Poetry Therapy Italia

11 Sandron dabdon

 

“ (...) la scriptotherapy è il mezzo utilizzato da d’Offizi per affrontare il suo passato tormentato e cercare la propria guarigione. Bless Me Father, sostiene questo articolo, è una storia di dolore, perdita, sopravvivenza e trionfo sulle avversità, che occupa uno spazio particolare all'interno della letteratura sudafricana del post-apartheid.”

Questo studio accademico su Mario d’Offizi, scrittore e poeta sudafricano di origine italiana, è stato originariamente pubblicato in inglese da Raphael d’Abdon (ricercatore della University of South Africa – UNISA), nella rivista  Scrutiny2. Issues in English Studies in Southern Africa il 17 aprile 2024.

L’ho scelto perché, come dice lo stesso autore dell’articolo, viene qui raccontata “una storia di redenzione, raccontata da un sudafricano bianco ‘marginale’, che offre spunti stimolanti sulla funzione duratura della letteratura come ‘medicina’ efficace per guarire individui e comunità”.

Nell’articolo d’Abdon spiega in modo chiaro, attraverso la definizione di Suzzette A. Henke, cosa si debba intendere con “scriptotherapy”. È bastata questa parola, per me magica, ad attrarmi. Ma non è solo l’aspetto letterario-terapeutico che mi ha infuso il desiderio di tradurre questo articolo. d’Abdon è riuscito a farmi provare da subito una profonda e struggente empatia per questa autobiografia e per la storia, carica di vibrazioni, di Mario d’Offizi. Confido che questa commozione consapevole pervada anche voi. (D.B.)

L’articolo originale in inglese è disponibile nel sito:
https://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/18125441.2024.2316354

Abstract

Bless Me Father (Benedicimi Padre), l'autobiografia del poeta italo-sudafricano Mario d’Offizi, arricchisce la gamma delle mascolinità presentate nelle autobiografie dei poeti bianchi sudafricani. Il testo narra la storia di un uomo bianco “marginale” cresciuto durante l’apartheid, e fornisce una testimonianza innovativa all'interno della ricca tradizione autobiografica del Sudafrica. L’articolo si concentra su episodi traumatici del passato dell’autore e sul rapporto con una figura paterna predatoria. Il conflitto tra la scelta di nascondere eventi dolorosi e il desiderio di denunciarli è la dialettica centrale del trauma psicologico, e la scriptotherapy è il mezzo utilizzato da d’Offizi per fare i conti con il suo passato tormentato e cercare la propria guarigione. Bless Me Father, sostiene questo articolo, è una storia di dolore, perdita, sopravvivenza e trionfo sulle avversità che occupa uno spazio particolare all'interno della letteratura sudafricana post-apartheid. 

You do not even think of your own past as quite real; you dress it up, you gild it or blacken it, censor it, tinker with it ... fictionalize it, in a word, and put it away on a shelf—your book, your romanced autobiography. We are all in flight from the real reality. That is a basic definition of Homo sapiens.
— John Fowles, The French Lieutenant’s Woman

Nemmeno si pensa al proprio passato come se fosse del tutto reale; lo si traveste, lo si indora o lo si annerisce, lo si censura, ci si gioca... lo si inventa, in una parola, e lo si ripone su uno scaffale: il proprio libro, la propria autobiografia romanzata. Siamo tutti in fuga dalla cruda realtà. Questa è una definizione essenziale dell'Homo sapiens.
– John Fowles, La donna del tenente francese

Introduzione

Il mio primo incontro con Mario d’Offizi e le sue opere è avvenuto via e-mail all'inizio del 2006, quando stavo compilando l’antologia Peo tsa rona: Poeti sudafricani del post-apartheid (d’Abdon 2007). Il contributo di d’Offizi mi ha colpito per tre motivi: l'eccezionale valore dei suoi testi (“To have a pigeon case and happiness”, “Loop street 4am”,  “Colours”[1]; cfr. d’Abdon 2007, 114-123), la sua età (aveva sessant’anni, mentre tutti gli altri  poeti ne avevano meno di quaranta) e le sue inconfondibili radici italiane.

Dopo aver letto Banana Crates & Wire Mesh, la sua raccolta di poesie uscita all’inizio del 2007 (d’Offizi 2007a), ho avuto finalmente la possibilità di incontrarlo alla fine dello stesso anno. L’incontro è avvenuto alla Unity Gallery di Johannesburg, in occasione della presentazione della sua autobiografia Bless Me Father, il testo esaminato in questo articolo. Ho letto il libro il giorno dopo e ho deciso di tradurlo in italiano. L’ho fatto nel 2011 insieme al poeta e studioso postcoloniale Lorenzo Mari (d’Offizi 2011). Lo stesso anno tutti e tre abbiamo presentato il libro al Festival “Internazionale” di Ferrara, e in seguito ho viaggiato con Mario a Roma e nella città natale di suo padre, Palestrina, in una delle esperienze letterarie e umane più memorabili della mia vita. Nato a Bloemfontein[2] nel 1946, “Bra Mario” è morto a Città del Capo il 13 settembre 2017. Questo articolo è dedicato alla sua memoria e al suo lascito artistico.

