Poetry Therapy Italia

04 SANDRON castoldi

 

Scrivere poesie – o altre indefinibili forme – è azione assoluta, e difficilmente sembra essere soggetta a regole o a metodi capaci di contingentarla, preservandone autenticità e immediatezza. Eppure, se portiamo l’attenzione sottile all’interno di noi stessi, possiamo scoprire sorprendentemente che abbiamo il nostro intimo metodo. E questo ci permette di scrivere sempre di più, e meglio. Possiamo imparare ad addomesticare, con strumenti gentili e adeguati, l’emersione selvaggia di qualcosa che riteniamo un’esperienza o opportunità di scrittura. Quando la nostra pratica si è consolidata, riusciamo a non perdere l’occasione di ogni affioramento.

In questo corso di due giorni ho solo cercato di condividere con i partecipanti le mie regole intime e la mia esperienza della scrittura, affinché ognuno di loro potesse reagirvi. 

La prima parte del corso si è svolta in cerchio, dove il centro è stato un ancestrale fuoco attorno al quale stringersi in dialogo euristico tra sé e con gli altri. Il fuoco e la scrittura poetica condividono forse la natura di addomesticati, e, nel cerchio, il fuoco era il rapporto con la propria dimensione più intima. Come il fuoco che, nella notte dei tempi, da accadimento misterioso è divenuto un potere governabile, così la scrittura poetica può diventare un procedimento di accesso al proprio mistero e a quello del mondo.

Che cosa significa addomesticare? Significa portare in casa (domus), cioè, in questo contesto, dire: portare nella scrittura il selvaggio che è in noi, le forme e i contenuti più profondi, innervati nel nostro suolo arcaico. Forme-contenuti-radici che hanno i piedi bagnati. Il selvaggio è un luogo umido dove tutto vive in sovrapposizioni e condensazioni.

Per accedere al selvaggio dobbiamo entrare in un bosco dove esso appare, così come incontriamo un animale. La forma dell’incontro con il selvaggio è un’apparizione, un guizzo, la possibilità di uno sguardo, un’opportunità, il momento propizio: in un tempo che non è semplicemente tempo cronologico (chrónos), ma è tempo che contiene l’azione precisa (kairós). Uno sguardo e un dire che lasciano vivere il selvaggio con il rispetto e la paura necessari, perché il selvaggio può essere terribile. Sì, spaventa. E non sempre ne siamo all’altezza. Per questo corriamo due rischi: quello di un addomesticamento violento, dove il selvaggio è reso innocuo, mite, inoffensivo, prigioniero di una scrittura convenzionale e sentimentale; o quello di essere aggrediti, avendone la scrittura divorata. Occorre addestrarsi, occorrono le maniere adatte.

Paul Claudel aveva raccontato la favola limpida della razionalità – animus – e della sua relazione con il selvaggio – anima. Animus è rapito dalla bellezza della voce di Anima, ma presto inizia a competere con lei. La definisce ignorante e sciocca, lui invece è andato a scuola, è pieno di teorie, è colto. Lei è incolta, come un terreno libero dalle mani. Così lei non canta più in sua presenza. Anima tace quando Animus la guarda. È proprio come non deve essere. Animus e Anima devono ritornare l’uno in presenza piena dell’altra. Non devono escludersi reciprocamente. Addomesticare non può significare rendere il selvaggio muto, ma farlo presente, costruirgli una lingua, una scrittura, ospitarlo, se vuole, in una casa capace di proporzionarsi su di esso. Una casa che si modella. Tanto piccola, tanto grande. A misura.

Addomesticare è sempre un addomesticarsi, ovvero un apprendimento delle maniere per non svuotare il selvaggio di vita e forma. Ma quali sono le maniere dell’addomesticare? Ne ho proposte alcune.  

La maniera del coraggio: da cor, cioè cuore in latino: significa avere a cuore di vivere all’altezza della propria scrittura. Il coraggio non ci fa essere temerari, ovvero ignari o sprezzanti del pericolo, come chi agisce alla cieca. Nel coraggio contemperiamo la paura che sostiene la spinta verso il nostro sé quasi sconosciuto, sebbene intimo. Slancio con il cuore e verso il cuore.

La maniera della precisione: non possiamo che dire precisamente, il nostro dire non può essere che a fuoco, se vogliamo dire il selvaggio. Spetta a noi raffinare l’orecchio per cogliere la lingua dell’anima, ci dobbiamo addestrare all’ascolto. Non c’è scelta nella scrittura dell’anima. C’è solo adesione o scollamento. Si tratta di adesione al sentire, che nulla ha a che vedere con l’esattezza dell’intelletto. Dobbiamo imparare una lingua straniera e articolare i suoi suoni precisamente.

La maniera dell’agudeza: come la descrive Baldassar Gracián, traducendola con argutezza, o con acutezza, è la capacità di vedere e creare corrispondenze. Freud usa il termine Witz, che traduciamo con “motto di spirito”: si tratta del saltare i passaggi, del far cortocircuitare la logica, in virtù di un perfetto meccanismo di condensazione. Gli antichi greci parlavano di enárgheia, ovvero della visione a colpo d’occhio; e Omero, dove per la prima volta compare il termine, identificava l’enárgheia come l'immediato riconoscimento degli dei visti in sogno. Sì, l’agudeza è la maniera dello sguardo che condensa, lo sguardo dell’enárgheia.

