In questo contributo si evidenziano “le ragioni che rendono la parola elemento centrale della narrazione e, in particolare, come la narrazione che si fonda sulla parola poetica assuma un valore particolare avendo in sé una potenzialità rigenerativa e quindi “di cura”, nella accezione più ampia di questo significato.”
Premessa: dalla epistemologia alla poesia
La Parola è stata il primo e il più antico strumento della narrazione
Andrea Bernardelli, 1999
La caratteristica saliente dell’essere umano è la sua vocazione sociale.
E ciò deriva dalla straordinaria evoluzione del suo sistema nervoso, essendo questa la principale prerogativa che lo distingue dagli altri esseri animati. La specificità evolutiva del cervello umano si può sintetizzare nella capacità di integrazione delle informazioni che gli provengono sia dall’esterno, ma anche dall’interno del proprio essere. Sia ben chiaro, il riferimento non è solo alla capacità di elaborare la propria consapevolezza in termini razionali, di pensiero logico, ma anche alla dimensione affettiva, emozionale e anche alla componente della percezione di un sé corporeo, che permette all’essere umano di sperimentarsi come presenza nel mondo.
La modalità con la quale la persona esprime tutto ciò è sintetizzata nel fatto di aver sviluppato la competenza del linguaggio, e qui ci si riferisce specificatamente al linguaggio verbale, forma comunicativa potente e dalle potenzialità inesauribili.
In altre parole, l’uomo non sarebbe quello che è se non avesse spinto la sua capacità di pensiero, la sua creatività e la sua sensibilità nel fiume del linguaggio verbale.
Per questo possiamo dire che l’uomo estrinseca la sua vocazione sociale attraverso la narrazione.
Cercherò in questo contributo di evidenziare le ragioni che rendono la parola elemento centrale della narrazione e, in particolare, come la narrazione che si fonda sulla parola poetica assuma un valore particolare avendo in sé una potenzialità rigenerativa e quindi “di cura”, nella accezione più ampia di questo significato.
Va detto che la narrazione è un fatto spontaneo, automatico, imprescindibile rispetto alla condizione umana. Al punto che i teorici della comunicazione hanno postulato, tra i vari assiomi, quello secondo il quale sia impossibile non comunicare e, in tal senso, anche il silenzio va inteso come un atto comunicativo denso di significati.
Ma se la narrazione è una modalità automatica, bisogna sottolineare come essa possa incanalarsi in sentieri scivolosi e persino disfunzionali.
A proposito di ciò, alcuni modelli epistemologici più di altri hanno dato risalto alla possibilità che il malessere delle persone, e persino le forme di franca patologia psichica, possano essere ampiamente condizionati da modalità comunicative disfunzionali. Non c’è da stupirsi che, in particolare, le Scuole che hanno proposto e sviluppato il così detto Modello Sistemico abbiano messo molta attenzione sul linguaggio e la comunicazione. Questo si spiega per il fatto che, in questa prospettiva epistemologica, il benessere e il malessere delle persone viene letto all’interno delle vicende e delle dinamiche relazionali (sistemi familiari, gruppi...) e, quindi, dentro i flussi comunicativi e di conseguenza narrativi.
Secondo questo approccio due autori inglesi, White e Epston, arrivano a dire che i comportamenti problematici a livello familiare dipendono dal significato che i singoli membri della famiglia attribuiscono a determinati eventi. E i significati si costruiscono attraverso il racconto stesso, che non solo li definisce, ma li rafforza nel tempo. I significati attribuiti da ciascuno divergono perché, pur vivendo le medesime situazioni, potremmo dire una unica storia, le singole persone la percepiscono, la decodificano e la vivono da un vertice di esperienza individuale. Secondo questi due autori, le persone entrano in una sofferenza e vanno in terapia quando le storie che raccontano di sé o che altri raccontano di loro contraddicono la loro esperienza concreta di vita.
Per capire questa interpretazione di come si arrivi ai fenomeni disfunzionali, alla sofferenza e anche alla franca patologia, bisogna sottolineare alcuni aspetti della narrazione individuale che possiamo definire sinteticamente come: la costanza del racconto, la coerenza del racconto che richiede omissioni, la omologazione del racconto.