Obiettivi

Ho tradotto gli scritti di d’Offizi per sette anni e questo articolo è il mio tentativo di avvicinarmi a Bless Me Father da una prospettiva accademica. Questo articolo persegue due obiettivi principali:
Bless Me Father si colloca all’interno della ricca tradizione della scrittura autobiografica sudafricana (Coullie 1999; Lenta 2004) e l’articolo si propone di ampliare i confini del discorso teorico sulle autobiografie scritte da poeti bianchi. A tal fine, problematizza ulteriormente le nozioni di “bianchezza” e “africanità”, decostruite da Baderoon (2009), Mbao (2010) e Radithalo (2011) nelle loro acute analisi delle autobiografie di poeti sudafricani. Inoltre, specifici episodi traumatici della vita di d’Offizi richiedono un’attenzione particolare: l’articolo attinge alle teorie del trauma e della memoria per valorizzare le sfumature del testo e favorire  una comprensione a più livelli della complessa traiettoria umana e artistica dell'autore.
Il secondo obiettivo è quello di ampliare il dibattito scientifico sulla letteratura del post-apartheid offrendo la prima analisi di una storia di vita sudafricana poco studiata, ma ricca di spunti di riflessione. Diverse recensioni di Bless Me Father sono apparse sui giornali nei mesi successivi alla sua pubblicazione, ma il limite di questi contributi comunque significativi è che concentrano la loro attenzione esclusivamente su episodi circoscritti e controversi della vita di d’Offizi, sottovalutando (o ignorando) questioni altrettanto urgenti.[3] Questo articolo interroga questi silenzi: discute criticamente eventi cruciali della vita di d’Offizi e affronta aspetti inesplorati della sua storia.

Bless Me Father e la Tradizione autobiografica dei poeti bianchi sudafricani

La “natura” letteraria della scrittura autobiografica è centrale nel discorso teorico sviluppato da Dilthey, secondo il quale le storie di vita sono rappresentazioni fittizie del bisogno che lo scrittore ha di dare un senso al proprio passato frammentario. Nelle sue parole: “L’autobiografia non è altro che l’espressione letteraria della riflessione di un uomo sulla propria vita” (in Rickman 1976, 215). In linea con questa prospettiva, questo articolo si propone di discutere alcuni aspetti di Bless Me Father, al fine di arricchire il dibattito sulle auto-rappresentazioni dei poeti bianchi nella letteratura sudafricana, come accuratamente contestualizzato da Mbao (2010).

La causa principale della scarsa notorietà di Bless Me Father è che, dalla sua pubblicazione nel 2007, il libro è circolato esclusivamente in circuiti letterari underground. Sebbene pressochè sconosciuto al grande pubblico, ignorato dalle pubblicazioni accademiche e praticamente assente dalle reti di distribuzione al dettaglio, questo testo merita di essere considerato un gioiello della letteratura autobiografica del post-apartheid. Come si legge in uno dei commenti che appaiono in quarta di copertina: “Bless Me Father ha elementi della nuda bellezza della prosa scritta da un poeta, ma non è solo il resoconto di un’esperienza intensamente personale. Questa autobiografia tesse un'incredibile rete di storie ed esperienze tipicamente sudafricane”. Alla luce di ciò, l'obiettivo primario di questo articolo è quello di stimolare dibattiti scientifici su quest'opera.

Durante l’apartheid, la scrittura autobiografica era uno strumento formidabile per la narrazione di storie di vita che facevano luce sulle atrocità del regime razzista. Il passaggio al regime democratico ha prevedibilmente generato profondi cambiamenti nel panorama letterario, culturale e politico del Paese. L’auto-rappresentazione degli scrittori bianchi non è sfuggita a questo destino e oggi si articola in un'ampia varietà di sottogeneri (Mbao 2010). Una popolare autobiografia di un poeta bianco sudafricano è quella di Breyten Breytenbach (1984), The True Confessions  of an Albino Terrorist (Le confessioni di un terrorista albino). La storia di Breytenbach si inscrive, non a caso, nel quadro discorsivo della lotta anti-apartheid, esplora l’impatto devastante delle leggi tiranniche del regime razzista sulla vita di un prigioniero politico e fa da contrappunto alle autobiografie “hemingwayane” di Roy Campbell, Broken Record (1934, Disco Rotto) e Light on a Dark Horse (1951, Luce su un cavallo oscuro).[4] 

Non rientrando nelle categorie della “bianchezza” maschile sudafricana –  tratteggiata da un lato dall’attivista radicale anti-apartheid Breytenbach e, dall'altro, dal simbolo coloniale Campbell – la storia di d’Offizi presenta una tipologia alternativa di mascolinità bianca. Bless Me Father non è un palese atto d’accusa contro un governo ingiusto, non rientra in quella narrazione “naturalmente sovraccarica” che Ndebele ([1991] 2006) definisce come “eccessi dell’apartheid”, e non è un ritratto narcisistico di sé “che denota i capricci del maschio bianco conquistatore” (Radithalo 2011, 32). È un’esplorazione della mascolinità bianca sudafricana che si colloca all’interno e al di là di questi divergenti costrutti narrativi: all’interno perché appartiene a una consolidata tradizione letteraria autobiografica bianca che “si è evoluta e modificata nel tempo” (Mbao 2010, 63); al di là per via della sua carica di elementi narrativi innovativi (come l’italianità dell’autore e il suo background sottoproletario), che sono assenti nei precedenti testi autobiografici scritti da poeti bianchi sudafricani.[5] d’Offizi incarna l’esperienza di un sudafricano bianco, di origine italiana, cresciuto insieme a otto fratelli da genitori alcolizzati, in una casa disfunzionale e in una serie di orfanotrofi e istituti per l’infanzia anch’essi disfunzionali. È la storia transculturale e transgenerazionale di un sudafricano bianco borderline, cresciuto durante l’apartheid, che si impone all’attenzione di lettori e critici per la singolarità delle sue esperienze e per la sua geniale verve artistica. 