La maniera della gentilezza: la gentilezza contiene in sé più risolutezza di qualsiasi altra inclinazione, lega senza stringere, e non è nei modi cortesi: si spinge nell’animo profondo dove incontra e si identifica con l’amore. Nobile è l’amore e l’amore è gentile: la gentilezza è dell’amore come il calore è del fuoco, e nel cuore nobile l’amore trova sempre riparo. Così il poeta Guido Guinizzelli cantava. Amica affidabile, profonda custode delle leggi del rispetto, la gentilezza offre un riparo, un’appartenenza, un luogo tiepido dove una piccola luce è sempre accesa e orienta chi naviga o si incammina, di notte.

La maniera della costanza: qualcosa a cui non sono mai arrivata, avendo più familiarità con il discontinuo. Ma ho portato nel cerchio due esempi che mi sono sempre da stimolo. Il primo è offerto dal pensiero 158 di Pascal: “Bisogna congiungere all’interno l’esterno, per ottenere da Dio: ossia, mettersi in ginocchio, pregare con le labbra, ecc., affinché l’uomo orgoglioso che non ha voluto sottomettersi a Dio, sia ora sottomesso alla creatura. Aspettare da quegli atti esteriori l’aiuto è superstizione; ma non voler congiungerli a quelli interiori è superbia”.

Per Pascal, bisogna darsi da fare, decidersi e impegnarsi per arrivare alla fede, anche attraverso l’umiliazione dell’allenamento meccanico del corpo. Il secondo esempio viene invece dall’esperienza e dalle parole di Francesco Alberoni, con il quale ho avuto l’onore di lavorare nei tre anni prima che morisse: per scrivere occorre disporsi in atteggiamento di umiltà, seduti alla scrivania, ogni singolo giorno. Entrambi gli esempi parlano di una maniera esteriore in grado di veicolarci nel luogo che cerchiamo di raggiungere. Ci parlano cioè della bontà della pratica quotidiana.

E così il primo giorno del corso si è concluso con uno scambio molto profondo dove ogni partecipante ha messo in cerchio la propria prospettiva. 

Nella seconda parte dell’incontro ho proposto un’attività diversa: un’uscita esperienziale individuale nei dintorni, in grazia di una nebbia eccezionale, che ho chiesto di considerare come un’occasione, un’opportunità, un’apparizione della bellezza avvolgente del mondo o un luogo favorevole per un incontro con se stessi. Da non perdere, ma da affrontare con i propri sensi acuiti e straniti. Ogni partecipante è tornato con un testo scritto. Abbiamo letto insieme ad alta voce ogni testo e ne abbiamo parlato alla luce delle suggestioni del giorno precedente. In ognuno di essi almeno un verso, una riga, rivelava un accesso al selvaggio. Lo riconoscevamo! E questo ci ha emozionati, ci ha fatto sentire vivi, in connessione con noi stessi e tutti gli altri. Anche io ho scritto, ma non ho avuto il tempo di condividere il testo nel cerchio. Lo faccio qui, e rileggendo quanto ho scritto, richiamo quella giornata opalescente di gennaio:  

Oggi la nebbia non se ne andava per lasciare limpidezza al mattino. E così sono rimasta anche io, abbandonata alla mancanza di confini, tra il vicino e il lontano. Con fiducia nello spazio, se una cornacchia ne restituiva il suono. La nebbia sta nell’affioramento, e me stessa, nella fiducia. Non torno indietro. Voglio procedere in cerchio. Achille, il mio cane, parte in caccia immaginaria. Salta, insegue, si ferisce, per prede magiche. «Facciamo come se ci fosse il mondo? E noi due parliamo, parliamo… E facciamo che al di là di quel bosco abito io e la mia casa fa luce? Si può questo?» chiedo alla nebbia. «Sì, si può». E io: «Grazie per il camino acceso».

 

 


 

Roberta Castoldi

Roberta Castoldi è poetessa, violoncellista e traduttrice. È laureata in Filosofia e Dottore di Ricerca in Scienze Cognitive. Le sue poesie sono apparse per la prima volta nel 1998 sulla rivista Poesia (Crocetti). Ha pubblicato le raccolte La scomparsa (LietoColle Libri, 1999) con prefazione di Franco Loi; Il bianco e la conversazione (Marietti, 2007) a cura di Davide Rondoni; La formula dell’orizzonte (AnimaMundi Edizioni, 2022) a cura di Franca Mancinelli e Rossana Abis, con prefazione di Donatella Bisutti. I suoi lavori sono stati inseriti in antologie poetiche curate da Mario Santagostini, Maurizio Cucchi e Plinio Perilli; riviste scientifiche (Intersezioni di II Mulino) e di cultura (PantaEditoria a cura di Elisabetta Sgarbi e Laura Lepri). Ha curato per Einaudi Il libro di Morgan (2015).

Come violoncellista ha lavorato in studio e dal vivo con artisti italiani e internazionali. Ha tradotto dal francese testi di Baldine Saint-Girons, Jean-Jacques Wunenburger e Maxence Fermine.


» La sua scheda personale.