeta nel momento in cui riordina un mondo proprio, o mentre riordina in un mondo nuovo di suo gradimento le cose del suo mondo.[7]
La parola poetica come antidoto
Il potere creativo è generalmente inteso come generativo, di rinascita, tanto è vero che sono tante le forme di terapia che utilizzano le arti, agenti creativi per eccellenza. La creatività però non è necessariamente vincolata al perseguimento del bene, può essere impiegata anche per causare il male, uccidere, distruggere con una bomba atomica un’intera città, un intero pianeta.
Nei due casi seguenti la creazione di poesie è stata funzionale a cavare dalle parole il loro potere allopatico: sono parole antidoto dette per neutralizzare la rabbia, la paura, l’orgoglio e altri veleni emotivi e sentimentali.
In un percorso di poesiaterapia lo si usa ad esempio per contrastare stati di rabbia, risentimenti o per esorcizzare, ad esempio, una paura, o generare in sé forza e minimizzare chi o ciò che ci ha procurato dolore, come quando il bambino canta come fosse una formula magica:
Non mi hai fatto niente
faccia di serpente.
Non mi hai fatto male
faccia di maiale
Pugni di pulcino
Calci di ragnetto
Schiaffi di ridicolo topino deficiente
Cosa credi che mi ha fatto
niente!
Non mancano le ninne nanne che utilizzano la paura come strumento per far apprendere la disciplina utile per tenere i/le propri/e figli/e lontani/e dai pericoli. In questo senso sono esemplari le “ninne nanne allopatiche”[8]: Quando è l’ora di fare la nanna (Testo: Italia Bartoli/Musica: Giannetto Wilhelm), ad esempio, al di là del verso finale, fornisce un ripasso sulle buone abitudini che il bambino deve apprendere. Seppur con complicità da parte della madre, al/la bambino/a viene intimato di addormentarsi senza fare i capricci. Nel cantare questa ninna nanna, occorre a mio avviso avere su un paio di versi – “alla tua mamma dai già tante pene / potrebbe credere che non le vuoi bene!” – un po’ di accortezza nell’uso del tono della voce: che sia ancor più luminosa e amorevole, per non innescare possibili nocivi sensi di colpa nel bambino/a:
Quando è l’ora di fare la nanna
sai che fanno i bravi bambini
lasciano i giochi e vanno da mamma
che li accompagna a lavare i dentini.
Poi si infilano nel pigiamino
a babbo e mamma danno un bacino
poi s’addormentano piano pianino
con la preghiera a Gesù Bambino.
E tu bambino mio,
che non vuoi fare la nanna
non fare più capricci
se no saran pasticci;
alla tua mamma dai già tante pene
potrebbe credere che non le vuoi bene!
Quando è l’ora di fare la nanna
lascia i giochi e corri da mamma
dalle un bacione per farle capire
che le vuoi bene e che vuoi dormire.
Le parole impiegate in riti di passaggio o impiegate in rituali o cerimonie assumono una particolare carica e forza energetica che aumenta il potenziale terapeutico (e, quindi, anche il potenziale distruttivo) delle parole, dei silenzi e dei gesti a esse collegate.
La danza haka neozelandese, ad esempio, viene urlata e danzata per affermare la propria libertà, il proprio diritto alla gioia, oppure si performa a un funerale per omaggiare il grandissimo valore di una persona defunta o di un guerriero caduto. Noi occidentali la conosciamo soprattutto in quanto rito di preparazione a uno scontro di guerra reale e, ancor di più, come haka in preparazione alla “guerra” sportiva del rugby, ovvero una forma di danza con recitato rituale adottata dagli All Blacks, squadra nazionale di rugby della Nuova Zelanda. La loro haka persegue un doppio intendimento: quello per un verso di compattare il gruppo prima dello scontro, caricando di massima potenza e coraggio ogni singolo giocatore degli All Blacks e, per altro verso, di impaurire e scoraggiare i giocatori della squadra avversaria.