Il percorso di vita di d’Offizi è costellato di esperienze traumatiche, tra cui le molestie sessuali subite nel collegio cattolico in cui ha trascorso gli anni della formazione. È essenziale collocare questi eventi decisivi all’interno di un’adeguata cornice teorica, al fine di esaminare come essi abbiano plasmato la complessa identità dell’autore e il suo progetto autobiografico. Una riflessione su trauma, memoria e scrittura e sul modo in cui d’Offizi ha strutturato Bless Me Father, sono quindi gli argomenti centrali dei prossimi paragrafi.

Restitutio ad Integrum e Scriptotherapy

Il testo autobiografico e i suoi discorsi critici si sono evoluti nella storia e sono diventati sempre più ramificati (Marcus 1994). Tuttavia, all’interno di questo continuo processo di diversificazione della scrittura di vita, un tema è rimasto invariato: tutti gli scritti autobiografici sono essenzialmente incentrati su tempo, autodefinizione e memoria. L’atto di verbalizzare i ricordi forgia l’autopercezione dell’autore e collega il passato al presente, rimodellando entrambi durante il processo creativo. La scrittura diventa quindi uno spazio ideale per la ridefinizione di se stessi, dove identità e storia, sé e testo convergono, fornendo agli autori una piattaforma narrativa sulla quale riassemblare i frammenti della loro vita. Tuttavia, le narrazioni autobiografiche non sono rilevanti solo per la loro capacità di sistematizzare i ricordi sparsi dello scrittore; sono anche narrazioni cariche di valore letterario. Le storie di vita più originali incuriosiscono i lettori perché parlano di eventi che vanno al di là delle esperienze ordinarie della vita quotidiana: offrono la duplice opportunità di riflettere su storie individuali e collettive e di ampliare i propri orizzonti immaginativi. 

Gli studi sul trauma dimostrano come le conseguenze a lungo termine di eventi traumatici rendano eccezionalmente doloroso il processo del ricordo, centrale nella scrittura autobiografica. Questo processo diventa ancora più complesso quando il soggetto intraprende il viaggio di ridefinizione di sé attraverso la scrittura nella sua maturità, i traumi sono stati vissuti nelle prime fasi della sua vita e hanno incluso abusi sessuali. A tal riguardo Leydesdorff et al. (1999, 1) sostengono che “i sopravvissuti sono quindi particolarmente propensi a produrre storie contenenti elementi immaginari, frammentati o disgiunti e carichi di simbolismo. Ciò significa che la comprensione e l’analisi di queste storie è inevitabilmente complicata e impegnativa”. Questa spiegazione è fondamentale per decifrare lo stile di scrittura di d’Offizi e la struttura di Bless Me Father

La trama di Bless Me Father non è organizzata cronologicamente: si sviluppa attraverso piani temporali sovrapposti, assemblati in un mosaico di microstorie apparentemente scollegate tra loro, che simboleggiano fasi specifiche della vita dell’autore. Il trauma e la violenza costituiscono i temi di fondo della narrazione di d’Offizi, quando parla di una rissa in un night club, della guerra in Angola, della perdita di un figlio o di un fratello, del suicidio di un membro della famiglia, di abusi domestici, di abusi sessuali da parte di una figura paterna e di altre testimonianze di dolore. Come si è detto, riflettere sulle esperienze traumatiche del passato come punto di partenza per progettare la propria narrazione rende il processo di scrittura autobiografica particolarmente impegnativo. In questo processo di auto-ridefinizione attraverso le parole (che ha come obiettivo finale la guarigione del sé ferito) la memoria è necessaria alla scrittura tanto quanto la scrittura è necessaria alla memoria.  

Gli studi sulla psicoanalisi, in particolare quelli di Breuer, Freud, Fenichel, Lacan e Showalter, rivelano che i ricordi traumatici repressi condizionano negativamente la psiche del soggetto: “Psicologi e medici hanno da tempo riconosciuto che il trauma può influenzare in maniera sostanziale  il processo della memoria e [...] il modo in cui i sopravvissuti pensano. Questi processi di pensiero modificati tendono a produrre ricordi del trauma che sono allo stesso tempo insolitamente vividi e insolitamente frammentati” (Leydesdorff et al. 1999, 3). 

Quando i ricordi includono l’abuso infantile, la loro soppressione può avere ripercussioni drammatiche.[6] Queste implicazioni sottolineano la necessità di aprirsi da parte dello scrittore/sopravvissuto, al fine di ripristinare i ricordi infranti, aggiustare i processi di pensiero e quindi facilitare un percorso di guarigione a lungo atteso. Come illustra Laub (1995, 64): 

I sopravvissuti che rimangono in silenzio diventano vittime di una memoria distorta... Gli eventi diventano sempre più distorti, invadendo pervasivamente e contaminando la vita quotidiana del sopravvissuto. Più a lungo la storia resta taciuta, più distorta diventa la concezione che il sopravvissuto ha di essa, fino al punto di arrivare a dubitare della realtà stessa di eventi effettivamente avvenuti.

