Poetry Therapy Italia

002 intervista Chavis nicole

Geri Chavis è professoressa di Inglese e Women Studies al Saint Kate College, in Minnesota.
Dopo diversi anni di avvicinamento alla poetry therapy e alla National Association for Poetry Therapy, durante i quali conosce i pionieri di questa disciplina, quali Jack Leedy e Nicholas Mazza, decide di diventare psicologa.
In questa intervista racconta di come la Poetry Therapy possa essere d'aiuto alla situazione di emergenza psicologica attuale. 

Ci diamo appuntamento per la video-intervista il 27 marzo 2020.
Prima dell’intervista Geri mi aveva inviato una raccolta di poesie redatta da lei: Poetry as healer - In a time of pandemic crisis (Poesia come guarigione ai tempi della pandemia) suddivisa in quattro tematiche, il cui nome era già molto suggestivo:

  • Writing Into the Storm – Expressing Our Stories and What We Feel (Scrivere nella tempesta – Esprimere le nostre storie e ciò che sentiamo)
  • Strategies for Coping and Self-Soothing (Strategie per far fronte e calmarsi)
  • Cultivating Gratefulness – Celebrating the Ordinary (Coltivare la gratitudine – Celebrare l’ordinario)
  • Finding Hope and Developing Courage-Awareness (Trovare la speranza e sviluppare coraggio-consapevolezza)

Cominciamo a parlare della poesia dal titolo Lockdown di Richard Hendrick, un prete francescano che vive in Irlanda.
“È molto reale, ci possiamo tutti immedesimare, in questi giorni”, dice, leggendo qualche verso del componimento. Anche lei, come suggerito dal model RES di Nicholas Mazza, utilizza dei prompt per invitare a produrre una poesia personale dopo averne letta una. Suggerisce quindi di scrivere una propria versione di "Lockdown", utilizzando i seguenti incipit dei versi chiave come punto d’inizio per creare la propria: Sì, c’è… /Ma c’è anche… /Svegliati… /Ascolta… /Apri…

“Questo serve per dare un po’ di struttura. Quando lavoro, non dico mai: ora vorrei che tu scrivessi una poesia, perché a volte può spaventare. Ma se fornisci una struttura, questa può essere d'aiuto per attivare la creatività”.

Successivamente analizziamo un’altra poesia scritta da Imelda Macquire nel 2004 dal titolo Lost and Found (“Perso e Ritrovato”).
“Questo testo guarda alla doppia faccia della situazione che stiamo vivendo. A volte, ciò che stiamo ‘guadagnando’, non è ovvio, altre volte è potentissimo. Potrebbe essere persino qualcosa di molto piccolo. Se ci si interroga sulla pandemia, possono emergere sviluppi positivi da quelli negativi.”

Per esempio, in questo momento Geri sostiene di aver maggiori opportunità di connettersi con le persone, e fa riferimento prorpio alla nostra intervista.
“Ho viaggiato molto in tutta Europa, ho anche visitato l’Italia in diverse occasioni: è uno dei posti più belli al mondo. Pensare a cosa sta succedendo è straziante".
“Essere grati alla bellezza ha davvero un qualcosa di terapeutico. Anche un piccolo fiore che sta nascendo tra le buche di un marciapiede è terapeutico. Perché ci lascia intravedere la speranza nel mondo.” A causa di questa pandemia “stiamo vedendo tutte le facce della medaglia: il peggio dell’umanità, ma anche la parte migliore”.

Le domando come abbia fatto a scegliere le poesie per la raccolta, specialmente quelle che parlano di emozioni negative come la solitudine e l’isolamento. Geri mi risponde che ha iniziato partendo da poesie che aveva trovato recentemente, per invitare le persone ad andare “dentro la tempesta”, riprendendo il titolo della prima sezione della raccolta.
“La cosa più importante è far capire che si ha il permesso di esprimere tutti i propri sentimenti. Alcuni sentimenti, tuttavia, sono più accettabili di altri. E se si dovesse esprimere emozioni come la rabbia? La paura? La tristezza? Sono un tabù, ma tutti le viviamo. E alcune sono molto potenti. Se non si ha l’opportunità di esprimerle, possono diventare un problema”.

Passando al tema dell’isolamento, la sua opinione è che la solitudine sia il problema più rilevante in questa situazione di emergenza sanitaria.
“Era un problema già prima, ma è un problema ancora più grande adesso.”
Leggiamo quindi la poesia della scrittrice americana Judith Viorst (2016) dal titolo All Alone Inside My Very Own Skin, che sembra quasi una filastrocca per bambini per via della scelta lessicale e della ritmica:

I’m all alone here—I, myself, and me
That’s just one person,
though it sounds like three.
If you’ve nothing else to do,
and if you’re feeling lonely too,
perhaps you’d like to keep me company.