La costanza del racconto sta a significare che ciascuno tende a raccontarsi dentro una storia che rimane stabile e sempre uguale, nel senso che il timido si racconta sempre come timido, il ribelle come ribelle, il guitto come guitto. Se i miei genitori non mi hanno mai capito fin da bambino sarà così all’infinito, se mio figlio non mi viene mai a trovare e mi ha abbandonata nella condizione di persona anziana sarà sempre così.
Per dare linearità (coerenza) alla nostra narrativa personale finiamo per omettere alcuni eventi che risultano non coerenti con la nostra storia. Gli elementi omessi sono le eccezioni, cioè le evenienze che contraddicono il nostro assunto di base, possiamo dire le eccezioni che tolgono credibilità al nostro racconto.
L’ultimo elemento, l’omologazione del racconto, prevede che la nostra narrazione peschi da un repertorio che è socialmente determinato, venendo condizionato da ideologie dominanti. Le storie si basano spesso sul mancato rispetto di obiettivi o princìpi che hanno un fondamento sociale radicato nel contesto in cui viviamo. Come vedremo, dare spazio a narrazioni alternative, rigenerative, implica una sorta di ribellione all'ideologia dominante, quella che Gianfranco Cecchin ha definito l’irriverenza.
Se ci muoviamo in un dominio concettuale che propone la poesia come pratica rigenerativa, curativa, preventiva del malessere, non possiamo prescindere dal considerare come la parola, caposaldo primigenio della narrazione, possa svolgere un’azione di modificazione sul racconto che l’individuo fa di se stesso.
È bene ribadire che il concetto di Poesiaterapia non va inteso come ricavato dal modello medico classico e correlato alla pratica farmacologica. La farmacoterapia tradizionale prevede l’individuazione di molecole chimiche, con struttura diversa da quella biochimica di cui siamo costituiti, che vadano a correggere alterazioni strutturali, deficit o danni subiti dalle cellule del nostro organismo. In quel caso, si tratta di una azione esterna, potremmo dire artificiale, esattamente come quando l’ortopedico posiziona delle placche metalliche o delle viti per tenere un osso che si è malamente spezzato.
Nel caso della poesia applicata a sostenere il benessere delle persone, si va ad agire in modo naturale in quanto la parola è profonda espressione della natura umana, cioè elemento specifico e diremmo definitorio della nostra essenza individuale e sociale. E la parola poetica va a risanare ciò che le parole hanno contribuito ad alterare, a rendere disfunzionale. Quello che intendiamo con l’espressione “poesiaterapia” non è, dunque, un’azione esterna di tipo “protesico”, bensì un intervento endogeno che riapre spazi espressivi e narrativi meno angusti e univoci, affinché la persona possa essere aiutata a trovare modalità diverse di vivere in rapporto a sé stesso, agli altri e agli eventi che la vita ci srotola intorno.
Il nostro nome: la narrazione più precoce
Dopo una premessa densa di concetti e di riferimenti, è bene tornare alla concretezza dell’esperienza delle persone con cui si entra in contatto negli interventi di Poesiaterapia, ma anche delle persone che incontriamo ordinariamente e naturalmente nella nostra esperienza quotidiana. Il riferimento è al nome che ogni individuo porta con sé fin dalla nascita.
Per comprendere come il nome sia la madre di tutte le narrazioni, è bene soffermarsi su alcune domande che potrebbero apparire di secondaria importanza, ma che in realtà contribuiscono a farci capire come il nome che individua ciascuno di noi influisca enormemente sul racconto personale che è la nostra vita.
Il mio nome ha un significato particolare? Sia in termini di etimologia, sia in termini di riferimenti a vicende familiari o altre. Come è stato scelto, da chi, perché? Così da definire i contorni che precisano l’inizio della nostra esperienza di vita. Come me lo porto addosso: mi calza bene? Mi sta stretto? Perché naturalmente, in una prospettiva epigenetica, si parte da un inizio, ma la costruzione del percorso di vita risente di contributi stratificati e subentranti. Rispecchia il mio modo di essere?