L'impulso a ri-scrivere il proprio passato nasce dall’urgenza di affrontare controversie irrisolte profondamente radicate, con le quali il sopravvissuto deve fare i conti per iniziare il percorso riparativo. Portando alla luce i suoi ricordi dolorosi e organizzandoli in un testo, lo scrittore traumatizzato mette in moto un processo di coagulazione di un passato disperso, che coincide con l’inizio del recupero psicologico ed emotivo. d’Offizi “sentiva” che “vomitare” le sue esperienze strazianti sulla carta era un passo necessario sulla strada della guarigione. L’autore descrive questo momento chiave in un passaggio fondamentale di Bless Me Father (d’Offizi 2007b, 53):

A metà degli anni ‘90 stavo lavorando con mio figlio Paul alla campagna pubblicitaria per la Commissione sulla Verità e la Riconciliazione e creai un poster che diceva “La verità ferisce ma il silenzio uccide”. Queste parole mi fecero sentire sempre più a disagio e in colpa per il mio inquietante silenzio che, come venni a sapere in seguito (anche se lo avevo sempre sospettato), aveva afflitto per molti anni sia me che i miei cari.

d’Offizi ammette che scrivere Bless Me Father è stata un’esperienza straziante. La stesura del capitolo su Padre Orsmond, in particolare, è stata “la cosa più difficile che abbia mai dovuto fare” (Ajam e Smith 2007), ma ha rappresentato anche un momento di svolta. Spesso, in questi casi, il processo è innescato da un evento simbolico, che inaspettatamente riporta in superficie una sofferenza repressa. Come spiegano Van der Kolk e Van der Hart (1995, 163), la “memoria traumatica” opera in maniera diversa dalla “memoria narrativa ordinaria”:

La memoria traumatica viene evocata in condizioni particolari. Si verifica automaticamente in situazioni che ricordano il trauma originale. Queste circostanze innescano il ricordo traumatico [che] è prodotto dal meccanismo [...] chiamato restitutio ad integrum. [...]. Quando viene evocato un elemento dell’esperienza traumatica, tutti gli altri elementi riaffiorano automaticamente. La memoria ordinaria non è caratterizzata dalla restitutio ad integrum.

Per Henke (1999), la scriptotherapy è uno strumento terapeutico che permette ai sopravvissuti di esprimere intense crisi emotive che non potevano essere espresse o raccontate. È un approccio alla scrittura che mira a costruire opere narrative attraverso esperienze traumatiche e serve come strumento per sostenere il processo di guarigione (Osamnia e Djafri 2020; Tembo 2014).   

Bless Me Father è il risultato di una specifica restitutio ad integrum. Significativamente, la storia inizia con il racconto di un viaggio nella Repubblica Democratica del Congo (dove d’Offizi e il suo collega Matt O’Brian si trovavano per girare un documentario su una chiesa carismatica) e si sviluppa sullo sfondo dei ricordi suscitati da questo evento sconvolgente. L’improvvisa vicinanza dei sacerdoti della Chiesa Cattolica Congolese e la visita a un orfanotrofio in Zambia durante il viaggio di ritorno in Sudafrica, hanno attivato i ricordi degli anni trascorsi nel collegio Boys’ Town e hanno fatto riemergere il trauma associato a quel periodo della vita del poeta. Questi ricordi hanno dato impulso a ciò che alla fine si è sviluppato, attraverso la scriptotherapy, nella sua autobiografia. Come lui stesso ricorda: “L’esperienza nella Repubblica Democratica del Congo mi ha sollevato e traumatizzato allo stesso tempo e mi sono sottoposto alla terapia APP (Audio Psycho Phonology) a seguito delle emozioni e dei ricordi provocati dal viaggio. Questa terapia ha aiutato a far riemergere molte altre esperienze. Ma scriverle è stato micidiale” (d’Offizi 2008).

Scavare nel suo passato tormentato non è stata l’unica sfida per  d’Offizi; anche dal punto di vista del processo creativo, l’impresa autobiografica si rivelava  problematica. Autore talentuoso, esperto nella scrittura di testi brevi (poesie, racconti, articoli, copywriting), d’Offizi era alla sua prima esperienza con un testo più esteso. Sagacemente, ha aggirato questa difficoltà gestendo il testo dentro uno spazio a lui familiare, ovvero scrivendo ogni capitolo come se fosse un racconto a sé stante (d’Offizi 2008). Come scrittore e sopravvissuto, d’Offizi ha dovuto affrontare questa doppia prova e l’ha fatto con successo. D’altra parte, scrivere (soprattutto di abusi) è sia un atto di redenzione individuale che uno sforzo collettivo. Scrivendo Bless Me Father, d’Offizi rivisita i traumi della sua vita con l’intenzione di superarli e nel farlo condivide il peso dell’angoscia con carnefici, sopravvissuti, la sua famiglia e i suoi lettori. 

Traumi repressi e scrittura

Il disturbo post-traumatico da stress (PTSD) è una grave malattia psicologica della quale soffrono gli individui che sono stati esposti a stress, violenza o perdite devastanti. Casi di PTSD sono documentati in numerosi studi sugli stati di salute mentale registrati nei soldati di ritorno dalla guerra; ciononostante, le complesse ramificazioni di questa malattia sono state comprese solo negli ultimi decenni. 