Educare al peso e al potere della parola, restituire sacralità alla persona
L’essere umano è un mangiatore di parole. Si nutre di parole ma è anche, spesso, fagocitato dalle parole. Per questo è importante saper pesare le parole, sia nel distribuirle che nell’acquisirle. Le parole possiedono una tara (l’analogico che contribuisce dall’esterno a dare forma e contenuto alle parole), un peso netto (il digitale che contribuisce dall’interno a dare forma e contenuto alle parole) e un peso lordo (le parole frutto dell’analogico e del digitale). Saper tarare le parole, saperle soppesare, saperle servire, significa, specie in una relazione di cura, saper immergersi totalmente nella vitalità delle parole e, quindi, saper far emergere la vitalità dalla relazione di cura. Restituire alla parola il giusto peso, la giusta libertà, significa ricostruire relazioni solide, senza che i legami diventino catene. Sarebbe importante ritornare a essere uomini di parola col fine di restituire sacralità a ciò che si dice e quindi sacralità alla persona che si ha di fronte.
Essere consapevoli che le parole hanno il potere di generare in noi e negli altri, tanto ristoro quanto traumi, significa sviluppare da parte di ognuno di noi una educazione alla gestione del potere delle parole, e quindi, del potere dei silenzi e della comunicazione tout court, se vogliamo beneficiare al meglio non solo del potere delle parole, ma del benessere che ogni relazione può donare.
Significa anche imparare a proteggersi dal potere delle parole, quel “lasciarsele passare addosso” quando serve o il “non farsi toccare” quando sono state dette per ferirci o riconoscere quando sono tossiche e non è salutare per noi ingerirle. E qualora le avessimo già ingerite, imparare a neutralizzarle o, ancora meglio, saperle trasformare in straordinarie opportunità di crescita.
In quest’epoca dove gli esseri umani e le creature sono sempre più spesso ridotti a numeri e oggetti, sottoposti a cure standard, occorre attivare una forza che contrasti questo processo di inflazione del valore della parola, legata inevitabilmente, all’inflazione del valore della vita. Riconoscere di nuovo che noi e l’altro da noi siamo reciproci doni sacri, significa restituire a ogni nostra parola, silenzio e gesto la massima importanza e, di conseguenza, essere pienamente presenti, nella massima potenza di trasformazione, in meglio, di noi stessi e dell’altro da noi.
Silenzi rumorosi, silenzi parlanti e gesti parlanti
“Nessuno può immaginare
quel che dico quando sto in silenzio
chi vedo quando chiudo gli occhi”
(Joumana Haddad, da Sono una donna)
Le parole sono innanzitutto contenitori energetici. Ogni parola è energia condensata in una sequenza di suoni posta tra due intervalli di silenzio. I silenzi sono pause più o meno prolungate che, al pari delle parole, sono spesso comunicanti e portatori di senso.
Nel suo libro cult Silenzio[9] (1961) il compositore John Cage scrive: “la musica è in primo luogo nel mondo che ci circonda, in una macchina per scrivere, o nel battito del cuore, e soprattutto nei silenzi. Dovunque ci troviamo, quello che sentiamo è sempre rumore. Quando lo vogliamo ignorare ci disturba, quando lo ascoltiamo ci rendiamo conto che ci affascina”. I rumori per Cage “sono utili alla nuova musica quanto le cosiddette note musicali, per il semplice motivo che sono suoni”.
Il rumore è sempre con noi, fuori e dentro di noi, anche di notte, anche quando i rumori esterni sono ridotti a quasi nulla, il rumore di sottofondo interiore che abita il nostro corpo è un suono ineliminabile. Sto parlando non solo di quei suoni come il battito cardiaco, il mantice del respiro o il flusso sanguigno, che quando siamo in armonia, con il loro ritmo regolare e fluido, ci raccontano che siamo vivi, ma di quel rumore di sottofondo disturbante che tentiamo di ignorare o di cui siamo ignari, che producono i loro effetti negativi.
Sta a noi, dunque, relazionarci o meno ai silenzi rumorosi disturbanti, consapevoli che se ascoltati, come suggerisce sotterraneamente Cage, potremmo anche imparare a percepirli come suoni di una musica, che comunica e vive fuori e dentro di noi in quanto musica. Ma i silenzi rumorosi siano essi percepiti come disturbanti o musica, sono diversi dai silenzi parlanti.
Ogni parola detta o anche solo pensata possiede un proprio peso specifico, che porta in sé un potenziale grado d’incidenza trasformativa, in senso armonico o disarmonico, piacevole o spiacevole, che sgrava o appesantisce. Lo stesso vale per i silenzi parlanti, ovvero quei silenzi che sono portatori di senso, al pari e spesso più delle parole, come ben sanno i grandi poeti, poiché la poesia prima di essere arte del dire parole è arte dell’ascoltare la voce e le parole dei silenzi.