Ecco che si arriva agli effetti ultimi, nel senso che quando ci presentiamo, o quando gli altri si rivolgono a noi attraverso il nostro nome, risuonano tutta una serie di aspetti e di sfaccettature che vanno dall’inizio della nostra esperienza (addirittura da prima del concepimento e durante tutta la parte di esperienza intrauterina) fino al presente dell’ultima interazione relazionale. Il nostro nome è vela che spinge la navigazione della nostra persona nel porto canale o nel mare aperto della relazione con un carico di presupposti, di sottintesi esperienziali, di blocchi, di facilitazioni, di trappole, di pre-giudizi, di aspettative di cambiamento.
Già nella pronunciare il nome di una persona, avviene qualcosa di potentemente creativo. Che il nome sia il nostro, dell’interlocutore che abbiamo di fronte o che sia il nome che ci ricorda un’altra persona, poco importa. Nel nostro cervello avvengono risonanze intense. Questo succede perché possiamo dire che il nome di ciascuna persona è una parola poetica, cioè una parola che evoca significati molteplici anche se avulsa dalla struttura di una frase, di un periodo, di un discorso. Nella parola che è il nome di ogni persona co-esistono universi multipli e, si badi bene, non sono contenuti o solo cognitivi, o solo emozionali, o solo descrittivi di un tratto di funzionamento comportamentale. In quella parola c’è tutta la stratificazione di ciò che ciascuno sente di essere, nel bene e nel male, delle esperienze fatte, delle modalità prevalenti di interazione relazionale, delle aspettative, dei timori, delle proiezioni e delle interpretazioni che possono riverberare nella relazione con un altro essere umano.
Cosa succede nella nostra persona quando la parola dal nostro orecchio giunge al nostro cervello?
È di conoscenza comune il dato che nel cervello umano esistono precise aree della corteccia formate da neuroni che sono quelli che ci permettono di distinguere i suoni e quindi anche le parole. L’effetto ultimo che deriva dall’ascoltare parole è che il nostro cervello le decodifica e attribuisce loro un significato condiviso: sembrerebbe questa l’essenza dell’atto comunicativo. Onde sonore captate dal timpano giungono, attraverso molteplici passaggi intermedi, alla corteccia e lì le parole pronunciate si trasformano in un concetto condiviso che viene riconosciuto. Per fare questo i nostri antenati hanno dovuto sviluppare competenze che riguardano più ambiti strutturali del cervello. Intanto, partendo dall’esperienza concreta e condivisa, hanno dovuto concettualizzare sia elementi concreti, che concetti astratti; in secondo luogo hanno sviluppato una capacità fonatoria modulabile (diversamente dalle altre specie capaci di emettere suoni preordinati e immodificabili); infine hanno costruito una memoria semantica di ampiezza crescente.
Un aspetto saliente è l’intreccio di più elementi: coscienza, memoria, fonazione e competenze semantiche. Questi quattro elementi definiscono una circolarità di processo che smentisce l’approccio strutturale. Alcune delle funzioni necessarie per questo mescolarsi di elementi sono abbozzate anche in alcune specie meno evolute, ma solo nell’uomo si sviluppano grandemente e la parola emerge come strumento di comunicazione unico e non ripetibile da parte degli animali.
Appare evidente una logica di funzionamento circolare dentro un processo che interconnette sistemi diversi. Su questa complessità abbiamo acquisito tante conoscenze anche se c’è ancora molto da scoprire; gli studi classici partivano da soggetti con delle lesioni di una determinata area o di una determinata via neurologica. Ma un conto è osservare che se si danneggia una determinata area ne conseguirà una certa disfunzione, altra cosa è capire come effettivamente quella funzione si strutturi nei meccanismi di funzionamento ordinari.
Per capire cosa succede quando una parola entra nell’esperienza sensoriale di ciascuno di noi ci è di grande utilità seguirne il flusso, come dice LeDoux.