d’Offizi ha vissuto diverse esperienze traumatiche, tra le quali violenza domestica, morte di persone care, divorzio, partecipazione a una guerra e abusi fisici e sessuali. Tutti questi traumi non sono stati affrontati e curati. La risposta standard nei casi di PTSD non trattato è lo sviluppo di meccanismi di sopravvivenza disadattivi che favoriscono il potenziale riemergere dei sintomi del trauma. Questi meccanismi di sopravvivenza interferiscono anche con il benessere generale e con la capacità di stabilire e mantenere relazioni sane con i membri della famiglia e con i propri cari, provocando sentimenti di isolamento, frustrazione, risentimento, tensione e conflitto. Bless Me Father testimonia gli effetti a breve e a lungo termine del PTSD non trattato, come ansia, attacchi di panico, insonnia, flashback, incubi, instabilità emotiva, depressione, sbalzi d’umore, dipendenza da sostanze e problemi relazionali: “L’idea di essere schizofrenico mi tormentava di tanto in tanto, sempre accompagnata da respiro pesante, sudorazione, palpitazioni e un terribile prurito al collo, al viso e alle braccia. Scacciavo sempre il pensiero dalla mente, mi rassicuravo e tiravo avanti come potevo” (d’Offizi 2007b, 153).

Nelle narrazioni del trauma come Bless Me Father, aprirsi è un passo necessario verso la piena guarigione da un PTSD non trattato: è un atto catartico, ma anche politico che interroga le relazioni di potere, poiché “punta l’indice contro violenze ingiustificate, e ritiene responsabili i carnefici piuttosto che le vittime” (Rose 1999, 175). Inesorabilmente, tali denunce sono accolte con scetticismo e resistenza da coloro che sono direttamente o indirettamente accusati di comportamenti abusivi. Bless Me Father non fa eccezione, e sia le istituzioni cattoliche che gli organi di stampa hanno reagito alle denunce di d’Offizi con risposte fuorvianti. Ad esempio, Chris Townsend (responsabile dell’informazione presso la Southern African Catholic Bishops Conference, o SACBC) ha dichiarato che il contenuto del libro era “semplicemente non credibile” (Ajam e Smith 2007). Come sostiene giustamente Tulli (2010), questa è la strategia standard adottata dalle istituzioni religiose e dai media tradizionali quando vengono alla ribalta storie di abusi su minori da parte di ministri della Chiesa. L’obiettivo è sminuire le implicazioni dell’abuso o degli abusi e mettere in dubbio la legittimità dei racconti dei sopravvissuti. 

Nei paragrafi che seguono la discussione si concentra sul rapporto a doppio taglio tra d’Offizi e Reginald Orsmond, il direttore del collegio cattolico che ha ospitato d’Offizi per alcuni anni quando era adolescente.

D’Offizi e il suo padre putativo: abuso sessuale, paternità incestuosa e sopravvivenza

Come anticipa il titolo del libro, la riflessione sull’idea complessa e incongrua di una “paternità cattolica” costituisce il topos centrale dell’autobiografia di d’Offizi. Per focalizzare la discussione sulle narrazioni del trauma, l’attenzione è rivolta al rapporto tra d’Offizi e una figura paterna violenta e predatoria, e l’accento è posto sul processo di recupero emotivo e di ridefinizione di sé da parte dell'autore.
Per i sopravvissuti, l’impresa autobiografica è un tentativo di gestire i sentimenti repressi, venire a patti con ricordi dolorosi e rompere il silenzio che li circonda per dare significato a esperienze traumatiche. Scegliendo Bless Me Father come titolo per la sua autobiografia, d’Offizi porta consapevolmente alla luce episodi inquietanti del suo passato e esplicita la fonte del suo silenzio mutilante. L’atto di dare questo titolo alla storia della sua vita segna l’inizio di una “road map” riabilitativa, offrendo dettagli espliciti sulle crudeltà che ha dovuto subire, e gli permette di creare un contesto in cui la sua voce possa riverberare ed essere ascoltata. 

Nel capitolo 11 d’Offizi parla dei molteplici casi di molestie sessuali commessi da Reginald Orsmond nei suoi confronti durante il periodo trascorso alla Boys’ Town. Orsmond era un vescovo cattolico molto stimato che ha presieduto il Consiglio dei sacerdoti del Sudafrica ed è stato vescovo di Johannesburg dal 1984 fino alla sua morte avvenuta nel 2002. Nel 1958 fondò Boys’ Town nel Magaliesberg, il più grande collegio privato per bambini del Sudafrica. Il tredicenne d’Offizi vi risiedette negli anni Sessanta.
Il testo riporta un altro episodio in cui d’Offizi e altri alunni furono invitati da un giovane prete a praticare la masturbazione di gruppo (d’Offizi 2007b, 59), ma questo evento ha poca rilevanza nella ricostruzione che l’autore fa degli abusi sessuali subiti in gioventù. Le violenze che hanno avuto un impatto a lungo termine su d’Offizi sono quelle perpetrate da Orsmond, per due motivi: 1) Orsmond abusò sessualmente di lui in diverse occasioni e 2) essendo il deus ex machina dell’istituto, rappresentò una figura paterna per lui e per i suoi compagni di scuola.