Non si può parlare di parola che cura senza parlare di silenzio che cura. Come ci ricorda Borgna è importante “armonizzare il linguaggio delle parole con il linguaggio del silenzio e del corpo vivente”. Il silenzio di un orecchio in ascolto, che si fa stanza accogliente, protettiva, empatica, che si fa come la poesia, cassa risonante, è già un orecchio che cura.
I silenzi parlanti, all’opposto delle parole vacue, dette a vanvera o ripiene di bla bla bla, facilmente contengono vita emotiva, mentale, spirituale. Che siano veicolatori di rabbia o gioia, dissenso o assenso, rifiuto o compartecipazione, i silenzi parlanti costruiscono la relazione di cura al pari e più delle parole. Talvolta assumono la forma di parola muta, altre di immagine eloquente. I silenzi parlanti si accompagnano spesso ai gesti parlanti. Come abbiamo sperimentato tutti nella vita, a volte, un solo gesto può sintetizzare uno o più discorsi o addirittura assurgere a simbolo di tutta una vita.
E poi ci sono volte che, come le parole, anche i silenzi parlanti e i gesti parlanti non bastano. Nell’altro percepisci che c’è un’energia positiva, che la persona di fronte ti vuole bene, eppure hai bisogno di sentirti esplicare a parole quello che l’altro ha ricevuto, pensa, prova per te o con te. Quanta sofferenza ho incontrato nel rimpianto di non aver detto o detto le parole giuste, quanta nei gesti non compiuti o compiuti inopportunamente. Più sapremo ascoltare più sapremo cosa dire, come dirlo, quando dirlo, perché dirlo, a chi dirlo, con chi dirlo, chi è bene che lo dica.
Le parole non sono le sole ad essere materia finita e mortale, lo sono anche i silenzi e tutto quello che più intimamente sentiamo. Saper creare uno spazio di silenzio, sicuro, così come saperlo abitare, senza paura ma anche senza incoscienza, esaltandone proprietà e virtù, educa all’ascolto e all’esplorazione introspettiva. Doti essenziali per un poetaterapeuta che voglia praticare relazioni di cura come straordinaria, sacra, occasione di crescita per tutti i partecipanti, facilitatore compreso.
Le parole non dicono mai tutto di sé
Le parole, anche quelle che ci appaiono chiare ed esaustive, non dicono mai tutto, preservano lati ombrosi, angoli bui, camere di senso ancora da aprire.
Questo assunto vale non solo per quelle parole scelte dall’artista o dal/la poeta per comporre una realtà straordinaria, com’è un’opera d’arte, in particolare nel nostro caso una poesia, esso è valido anche per tutte le parole impiegate in un contesto ordinario, com’è solitamente quello della vita quotidiana. Ogni parola è composta di suoni e/o grafemi che contengono semi, ma nessuno è in grado di dire tutto ciò che contiene ogni suo seme. Cosa frutterà. Perché i semi sono forme semplicissime, limitate, che però racchiudono informazioni e proprietà di gran lunga superiori a quelle che siamo in grado di decifrare.
Anche parole chiare come arteterapia, musicoterapia, teatroterapia, poesiaterapia, ovvero i nomi che designano le arti terapie, pur indicando chiaramente quantomeno la principale materia utilizzata che determina la loro specificità, non sono in grado di esplicitare la complessità che caratterizza queste discipline del benessere. L’arteterapia impiega come proprio strumento principale l’immagine nata da pratiche di arte visiva; la musicoterapia usa la musica; la poesiaterapia adotta come strumento principale la poesia, ma anche, altre forme letterarie che la parola poesiaterapia non esplicita, come ad esempio il racconto breve, la canzone, il diario, la lettera, l’aforisma, la citazione.
Le parole non dicono mai tutto: sono abitate, che loro lo vogliano o meno, da inevitabilmente vasti non detti, silenzi, gesti, omissioni.
Parole, silenzi e gesti menzogneri
Nel periodo in cui ci facevano credere che gli indiani d’America fossero brutti e cattivi, il fumetto di Tex Willer ci ha insegnato che i nativi americani definivano i bianchi invasori come “viso pallido che parla con lingua biforcuta”, termine quest’ultimo che indica l’essere divisiva (bi-), che nasce dalla forca e trascina alla forca.