In realtà questo autore, diventato un classico degli studi di neuroscienze, si è sempre appassionato alle emozioni e si è occupato degli stimoli uditivi per comprendere meglio come il sistema uditivo entri in gioco nel condizionamento alla paura, mediante stimoli sonori. Ma è interessante seguire il percorso che egli ha seguito per arrivare a dimostrare i meccanismi emozionali che sono evocabili da tutti gli stimoli sensoriali. E la parola è essa stessa uno stimolo sensoriale.
Nel percorso dalla membrana timpanica alla corteccia cerebrale, lo stimolo inizialmente sonoro della parola viene trasformato in potenziali elettrici, che le cellule del sistema nervoso, prima periferico e poi centrale, trasportano attraverso stazioni intermedie fino alle aree corticali che permettono la decodifica dei significati. Prima di giungere a quella che possiamo definire la “destinazione cognitiva” nella corteccia, che rappresenta la porzione del cervello di più recente costituzione, lo stimolo-parola attraversa le due parti, in senso evoluzionistico, più antiche del nostro encefalo: il midollo allungato e il mesencefalo.
Queste due stazioni intermedie appartengono alla porzione del cervello che si occupa della modulazione emozionale, che avviene, dunque, per lo più senza il controllo corticale. Questo percorso, che potrebbe sembrare un viaggio lungo e tortuoso, avviene di fatto in frazioni millesimali di secondo. Tuttavia, ciò comporta che le parole abbiano la possibilità di determinare effetti anche molto diversi. Per essere espliciti e puntuali possiamo sottolineare che gli effetti paraverbali (come ad esempio il tono e il volume con cui la parola viene enunciata) determinano automaticamente delle risposte attivate dalle strutture del midollo allungato, che condizionano ad esempio la frequenza cardiaca o la velocità degli atti respiratori di chi ascolta. Ma, soprattutto nelle stazioni del mesencefalo, la parola può determinare un'attivazione emozionale che è sostanzialmente preconscia e legata alle esperienze individuali che sono associate a quel dominio concettuale. Infine, la parola giunge alla corteccia e lì avviene una rielaborazione cognitiva rigorosa, creativa e cosciente. Questa descrizione non deve trarre in inganno per la sua linearità, dal momento che la struttura del cervello è caratterizzata da connessioni circolari e non solo da connessioni unidirezionali. In modo assai sintetico, le strutture appena descritte sono sì collegate in modo “ascendente”, cioè dalla periferia (orecchio) al centro (corteccia cerebrale), ma sono anche collegate, tra loro e con altre, da circuiti neuronali che formano una rete intricata, in grado di favorire il rientro di uno stimolo attraverso una struttura che è già stata attraversata da quella informazione.
Per riprendere quanto accennato prima, lo stimolo verbale, una volta arrivato ai nuclei uditivi del talamo, attraverso una via, sale direttamente alla corteccia ma, attraverso un’altra via, proietta all’amigdala. Dal nucleo centrale dell'amigdala, partono delle connessioni verso le porzioni più basse dell’encefalo (midollo allungato) capaci di influenzare le risposte del sistema nervoso autonomo su alcune funzioni vegetative come la frequenza cardiaca.
In conclusione, nel prendere atto della complessità dei meccanismi del cervello umano, dobbiamo riconoscere che le parole non sono chiavi che aprono singole serrature. Piuttosto si tratta di passepartout che aprono la strada a livelli di consapevolezza, non solo cognitiva, ma anche emotiva e persino di attivazione fisica e motoria. Per questo diciamo che le parole di per sé non sono né “buone” né “cattive”, ma non possiamo neanche dire che siano “neutre”. Di fatto le parole entrano a interagire con il nostro universo di coscienza e nel farlo possono ferire o creare disagio, ma hanno anche la benedetta funzione riparatrice, cioè di innescare processi correttivi, riparativi, rigeneratori. Per questo è importante riflettere sul fatto che, se usate bene, le parole curano.