Io sono qui tutta sola – io, con me, me stessa
solo una persona.
Anche se sembra come se ce ne siano tre.
Se non hai nient’altro da fare,
e se anche tu ti senti solo,
Forse ti piacerebbe tenermi compagnia.

“Non è solo una poesia sulla solitudine: è anche una poesia che suggerisce cosa fare per cercare aiuto. Leggerla ti fa sentire meno solo, perché anche l’autrice della poesia capisce quello che anche tu stai provando. Mi piacciono le poesie come questa, che hanno un risvolto positivo”.

Geri mi racconta della sua storia con la poetry therapy:
“Ho sempre pensato di essere una pioniera nel campo. E questa è sempre stata una delle cose più soddisfacenti: essere all’inizio di qualcosa e farlo crescere. Quando mi sono trasferita da New York nel Minnesota non c’era niente del genere […]. Il lato negativo è che le persone non sanno cosa sia la poetry therapy. Devi spiegare tutto, e solo dopo hai l’opportunità di ‘aprire loro la porta’.”

Un consiglio di lettura? Sheldon Kopp, Metaphors from a Psychotherapist, un saggio che afferma che le persone creano metafore naturalmente. Mi racconta della sua esperienza nella clinica psichiatrica a Saint Paul, in Minnesota.
“Io mi emozionavo nel sentire le metafore che venivano dalle persone. Queste persone non erano poeti. E non capivano, a causa del loro dolore emotivo, che qualcosa di bello stava accadendo”.
Una volta un ragazzo, con cui stava facendo una seduta di poetry therapy, aveva detto che si sentiva come un grattacielo.
“Gli ho chiesto di ‘espandere’ la sua metafora, chiedendogli come si sentisse ‘guardando fuori dalla finestra’ sul grattacielo. È importante approfondire quando le persone utilizzano metafore, perché possono essere una fonte molto utile di comunicazione.”

Ma qual è stato il momento della scoperta di voler diventare una poetry therapist? E come ha fatto a diventarlo, partendo dalla professione di insegnante di Inglese? Quanto è stata importante la sua formazione in psicologia?

“Stavo insegnando Inglese in un centro medico di un college per professioni legate alla salute. Quasi tutte le mie studentesse erano infermiere. In una classe c’erano quattro giovani donne di diciotto anni, tutte fidanzate in attesa di sposarsi. Vennero nel mio ufficio dopo che in classe avevamo avuto una discussione sulle relazioni e ancora ricordo quel momento. Mi dissero che non sarebbero più state le stesse dopo aver letto il libro che avevo consigliato loro su quel tema. Il libro e la discussione le avevano aiutate a comunicare con il loro partner e questo dava loro molta speranza, anche durante i litigi. In quel momento ho avuto uno di quegli aha moments. Ho pensato che ci fosse qualcosa in quella lettura, qualcosa di terapeutico. Ho pensato: questo non è solo insegnare letteratura. Poco dopo ho partecipato a un pranzo-riunione con i miei colleghi sulla tematica delle poesie nella cura. C’era un medico che leggeva ad alta voce le poesie dei suoi pazienti. Lì ho avuto un altro aha moment. E ho pensato: ‘This is poetry! This is a good poem!’ Non ricordo se sono andata da lui a dire qualcosa o altro, sono solo andata via pensando: tutto questo è meraviglioso. Poco dopo sono andata nella biblioteca dell’università e ho trovato casualmente il libro di Jack Leedy, il padre della poetry therapy, Poetry as Healer.
Ancora non lo conoscevo. Ho preso il libro, ho cercato il suo indirizzo a New York, a Manhattan. I miei genitori vivevano anche loro a New York. Così ci incontrammo e mi disse: voglio che tu venga alla conferenza della NAPT. Questo accadeva negli anni Settanta, ed è stato l’inizio. […] Quando ho iniziato ad andare alle conferenze mi sono innamorata degli speaker, delle persone che ho incontrato. Erano tutti interdisciplinari: ‘They were exciting, they were excited’ (‘erano appassionanti, erano appassionati’). Tutto acquisiva un senso, per me. Quando le persone partecipano alle nostre conferenze, si riferiscono alla NAPT come my tribe, ‘la mia tribù’.
Jack Leedy, un uomo davvero intelligente, mi disse: visto che ti stai trasferendo in Minnesota, vorrei che diventassi vicepresidente regionale. Sono quindi andata in Minnesota dove viveva una delle madri della poetry therapy: Arlene Hynes, creatrice della biblioterapia interattiva. Abbiamo iniziato insieme a insegnare poetry therapy ogni estate in un corso lungo una settimana. Abbiamo lavorato insieme per un bel po’ e poi, quando lei ha deciso che era diventata troppo vecchia per poter continuare, ho fatto tutto da sola. Poi ho capito che avrei dovuto diventare una professionista nell’ambito della salute mentale, perché sentivo che altrimenti sarebbe stato un po’ "scorretto": stavo insegnando modalità che i professionisti possono usare nel loro lavoro e avevo bisogno di saperne di più. Quindi, diventai insegnante e studentessa allo stesso tempo. Passavo dal ruolo di insegnante a quello di studentessa nell’arco di appena dieci minuti. Nel mio lavoro come insegnante, avevo moltissima libertà di sviluppare diversi corsi psicologico-letterari, come le relazioni madre-figlia e altri ibridi interdisciplinari, cosa di cui ero davvero grata.”