Per indicare una persona bugiarda, infima ingannatrice, ancora oggi si dice dunque che quella persona ha una lingua biforcuta. Si tratta di una sineddoche, perfetta per dire che tutte le parole di chi ha la lingua biforcuta sono biforcute e che, restando al caso del viso pallido, per gli indiani la sua lingua è biforcuta come la quei dei serpenti velenosi, paragone che definisce in modo eloquente quanta pericolosità essi attribuiscano a quel che dice, pensa e fa il viso pallido.
L’ottavo comandamento della Bibbia dice “Non dire falsa testimonianza”; in un hadìth[10] l’imam Baqir disse: “Iddio l’Altissimo per il male ha stabilito delle serrature la cui chiave è l’alcol” – e poi aggiunse – “La menzogna è peggiore dell’alcol”; eccetera, eccetera. Si potrebbe andare avanti per paginate indicando esempi di grandi culture che hanno individuato nella menzogna un male del mondo, specie quando l’inganno è attuato per mezzo della parola. Le fake news, ad esempio, andrebbero considerate come una delle più gravi e nocive piaghe del linguaggio contemporaneo e, invece, oramai ci siamo assuefatti, come se fosse normale, normativo strutturare relazioni con il falso.
Tuttavia, anche sul mentire e omettere, è bene trovare la giusta misura. Se in ogni istante del giorno dovessimo dire con radicale sincerità, agli altri e a noi stessi, tutto ciò che veramente pensassimo, ci troveremmo nel giro di tre giorni, con più coltelli piantati nella schiena che Giulio Cesare, oltre che a un coltello in mezzo al cuore, piantato da noi stessi.
Vivere nella relazione di cura, significa partire da quale verità e quanta verità l’altro è in grado di accogliere, e da quale e quanta verità siamo in grado noi di condividere nel migliore dei modi, consapevoli che spesso la paura di sbagliare non fa compiere i gesti e non fa dire le parole che dovremmo o non ci fa costruire il silenzio che servirebbe.
Sappiamo bene quanto anche i silenzi, le parole non dette, il linguaggio paraverbale possano mentire, o quantomeno, possano suscitare fraintendimenti, ambiguità, biforcazioni. Il Nuovo Codice Italiano di Deontologia Medica, in vigore dal 3-10-1998, rispetto a quello precedente sensibilizza tanto sulla qualità della relazione di cura, quanto sulla maggiore trasparenza. Eppure - ci mette in guardia Sandro Spinsanti, teologo e psicologo - non basta; oggi più che mai, soprattutto in ambito medico, ma non solo, occorrono parole oneste:
Solo un buon sanitario e un buon paziente fanno una medicina alla quale possiamo attribuire una qualità etica positiva: in sintesi, una buona medicina. A questo tendono le parole oneste che invochiamo nella pratica della cura.[11]
Meno parole oneste mettiamo in circolo e più lasciamo campo e prosperità alla menzogna. Le parole oneste vanno messe in circolo, come buoni operatori e come buoni pazienti, negli enti ospedalieri e nei luoghi dove si esercitano le professioni di cura e, come buoni cittadini e buoni abitanti, anche in tutto il pianeta Terra. Nessun essere umano si può considerare sollevato della sua parte di corresponsabilità nell’essere costruttore o distruttore dell’onestà che dovrebbe puntellare le basi della nostra società.