A questo proposito, mi limito a citare un libro interessantissimo con il quale il professor Fabrizio Benedetti racconta dell’esperienza affascinante, che con il suo gruppo di lavoro è arrivato a dimostrare, di come le parole abbiano la capacità di attenuare il dolore fisico, esattamente come si può fare con potenti molecole che costituiscono alcuni farmaci dolorifici. Non è possibile qui sintetizzare la ricchezza di quel racconto ricolmo di rigore scientifico e di attenzione umana per le persone che hanno partecipato allo studio in “doppio cieco”, con cui Benedetti dimostra come la morfina agisca su percorsi neuronali che sono gli stessi sui quali possono agire, con uguale efficacia antidolorifica, le parole. Egli intende dire che la parola è uno strumento antico, rispetto al quale i farmaci sono arrivati solo successivamente.
È sorprendente scoprire come il risultato terapeutico sia lo stesso: il dolore fisico sparisce. Anche in questo contributo scientifico si insiste su come le parole per essere efficaci debbano essere usate (potremmo anche dire somministrate) con competenza e attenzione, se si vuole che agiscano opportunamente ed efficacemente.
Cosa succede a noi e all’altra persona quando si alternano parole e silenzi
Abbiamo già visto come, fin dalle prime mosse del confronto e del dialogo, nel pronunciare il nostro nome e nel sentire quello del nostro interlocutore, avvengono dei movimenti che definiscono aspetti peculiari del racconto individuale. Bisogna per questo fare molta attenzione alle parole con cui il nostro interlocutore si presenta. In verità anche noi dobbiamo soppesare molto attentamente l’inizio della interazione.
La mia professione, sbilanciata sugli aspetti clinici, mi fa notare, con stupore mai sopito, come ad esempio i ragazzi giovani difficilmente si presentino pronunciando il loro nome. Mi riferisco naturalmente a setting dove incontro giovani appesantiti da un grado di sofferenza psico-relazionale rilevante. Spesso mi capita che si presentino, anziché con il loro nome proprio con una etichetta diagnostica. E questo mi colpisce molto. Anziché “Mi chiamo Elisa e sono al terzo anno del liceo artistico” mi sento dire “Io sono un Disturbo borderline di personalità e mi taglio”. Certo se questo avviene nella valutazione effettuata in un Pronto Soccorso ha un significato specifico. Ma colpisce che una ragazzina di sedici anni senta il bisogno di definirsi attraverso una etichetta diagnostica, piuttosto che attraverso il proprio nome o altre caratteristiche dei propri interessi o delle proprie attività prevalenti, come la scuola, un hobby o una propensione che possa definire una prospettiva futura.
In realtà, come si è detto nella prima parte di questo intervento è prevedibile che ciascuno si ponga dentro una narrativa che risulta ricorrente e definita dentro coordinate ripetitive. Soprattutto in questo nostro tempo complesso e dagli scarsi riferimenti, la necessità di definire la propria identità può passare anche attraverso una definizione paradossale: io sono il mio malessere e quindi mi presento utilizzando una categoria diagnostica.