Bless Me Father è stato pubblicato in un periodo in cui diversi scandali di abusi clericali su minori circolavano nei media (Tulli 2010, 25-50). Le storie raccontate dai sopravvissuti a questi abusi sono molto simili e la paternità gioca un ruolo centrale nelle loro dinamiche interne. Il più delle volte il predatore sessuale è una figura paterna (o quasi) alla quale il bambino guarda con ammirazione: un parente, un amico di famiglia, un insegnante, un prete. A causa di questa distorta relazione “padre-figlio”, Forno[7] sostiene, a ragione, che gli abusi religiosi sui bambini sono impropriamente definiti come episodi di pedofilia o efebofilia; a suo parere, un ministro religioso che abusa di un bambino è paragonabile a un genitore incestuoso (in Tulli 2011, 317). Questa tesi è corroborata dal fatto che i sacerdoti hanno un potere spirituale sulle loro vittime, che li riconoscono come “padri”. Questo è un fattore determinante, e si trova al centro della trama narrativa di d'Offizi. Osservando questa peculiare relazione vittima-carnefice da una prospettiva comportamentale e psicologica, si può affermare che si tratta di un caso di abuso incestuoso. Nel dettaglio, d’Offizi sottolinea come non sia mai stato stuprato e non ci sia stata alcuna penetrazione o aggressione fisica durante gli incontri con il suo molestatore: “Mi sono rifiutato di esercitare sesso orale o di essere sodomizzato. C’erano solo sfioramenti e baci” (Cohen 2007).

Uno dei fattori che favorisce questi contesti di abuso è l’ambiguità che permea il lessico religioso e la pratica consolidata di costringere gli alunni a chiamare “padre” i loro educatori. Orsmond era comunemente conosciuto a Boys’ Town come “Padre Orsmond”, e alcuni residenti si spinsero oltre in questo processo di mitizzazione e storpiatura chiamandolo “Big Daddy” (Ajam e Smith 2007).  Per un bambino che è stato sradicato dalla sua famiglia, la presenza di una figura spirituale paterna diventa un sostituto della relazione con i genitori perduti. I bambini dipendono quasi totalmente da un “padre” illusorio che, per legge canonica, non può procreare, ma che tuttavia rappresenta la loro unica guida “genitoriale”. Questa ambiguità linguistica e semantica crea le condizioni per un comportamento abusivo, poiché il predatore può manipolare le sue vittime facendo perno su  questo paradosso. Di solito, queste relazioni di potere si basano sulla fiducia e sull’affetto e il predatore opera da una posizione di controllo che gli permette di esercitare la sua autorità anche senza intimidazione o violenza fisica. 

Per il predatore è fondamentale conquistare la fiducia e il rispetto della vittima, in modo da sostituire gradualmente i genitori biologici come punto di riferimento istintivo del bambino. Quando questo processo di adescamento della vittima riesce, il predatore è in grado di mettere in atto “l’assalto alla preda”. Le testimonianze dei sopravvissuti rivelano come i predatori pianifichino accuratamente i loro abusi: il caso di d’Offizi non fa eccezione, e ciò è confermato dal fatto che gli venivano sempre offerti alcolici prima di essere obbligato da Orsmond a compiere atti di natura sessuale:  “Mi faceva sempre bere all’inizio dei nostri incontri ed è stato così che ho iniziato a conoscere l’alcol” (Cohen 2007). 

Dopo aver letto Bless Me Father, un ex allievo della Boys’ Town si è rivolto a d’Offizi per informarlo che abusi identici erano stati inflitti a suo fratello: “Mi ha detto che suo fratello minore (ora deceduto) ha vissuto un’esperienza simile [...] secondo questo testimone, che ha chiesto di rimanere anonimo, Orsmond ti invitava nella sua stanza e cantava per te, ti dava da bere, ti metteva le mani tra le gambe e ti diceva che non c’era niente di male a provare certi impulsi” (Cohen 2007).

Astuto manipolatore, il predatore pianifica nel dettaglio situazioni nelle quali può sfruttare il carisma che possiede in quanto figura paterna, mettendo le vittime in una posizione di inferiorità e, in ultima analisi, di impotenza. Dopo aver conquistato la loro fiducia, crea un contesto in cui viene lasciato solo con loro; quindi esercita pressioni, consapevole di operare da una posizione di potere e della certezza di essere obbedito. Questo è ciò che accade nella maggior parte dei casi di abusi sessuali su minori, non solo in quelli commessi da ministri della Chiesa.

Dopo d’Offizi, altri ex-residenti della Boys’ Town hanno confessato di aver subito abusi sessuali simili per mano di Orsmond.[8] Inoltre, dopo aver consultato un rapporto del Professional Conduct Committee, alti rappresentanti della Chiesa Cattolica del Sudafrica hanno concluso che le accuse di d’Offizi erano “effettivamente credibili” (Clerical Whispers 2009). Il rapporto indagava su voci che erano circolate nel corso degli anni, delle quali “la Chiesa era a conoscenza [...] già negli anni ‘70” (Rawoot 2010). 

d’Offizi ha chiarito che Bless Me Father non è un’accusa, ma la sua “confessione” (Cohen 2007) e queste dichiarazioni danno credito ai suoi racconti struggenti. Mettere in dubbio l’accuratezza delle rivelazioni dell’autore – e quindi screditare la sua storia – è un’esercizio sterile, perché il tono pacificante della scrittura di d’Offizi e la totale assenza di manifestazioni di risentimento confermano che l’autore ha assolto il suo molestatore. Questa opinione è ulteriormente corroborata dal fatto che d’Offizi afferma ripetutamente di considerare Orsmond un insegnante prezioso e la Boys’ Town un’istituzione che ha svolto un ruolo fondamentalmente positivo nella sua crescita; oltre a ciò il poeta rimase in contatto con il vescovo anche dopo aver lasciato la Boys’ Town. In effetti, d’Offizi ricorda il suo padre putativo senza giudicarlo ed evita di presentarsi come una vittima; mette a nudo i propri  segreti più intimi e le proprie paure, ma non permette mai alla rabbia e al rancore di prendere il sopravvento e di modellare il tono della narrazione.