La menzogna mina la fiducia nelle fondamenta. E senza fiducia viene meno uno dei pilastri della relazione e quindi della cura nella relazione. Senza fiducia vengono meno l’empatia e la speranza, quest’ultima strumento affettivo essenziale per rimotivare una persona nel desiderare, credere, volere un proprio miglioramento, desiderarlo tanto da arrivare a perseverare per ottenere la liberazione dai propri malesseri. Scrive il filosofo Salvatore Natoli:
In greco speranza si dice elpis. Questo termine, come i verbi elpo, elpizo con cui è collegato, deriva dalla radice vel (con ampliamento della p) da cui il latino voluptas, che vuol dire voglia, piacere. La speranza è dunque e in primo luogo voglia. Essa scaturisce dal piacere di esistere proprio a ogni ente per il fatto stesso che esiste. Da questo punto di vista la speranza è una modificazione della felicità, almeno nel senso in cui ho cercato di delineare in un mio recente saggio. La felicità è potenza d’esistere. Nonostante il dolore. La speranza è una sua metamorfosi. Leopardi – il cui pensiero dà le vertigini qualora lo si consideri al di fuori dei luoghi comuni – lo dice con sovrana chiarezza: “La speranza è una passione, un modo di essere, così inerente e inseparabile questo dal sentimento della vita propriamente detta, come il pensiero, e come l'amore di se stesso, e il desiderio del proprio bene. Io vivo, dunque io spero, è un sillogismo giustissimo... Disperazione, rigorosamente parlando non si dà, ed è così impossibile ad ogni vivente, come l'odio verso di se medesimo”. La speranza scaturisce dunque dalla voglia di esistere. È evidente che la speranza appare solo ove il bene non è pieno, ove la vita è attraversata da lacerazioni e da mancanza. In questo deficit, la speranza spinge oltre, nel dolore del presente indica il riscatto. Da questo punto di vista la speranza è davvero l'ultima dea, rimasta nel vaso di Pandora dopo che tutti i mali, di lì uscendo, hanno preso a dilagare su tutta la terra.[12]
Parole, silenzi e gesti non comunicanti che continuano a parlarci male
Vediamo, forse, non so… le parole e il linguaggio non verbale hanno tanti modi per mettere in stand by la comunicazione. Essere messi da un’altra persona in sala d’attesa, quando al pari del nostro interlocutore non siamo bravi ad accantonare il discorso fino a che giunga il momento buono (sempre che arrivi) per riprenderlo, potrebbe risultare per noi una posizione scomoda da assumere, dato che potrebbe rimuginarci dentro, dando forma a un rumore disturbante. La sospensione della comunicazione, per essere tale, dev’essere biunivoca. Altrimenti la cessazione temporanea della comunicazione, interrompe la sua azione “parlante” solo per metà, come un cadavere che spinto nel fondo del lago, prima o poi ritornando a galla, ritorna a “parlarci”.
La chiusura della comunicazione può avvenire con un secco rifiuto: no, non sono più in alcun modo disposto ad ascoltarti, vederti, sentirti… parole, silenzio e gesti, dichiarano la volontà attuata di interrompere ogni tipo di comunicazione: come se il ponte crollasse, una frana interrompesse la viabilità della strada, ci fosse un taglio dei cavi elettrici, non ci fosse più campo per il nostro cellulare. E quella scelta, specie se subita, fa male e continua, anche per anni, a parlare la lingua della sofferenza.
Non dobbiamo lasciarci maltrattare dalle parole, dai silenzi e dai gesti non comunicanti, che ci “parlano male”. Almeno dentro di noi questo “parlare male dell’altra persona coinvolta, che voglia aiutarci o meno, lo dobbiamo trasformare in “parlare bene”, se vogliamo ben-essere.
Se la nostra mente
è affollata di parole e pensieri,
non c’è spazio per noi.
scrive Thich Nhat Hanh ne Il Dono del Silenzio.[13] Noi siamo innanzitutto nello spazio del silenzio.
Lì possiamo cavare da uno schiaffo simbolico subìto, una lezione per scoprire una carezza reale.
Parole, silenzi, gesti neutri: il cerchio di cura
Non esistono parole, silenzi o gesti che possano definirsi, a priori o in assoluto, neutri. Ma possono diventarlo.
A teatro, ad esempio, si assume una postura che si dice neutra quando si è eretti, con i piedi dritti posizionati sulla stessa linea delle spalle, la muscolatura di tutto il corpo è rilassata, tutte le forze interne sono in equilibrio. Eppure è proprio con questa posizione neutra, in totale equilibrio, che il Living Theatre, come racconta la sua fondatrice Judith Malina, ha scatenato la reazione del pubblico, generando una delle performance artistiche più note al mondo: “Mysteries iniziava con un attore in piedi davanti al pubblico, che rimaneva assolutamente immobile e silenzioso finché il pubblico non protestava: e il nostro unico scopo era quello di provocare tali proteste”.
Tuttavia, in generale si può affermare che, parole, silenzi e gesti siano relativamente neutri laddove risultano ininfluenti al fine di determinare un cambiamento minimo su di sé o sull’altro da sé.
Un’automobile che per qualche centesimo di secondo passa lungo la strada dove stiamo facendo colazione, al caldo, in un bar, pur facendo parte del nostro sottofondo visivo, avrà un’incidenza prossima allo zero, sulla nostra giornata e sul nostro sé. La stragrande maggioranza di parole ordinarie che ci attraversano ogni giorno, passano ma non restano, e se restano vanno a comporre quel brusio interiore che ci abita e del quale nemmeno noi siamo consapevoli. Alcune parole dette o non dette, silenzi parlanti o silenzi profanati, gesti fatti o mancati, restano in noi, in gola, di traverso, come spine di pesce.