Tuttavia, se l’ascolto è attento e la risonanza è profonda può succedere che si entri in una sintonia. Ci sono soprattutto delle parole che risuonano in modo particolare e fanno da passepartout, non tanto e solo per le informazioni che hanno attinenza con il registro cognitivo. La risonanza è principalmente emozionale e porta a due processi, quello del riconoscere e quello del riconoscersi. Se noi siamo in grado di individuare nel racconto del nostro interlocutore una caratteristica, funzionale o meno funzionale che sia, mettiamo in atto il meccanismo del riconoscimento. Se per esempio, al di là degli agiti stereotipati, al di là delle manifestazioni disfunzionali, comprendiamo che la giovane interlocutrice vive una condizione di solitudine, di mancato riconoscimento da parte delle figure adulte di riferimento, di continua incertezza e, quindi, di iper-controllo per placare un senso di precarietà o di minaccia, ecco che allora attraverso le parole, spesso singole parole, si crea una chiave di decodifica. Il riconoscimento altro non è che il disvelare ciò che viene camuffato. E questo può avvenire solo se noi nell’ascolto cogliamo singole parole alle quali il nostro interlocutore nel suo racconto dà una sottolineatura particolare o un accento rilevante. Naturalmente perché ciò avvenga è necessario che il nostro ascolto non sia un ascolto ordinario. Le parole riescono a svolgere una funzione di cura quando l’ascolto è un ascolto particolarmente attento e selettivo, quando riusciamo a cogliere oltre al significato, cognitivamente determinato, la risonanza emozionale di ciò che viene detto e quando, a nostra volta, siamo in grado di riformulare pensieri che siano in grado di aprire processi rigenerativi. Nel momento in cui noi riconosciamo, l’altro può riconoscersi e trova spazio per ipotizzare di interrompere il racconto stereotipato della sua narrativa prevalente. A questo scopo, nelle mie consultazioni ambulatoriali io uso spesso, soprattutto con i miei interlocutori più giovani, leggere un componimento scelto tra quelli che Bruno Tognolini propone nella sua raccolta Rime rimedio. Mi colpisce sempre lo stupore che si dipinge sul volto di chi si sente descrivere dalla rima da me individuata, ogni volta il paziente resta sorpreso da quanto quella rima sia attinente alla singola sfumatura enucleata dal suo racconto. In più di un'occasione sento commentare “Proprio così! Sembra scritta per me”.
È in questo modo che dal riconoscimento si passa al riconoscersi.
Così la parola, e in modo particolare la parola poetica, permette potenti passaggi alla cura, cioè al potersi prendere cura. Se nel confronto con qualcuno che ascolta attentamente, emerge che quello che caratterizza la mia vita ha un senso, per quanto disfunzionale e doloroso sia, allora vuol dire che c’è speranza. Speranza di cambiamento, speranza di trasformazione, di rigenerazione.
Un ultimo pensiero, incentrato sul senso di responsabilità del nostro operare attraverso le parole, fa riferimento alle risonanze involontarie. A ogni nuovo incontro, trovo importante e utile chiedere se sia rimasto qualcosa dall’incontro precedente che abbia riecheggiato, che abbia avuto una risonanza, emotiva o cognitiva. Questo è importante, poiché non sempre noi possiamo sapere quale sia l’eco che risuona nell’altro quando tocchiamo certi argomenti o certe singole parole. Per ciò è bene sincerarsi se, involontariamente, possiamo avere innescato delle risonanze che potrebbero aver messo in tensione o in difficoltà il nostro interlocutore.
Bibliografia
A. Bernardelli, La narrazione, Laterza, Bari 1999
F. Benedetti, La speranza è un farmaco, Mondadori, Milano, 2018
G. Cecchin, Irriverenza. Una strategia di sopravvivenza per i terapeuti, Franco Angeli, Milano, 2001
J. LeDoux, Il cervello emotivo. Alle origini delle emozioni, Baldini & Castoldi, 2014
N. Mazza, Poetry Therapy - teoria e pratica, Mille Gru, Monza 2019
E. Veronesi, P.M. Manzalini, Vivere la paura, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2022
M. White, D. Epston, Narrative Means to Therapeutic Ends, WW Norton & Co. 1990
Paolo Maria Manzalini (Napoli 1963) medico, psicologo clinico, psicoterapeuta si occupa di cura e riabilitazione psichiatrica dal 1992, prima in contesti residenziali e da dieci anni in contesti territoriali. Attualmente Responsabile della Struttura Semplice dell’Area Territoriale Psichiatrica della ASST di Vimercate. Promotore con l’Equipe del CPS di Vimercate della rassegna Far Rumore – Azioni per la salute mentale. Da sempre attento alla parola come fondamento dell’incontro e della comunicazione tra gli umani, negli ultimi cinque anni ha ripreso ad approfondire l’espressione teatrale e ha preso parte alla edizione 2017-18 del Corso di TeatroPoesia condotto da Domenico Bulfaro presso il Teatro Binario 7 di Monza. Responsabile Comitato Scientifico di Lì sei vero – Festival Nazionale di Teatro e Disabilità.
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