 Come osserva acutamente Miller (2007, n. p.) nella sua prefazione a Bless Me Father, l’autore “tratta gli abusi nella sua storia con un estrema circospezione e cautela emotiva” e “non pone mai queste circostanze al centro della sua storia, che è ricca di calore e umanità”. Come osserva Simmermacher (2007), invece di discutere sulla veridicità della storia di d’Offizi, si dovrebbe piuttosto “trovare in essa una lezione sulla virtù cristiana del perdono. Piuttosto che contestare il motivo per cui il signor d’Offizi ha impiegato così tanto tempo a farsi avanti con le sue affermazioni, dovremmo riflettere su quali lezioni si possono trarre dalla sua storia”. 

Con questo articolo ho cercato di raggiungere questo obiettivo, celebrando un poeta la cui storia di vita singolarmente drammatica è fondata sulla compassione e sull’amore. L’intento non era quello di screditare ulteriormente il comportamento depravato del defunto “Padre” Orsmond, ma di esaminare come il rapporto problematico tra l’autore e una delle sue figure paterne abbia contribuito alla strutturazione di una narrazione autobiografica originale e innovativa. 

Il padre biologico di d’Offizi, Lello, era italiano, mentre sua madre, Joyce, era irlandese; è interessante notare come Bless Me Father non si interroghi sul retaggio irlandese dell’autore. d’Offizi ha visitato due volte il paese natale di suo padre, Palestrina, ma non c’è traccia, nella sua autobiografia o altrove, di viaggi in Irlanda “alla ricerca dei giardini di [sua] madre” (Walker 1983)[9]. Inoltre, d’Offizi rivisita a fondo il suo rapporto con Lello nel Capitolo 2, mentre i racconti sulla madre sono scarsi e disarticolati: “Ha avuto 13 gravidanze. Nove nascite e quattro aborti, dai suoi primi due mariti” (d’Offizi 2007b, 21); “Mia madre condusse una vita spericolata, ma dura e tragica... Mia madre era una donna molto bella... [arrivò] a Bloemfontein nel 1948, dove incontrò mio padre” (d’Offizi 2007b, 110-113). Ciò fornisce un’ulteriore prova della tesi secondo cui d’Offizi abbia dovuto scavare nel rapporto con i suoi padri, sia biologici che surrogati, per poter intraprendere il suo viaggio autobiografico: è con le sue figure paterne che ha dovuto fare i conti per dare un senso alla sua storia di vita.

Conclusione

Bless Me Father è una testimonianza di sopravvivenza, resilienza e resistenza. Rievocando le numerose esperienze dolorose vissute nel corso di una vita ai margini estremi del “Sudafrica bianco”, d’Offizi fornisce un ritratto senza precedenti (anche se non esemplare) di un uomo bianco svantaggiato cresciuto durante l’apartheid. Bless Me Father è molto più di una denuncia di molestie sessuali: è una storia costellata di esperienze traumatiche (la guerra in Angola, matrimoni falliti, la perdita di un figlio e di diversi parenti, la vita spigolosa nei quartieri poveri di Johannesburg, Durban e Città del Capo), narrate dall’autore con sorprendente distacco. d’Offizi riesce a documentare gli eventi angoscianti della sua vita con un tono leggero e a tratti divertente. La sua narrazione, rigorosamente fattuale, è carica di gentilezza ed è arricchita dalla vivacità immaginativa di un vero poeta. Dopo aver sfogliato le pagine di Bless Me Father, il lettore capisce che è possibile  guarire se si affrontano i propri demoni con ottimismo.

Bless Me Father documenta la storia travagliata ma estremamente affascinante di un poeta sudafricano brillante e sottovalutato. È una storia di redenzione, raccontata da un sudafricano bianco “marginale”, che offre spunti stimolanti sulla funzione duratura della letteratura come “medicina” efficace per guarire individui e comunità. Come altre autobiografie sudafricane, quella di d’Offizi illustra con successo uno dei percorsi che si possono intraprendere per  superare esperienze traumatiche con un atteggiamento positivo: riesce in questo immane compito in virtù dell'uso consapevole di un linguaggio e di uno stile di scrittura che vanno al di là delle narrazioni “classiche”  di traumi, e che non lasciano spazio ab origine a nessuna forma di vittimismo, autocommiserazione o autoassoluzione. Storie come quella di d’Offizi arricchiscono la letteratura di narrazioni positive, in una società traumatizzata a più livelli come quella del Sudafrica del post-apartheid. La sua poesia “Childhood” (d’Offizi 2007a, 19, “Infanzia”) distilla in modo evocativo il suo approccio alla scrittura e alla vita e offre una “ricetta” per raggiungere la guarigione sia a livello personale che collettivo:

Per guardare indietro nel
mondo della mia infanzia
devo aprire cancelli bloccati
e scalare pareti alte alte.

Cerco di non vedere i 
giorni in cui vestivo abiti color khaki
negli spinosi parchi giochi
della mia giovinezza,

ma i volti degli amici
con cui ho lavato pavimenti
coi quali sedevo a tavola
mangiando ravioli;

non  sento
lo sferragliare
di un pesante
mazzo di chiavi,

il ronzio delle 
preghiere della sera,
o di grida battenti,

           ma i sogni
           condivisi con gli amici... 

To look back into
my childhood world
I must open locked gates
and climb high walls.