Ogni essere umano si manifesta per chi veramente è nella misura in cui sente di essere nel luogo e con la persona che gli permette di esserlo. La relazione di cura, nella sua forma ideale, è un cerchio, neutrale, che a partire dall’ascolto silenzioso, traccia il ring dove si parla una lingua franca, la lingua della pausa o lingua del kumbhaka[14], come se tra facilitatore/medico/docente e paziente/discente si stabilisse una respirazione simmetrica, al pari di come accade nel pranayama yogico portatore di benessere: tra inspirazione (facilitatore) e (antara kumbhaka) espirazione (paziente), tra espirazione (facilitatore) e (bahya kumbhaka) inspirazione (paziente).
Ascolto, non giudizio, empatia, fiducia, speranza, presenza, respiro: questo è il cerchio della cura. L’ascolto è un recipiente vuoto, dove io sono pieno solo di silenzio paziente proteso verso il mio paziente; il non giudizio è una bilancia in pari, a riposo, inattiva, senza pesi; l’empatia è capacità di sintonizzazione sulla stessa frequenza d’onda emotiva e lì stare, per comprendere; la fiducia è una farfalla bianca da proteggere insieme, con due mani, una mia, una tua; la speranza è la spinta per rituffarti, il desiderio per ritornare a essere nel presente; la presenza sei tu e il mondo tutto in forma di dono, il respiro è il filo che, se consapevole, infila e tiene insieme tutti gli anelli del cerchio di cura. Scrive Thich Nhat Hanh:
Molte persone non riescono a concedersi il tempo di stare sedute e non fare nulla a parte respirare. Lo considerano antieconomico o un lusso. La gente dice: «Il tempo è denaro». Ma il tempo è ben più che il denaro. Il tempo è vita. La semplice pratica di stare seduti in silenzio con regolarità può rivelarsi profondamente risanatrice. Fermarsi e sedersi è un valido modo di concentrarsi sul respirare consapevole e nient’altro.[15]
Il respiro consapevole è tutto quello che ci serve per ascoltarci, con amore consapevole.
Quando le parole, i silenzi, e i gesti curano?
“Nella vita non raccogli ciò che semini, raccogli ciò che curi”
Charles Monroe Schulz
Non esistono parole che a priori o in assoluto, possano considerarsi curative, poiché la gradazione curativa e tossicologica di ogni parola è soggettiva-esperienziale-relazionale, e quindi non esiste alcun significato di parola, anche il più benevolo, o sequenza fonemica di parola, anche la più musicale e armonica, che possano garantire di per sé un’azione terapeutica.
Persino parole come amore, amicizia, gioia, felicità, che pure sembrerebbero portare solo del benessere, in talune persone potrebbero suscitare irritazione, dispiacere, disgusto, ostilità.
Le parole sono nella comunicazione la nostra moneta di scambio, il cui valore cambia, crescendo o inflazionandosi, da persona a persona, di esperienza in esperienza, di situazione in situazione.
In condizioni favorevoli alla cura, infatti, persino parole come indifferenza, odio, depressione, pandemia, veleno, Satana, che per loro significato e vissuto sembrerebbero portare solo del malessere, in talune persone potrebbero rivelarsi portatrici di sollievo, piacere, armonia, gioia.
Persino le più armoniche e musicali sequenze sonore che formano parole, di senso o meno, se associate da una persona a un’esperienza negativa, possono, se riascoltate, sortire un vissuto negativo, spiacevole.
Le parole nella Poesiaterapia sono impiegate come strumento e materia principe, col fine di risanare orizzonti di senso o disegnarne di nuovi, più salutari e più corrispondenti a chi siamo e a chi vorremmo diventare.
Sulle parole, dunque, la prima sfida della poesiaterapia non corrisponde a identificare solo quali parole curano, ma quando le parole curano e quando sono dannose.
Curano quando le scegliamo con cura. Consapevoli che sceglierle con cura potrebbe non bastare.
Curano quando le parole vengono dette nel posto giusto, al momento giusto. Consapevoli che il tempo giusto potrebbe non bastare.
Curano quando le parole vengono dette nel modo giusto. Consapevoli che il modo giusto potrebbe non bastare.
Curano quando le parole alleggeriscono, tolgono peso. Consapevoli che la levità potrebbe non bastare.
Curano quando le parole sono oneste. Consapevoli che l’onestà potrebbe non bastare.