Altri lavori interdisciplinari?
“Spesso, nei laboratori di poetry therapy, chiedo ai partecipanti di rappresentare le poesie, rendendole vive. Quando ti muovi vai in contatto con il vero significato delle parole. È uno strumento olistico che utilizzo in diversi setting. Anche camminare scrivendo poesia può essere terapeutico: stimola la mente, anche perché si cammina a ritmo”.

Ma che cos’è secondo lei la poetry therapy? La prima metafora che utilizza è: ponte.
“Perché mi piace unire le persone insieme. E questo è quello che fa la poetry therapy, secondo me. Forma ponti nelle persone tra il loro presente e il loro passato. Quando scrivono, la metafora è un ponte tra la rappresentazione e l’idea. La seconda metafora è, invece, luce. Perché la poetry therapy aiuta le persone e le illumina. Inoltre, serve per conoscere se stessi”.

Le qualità indispensabili per lavorare come poeta terapeuta?
“Essere un buon ascoltatore di storie, di metafore; e avere la capacità di porre un'attenzione appassionata, una grandissima osservazione verso il linguaggio corporeo delle persone (questo per ogni terapeuta). L’abilità di essere flessibile e go with the flow: quando lavori con i gruppi non sai che cosa sta per succedere, che reazioni ci saranno. Non bisogna essere attaccati al proprio programma, ma essere spontanei, flessibili, creativi e saper anche privilegiare i pazienti. Queste sono le qualità centrali: ascolto, la compassione e l’empatia […]. Inoltre, avere una buona collezione di materiale letterario che si crea con il tempo.”

Per finire, le chiedo se nella poetry therapy gli scritti che possono essere usati siano solo poesie o anche storie e dialoghi e se devono essere solo scritti o anche orali. Mi risponde che anche se utilizziamo la parola “poetry therapy”, non ci si riferisce solo a una espressione poetica, ma a tutte le espressioni letterarie; non per forza quelle scritte.
“Occorre solo ascoltare se le persone sono a loro agio nella scrittura. Quando sento che qualcuno sta dicendo una metafora, inizio a scrivermela velocemente. Poi la rileggo e dico loro: ‘Questa è tua, non è mia: è tua’. E ne rimangono tutti meravigliati”.

 


 

nicole bizzottoNicole Bizzotto, dottoranda di ricerca all’Istituto di Comunicazione Sanitaria dell’Università della Svizzera italiana di Lugano. Ha l'obiettivo di creare un ponte tra la scienza e la poesia. Ha conseguito un M.Sc. in Cognitive Psychology in Health Communication (doppia-laurea tra l’Università della Svizzera italiana a Lugano e l’Università Vita-Salute San Raffaele a Milano) con il massimo dei voti e lode con una ricerca sperimentale sulle metafore visive. Precedentemente si è laureata in Psicologia Cognitiva all'Università di Trento con il massimo dei voti e lode. Collabora con Mille Gru come scientific advisor e responsabile della comunicazione con l’Estero per le pratiche di poetry therapy.
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azzurra d agostinoGeri Chavis, è professoressa emerita di inglese, Women Studies e Biblio/Poetry Therapy alla Saint Catherine University a St. Paul, in Minnesota (USA). È anche psicologa e poetry therapist, tutor/supervisore di poetry therapy e ex-presidente della NAPT, National Association for Poetry Therapy. È attiva nell’associazione dal 1970, quando ha incontrato altri pionieri di questa disciplina come Jack Leedy, Art Lerner, Sherry Reiter e Nicholas Mazza. È autrice di Poetry and Story Therapy: The Healing Power of Creative Expression e co-editor di The Healing Fountain: Poetry Therapy for Life's Journey, due libri che rappresentano la bibliografia di riferimento per chi si sta formando per diventare poetry therapist e facilitatore. 
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