I try not to see the 
khaki-clad days
in the thorny playgrounds
of my youth,

but the faces of friends
I scrubbed floors with
or sat across at table
eating dumplings;

nor do I hear
the rattling
of a heavy
bunch of keys,

the drone of 
evening prayers,
or beaten cries,
          but the dreams
         I shared with friends … 

(Traduzione dall’inglese di Dome Bulfaro)

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 Note

[1] “Avere una valigetta per piccioni e felicità”, “Loop street 4 del mattino”, “Colori”

[2] capitale giudiziaria del Sudafrica, NdT

[3] Per un’analisi articolata di Bless Me Father, si vedano le recensioni di Torlesse (2009) e Vivan (2011).

[4] Altre autobiografie di poeti bianchi sudafricani degne di nota sono A Fork in the Road: A Memoir (2009, Un bivio sulla strada: memorie) di André Brink, White Boy Running (2014, Ragazzo bianco che corre) e The Café de Move-on Blues: In Search of the New South Africa (2018, Il Café del Move-on Blues: alla ricerca del nuovo Sudafrica) entrambi di Christopher Hope. Per un’analisi di questi testi si veda De Kock (2019) e Englund (2022).

[5] d'Offizi non è stato l'unico poeta sudafricano di origine italiana ad aver pubblicato un'autobiografia. Il suo illustre predecessore è Don Mattera, nipote di “Francesco Paulo Mattera [che] giunse in Sudafrica da Napoli, Italia, nel 1904 [...] e Minnie Rawana, una bellezza dagli occhi affusolati  di origine Xhosa e Griqua” (Mattera 1987, 28). Mattera racconta le sue esperienze avventurose nel suo classico Memory is the Weapon (1987, La memoria è l'arma); un’analisi di questa straordinaria storia di vita non è inserita in questo articolo, che si concentra esclusivamente sui poeti bianchi sudafricani. Per un'ampia panoramica sull'opera e sulla vita di Mattera, si veda il numero monografico della rivista letteraria online BKO a lui dedicato e la bibliografia in esso contenuta: https://bkomagazine.co.za/download/bko-no-2-vo1-5-don mattera/

[6] Nel capitolo 12 d’Offizi ricorda le volte in cui, tormentato da attacchi di panico, ha dovuto consultare uno psicologo (d’Offizi 2007b, 154).

[7] Pietro Forno è un magistrato della procura di Milano. Da oltre vent'anni dirige una squadra investigativa speciale che si occupa di stupri e molestie sessuali.

[8] In particolare, uno di loro aveva origini italiane, Diego Zotta, di Pretoria, “[che ha dichiarato] di aver subito abusi per la maggior parte dei tre anni trascorsi nella casa da adolescente” (Clerical Whispers 2009).

[9] In una conversazione via e-mail, ho chiesto a d’Offizi se avesse mai visitato l’Irlanda per fare ricerche sulla sua famiglia irlandese. Come risposta, mi ha inviato questa storia avvincente che, con il suo permesso, condivido qui: “Nel 2008 mi sono recato in Irlanda per un viaggio sponsorizzato da Ireland Tourism. Il nonno di mia madre era un Martin. Ho chiesto il nome all’autista che ci ha portato da Dublino a Belfast e poi a Galway Bay. Mi ha risposto che era inglese. Tuttavia, sulla strada per Galway ci siamo fermati in un castello per prendere un tè. All’esterno c’era una targa che recitava più o meno così: “La casa di Joe Martin, fondatore della società contro la crudeltà sugli animali”. Quando l’ho fatto notare all’autista, mi ha detto: “Beh, non posso sapere tutto”. Ci siamo poi spostati a Galway, un’importante città universitaria sulla costa occidentale. Dopo aver fatto il check in in albergo, ho chiamato un taxi per farmi portare ai Quays, sul lungomare, dove si trovano i pub ecc.  Ho chiesto all’autista di lasciarmi in un pub. Mi ha risposto che ce n'erano decine. Poi mi ha chiesto cosa facessi per vivere. Gli ho risposto che ero uno scrittore. Mi ha risposto: “So esattamente dove lasciarti. C’è un pub frequentato da scrittori, musicisti, poeti”. Mi lasciò in un tipico pub. All'ingresso, accanto alla porta, c’era una targa che recitava: “La casa di campagna di Joe Martin”. Mi è venuta la pelle d’oca. Galway è una città di pescatori e mio nonno era capitano di una nave da carico in Africa (vedi Bless Me Father). Da bambino mia madre cantava sempre quella famosa canzone: ‘Galway Bay / If you ever cross the seas to Ireland / You’ll see the sun go down on Galway Bay’. La sensazione di sincronicità mi esaltò. Quelle furono le uniche tracce. Non ho cercato di scoprire altro”.

 

 


 

Raphael D'Abdon

Raphael d'Abdon è uno scrittore, ricercatore, editor e traduttore. È research fellow alla University of South Africa (UNISA) e autore di quattro raccolte di poesie, sunnyside nightwalk (Geko, 2013), salt water (Poetree Publishing, 2016), the bitter herb (The Poets Printery, 2018) e Poesie Scelte – Selected Poems (2010 – 2020) (Besa, 2022). È rappresentante del Sudafrica dell’AHN (Africa Haiku Network) e membro fondatore del progetto di ricerca internazionale ZAPP (The South African Poetry Project). I suoi studi su spoken word poetry, poetic inquiry e poetry therapy sono pubblicati in riviste e volumi e la sua prossima pubblicazione è Poetic Inquiry As Research. A Decolonial Guide (con Heidi van Rooyen), Policy Press, 2025.


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