Curano quando le parole sono amorevoli. Consapevoli che l’amore potrebbe non bastare.
Le parole dette con il cuore in mano, attente e compartecipi, “quelle gentili e silenziose che non rimarcano le differenze, ma colgono le affinità”[16] (Borgna), che riescono a infonderti speranza, che ti fanno sentire in mano sicure, anche quando ti comunicano fatti negativi, che ti fanno sentire la loro vicinanza umana, quelle dette con amore consapevole, queste sono parole che senz’altro curano.
Scegli bene i semi riposti nelle parole e coltivali con cura. Qualunque parola servita con cura, detta con l’intenzione focalizzata nel fare del bene, nel posto giusto, al momento giusto, nel modo giusto, detta dalla persona giusta, agita, in breve, con amore consapevole, non può che essere terapeutica.
Questa conclusione è il rovescio e mette in evidenza il lato luminoso della stessa medaglia, che sul lato di testa recita:
Non esistono parole che a priori o in assoluto, possano considerarsi curative, (...)
Appare ora chiaro al contempo che ogni parola possieda, in potenza, il potere di diventare curativa. Ce lo insegna innanzitutto la poesia, che non considera a priori nessuna parola come impoetica: in E lasciatemi divertire il poeta Aldo Palazzeschi arriva a comporre poesia con “la spazzatura delle altre poesie” oppure sono esemplari in questo senso, tutti quei testi che hanno per protagoniste “le piccole cose” della vita ordinaria, come quelli che compongono il libro Myricae di Pascoli o anche le poesie più pop che spesso si ascoltano in un poetry slam.
Se per il/la poeta ogni parola è meritevole di essere trattata con la massima cura, per il poetaterapeuta:
ogni parola, ogni silenzio, ogni gesto, è potenzialmente terapeutica/o.
Anche i silenzi e i gesti “parlano”, lo abbiamo compreso anche se per sommi capi nei paragrafi precedenti; con il loro linguaggio dicono parole mute o parole gesto: ce lo hanno mostrato meravigliosamente il cinema muto e gli straordinari mimi del Novecento da Decroux, Barrault, Marceau fino ad arrivare al nostro contemporaneo Paolo Nani. Loro sono poesia, inaudita, in forma di gesto e silenzio. Così l’arte del mimo, nel giugno del 1924, era apparsa anche agli occhi dell’allora studente Etienne Decroux, che poi diventerà padre del mimo corporeo:
Mi misi tranquillo in poltrona e vidi uno spettacolo inaudito. Si trattava di un mimo e di alcuni suoni. Il tutto senza una parola, senza trucco, senza costume, senza gioco di luci, senza accessori, senza mobili e senza un solo addobbo. Lo sviluppo dell’azione era abbastanza intelligente per far sì che più ore fossero contenute in qualche secondo e più luoghi in uno solo. Dinanzi ai nostri occhi comparirono simultaneamente il campo di battaglia e la vita civile, il mare e la città. I personaggi passavano in tutta verosimiglianza dall’uno all’altra. Quel gioco era commovente, comprensibile, plastico e musicale.[17]
Sul binario della fiducia, della speranza e della comprensione empatica reciproca
Le storie di percorsi di Poesiaterapia raccontabili sarebbero migliaia di migliaia, ma credo che tutte per essere sane e salutari, in un rapporto simmetrico tra poetaterapeuta e paziente dovrebbero correre sulle rotaie della speranza e le traverse della fiducia, unite dalla comprensione empatica reciproca.
La piena fiducia tra poetaterapeuta e paziente va costruita passo passo, traversa dopo traversa, così come va costruita la piena fiducia tra paziente e gli/le altri/e clienti del gruppo che stanno compiendo il percorso terapeutico al contempo individuale e collettivo. Entrambi, essenziali, per costruire/ritrovare in se stessi la massima fiducia possibile. Su queste tre diverse fiducie, si agganciano le rotaie della speranza, indispensabili in un percorso di terapia per aprire a nuovi scenari, sognare cambiamenti, credere che sia possibile tracciare altri orizzonti fuori e dentro di noi.
Così come gli organi di attacco collegano rotaie e traverse, allo stesso modo la comprensione empatica reciproca fra poetaterapeuta/paziente/gruppo diventa il dispositivo che consente di congiungere e unire la fiducia con la speranza.
Incanalare la relazione di cura sul binario della fiducia, della speranza e della comprensione empatica reciproca, significa mettere il percorso terapeutico sul migliore dei binari possibili. Da qui si può camminare fianco a fianco, pronti ad affrontare insieme durante il percorso qualsiasi ostacolo, così come gioire insieme di ogni conquista di crescita e guarigione.
Respira questa nuova alba
avvicinati mentre apre la bocca
per respirare.
(Joy Harjo, da Prepara, Ibis) [18]
[1] Così lo ha definito la sua famiglia, dopo il suicidio di Alberto Re:
[2] Hajo Joy (1997), She Had Some Horses, New York: Thunder's Mouth Press.
[3] Altre varianti italiane dello stesso proverbio sono: cattive lingue tagliano più che spade; è meglio essere di man battuto, che di lingua ferito; le ciance riescon lancie. Significativo per il nostro studio è l’ultima versione con le ciancia, altresì detta, chiacchiera, pettegolezzo, diceria, maldicenza, calunnia, fandonia, frottola, ciarla.
[4] Silverman Hirsch Lazaar (1986), “Reflections: Poetry therapy” in The Arts in Psychotherapy. An international Journal, vol.13, n. 4, Inverno 1986, pp. 343–345.
[5] Shafi, N. (2010). Poetry therapy and schizophrenia: Clinical and neurological perspectives. Journal of Poetry Therapy, Vol. 23 (2). La prima parte di questo paragrafo riprende l’articolo “Introduzione alla Poetry Therapy” di Luca Buonaguidi, in Poetry Therapy Italia, n. 0, 1 febbraio 2020, Monza: Mille Gru.
[6] Traduzione dal discorso tratto da Sherry Reiter, Sherry Reiter keynote at the National Association for Poetry Therapy 2014, https://www.youtube.com/watch?v=e0iRDhAtrE0, consultato l’ultima volta l’11 dicembre 2023.
[7] Freud Sigmund (1992), Il poeta e la fantasia, Traduzione di Antonella Ravazzolo, Opere, vol. 2, Roma: Newton Compton, p. 162.
[8] Bulfaro Dome (2018), Ninne nanne allopatiche, omeopatiche, olistiche, Monza: Mille Gru.
[9] Cage John (1961), Silence: Lectures and Writings, Middletown, Connecticut: Wesleyan University Press.
[10] Racconto di valore giuridico e religioso, spesso collegato alla vita e alle opere del profeta Maometto.
[11] Spinsanti Sandro (2019), La cura con parole oneste. Ascolto e trasparenza nella conversazione clinica, Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, p. 18.
[12] Natoli Salvatore (1996), Dizionario dei vizi e delle virtù, Milano: Feltrinelli, pp. 116-117.
[13] Hanh Thich Nhat (2015), Il Dono del Silenzio, Milano: Garzanti, p. 24.
[14] Il termine kumbhaka deriva da kumbha, che in sanscrito significa vaso, brocca per acqua, calice, oggetti che possono essere pieni/vuoti.
[15] Hanh Thich Nhat (2015), Il Dono del Silenzio, Milano: Garzanti, pp. 108-109.
[16] Borgna Eugenio (2017), Le parole che ci salvano, Torino: Einaudi, p. 84.
[17] Decroux Étienne (1963), Paroles sur le mime, Paris: Gallimard, pp. 17-18.
[18] Harjo Joy (2021), Poeta guerriera, Como-Pavia: Ibis, p. 22.
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Dome Bulfaro (1971), poeta, esperto di poesiaterapia, si dedica alla poesia (di cui sente un servitore) ogni giorno dell’anno. È tra i più attivi e decisivi nel divulgare e promuovere la poesia performativa; ed è il principale divulgatore in Italia della poetry therapy/poesiaterapia. Dal 2021 è docente di Poesiaterapia e Lettura espressiva poetica presso l’Università degli Studi di Verona, nel pionieristico Master in Biblioterapia. Nel 2013 ha ideato e fondato con C. Sinicco e M. Ponte la LIPS - Lega Italiana Poetry slam. Nel 2023, ha ideato e fondato con M. Dalla Valle. P. M. Manzalini e I. Monge la BIPO - Associazione Italiana Biblioterapia e Poesiaterapia, prima associazione di categoria. Ha fondato e dirige Poetry therapy Italia (2020), rivista di riferimento della Poesiaterapia italiana. Ha fondato e dirige (con Simona Cesana) PoesiaPresente – Scuola di Poesia (2020) performativa, scrittura poetica e poesiaterapia. www.domebulfaro.com
(Foto Dino Ignani)
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