Poetry Therapy Italia

021 recensione3 cucchi

Questo scritto affronta il rapporto tra scrittura e attraversamento del dolore. La poesia può trasformare una ferita in possibilità di visione. Le ferite sono infatti «occhi che non avremmo mai voluto aprire», come quelli che portano gli alberi, dopo la perdita di un ramo. La scrittura è una chirurgia dell’anima, una pratica di autochirurgia interiore che chiede soltanto la nostra più alta capacità di attenzione e di presenza.

 

Nel pieno di una devastazione interiore, qualche anno fa, camminavo in un bosco dell’Appennino, affidando il dolore a ogni passo, ascoltando la luce tra le chiome degli alberi, per ore, fino a disperdere i cerchi del mio tormento, come l’acqua che contiene un macigno levigato, caduto nel profondo. Quando a un tratto mi è venuto incontro un albero, dal tronco molto segnato. Tutti gli occhi che ho aperto, sono i rami che ho perso – mi ha detto. La sua chioma rada si apriva in alto, molto sopra il mio sguardo. Potevi leggere nella sua scorza la storia di tagli e amputazioni, cicatrizzata e trasformata in crescita, obbediente alla luce, oltre tutti gli impedimenti. Ho continuato a camminare con questa voce che si era scandita in me, e una sola immagine chiara: ci sono perdite che puoi piangere con tutte le lacrime, combattere con ogni sforzo, eppure sono necessarie. Daremmo tutta la vita perché non accadano, eppure stanno guidando la nostra linfa verso la forma e il luogo che le spetta.

Per vedere la realtà anche nella sua parte di tenebra, ci vuole molta forza. Ho sempre chiuso gli occhi di fronte all’orrore, come in un riflesso involontario. In quella frazione di tempo l’orrore non smette di esistere, accade. E tu non ne sei testimone, ne sei coinvolto. Le ferite sono occhi che non avremmo mai voluto aprire. E invece eccole, sul nostro corpo, sulla nostra scorza.

Mesi fa ho visto, a San Gimignano, alcuni disegni di Kiki Smith, dove occhi si aprono sulla pelle di una donna dai capelli sciolti, nuda come una santa del bosco. Questa figura torna in altri disegni e opere, come un autoritratto nel tempo, e insieme una sorta di archetipo, di immagine guida. In una di queste porta appese alle braccia due gabbie vuote e sulle spalle posate tre civette, gli uccelli che hanno l’intelligenza della notte. In un altro disegno, due volti hanno piccole tessere d’argento come polvere di specchio, polvere cosmica. Sono queste le lacrime, le nostre soglie, le nostre possibilità di visione. Ma c’è un’immagine di Kiki Smith che più di tutte resta come l’icona di una forza di trasformazione e ricongiungimento attraverso le lacrime che altro non sono che conduttori vitali, cordoni attraverso cui scorre la vita. E non è un caso che questa immagine sia un arazzo, perché ci mostra proprio come siamo: intessuti nella stessa trama del cosmo. Seduta su un ramo di un albero, una donna nuda, forte del proprio stesso corpo, genera dagli occhi lacrime-filamenti colorati che si diramano congiungendosi agli occhi degli altri animali: un pipistrello, una civetta, due scoiattoli, un daino accucciato ai suoi piedi. Ha il volto sereno e fermo di una divinità antica, regale e inerme, governa le forze originarie. Sospesa in una notte senza tempo, ci guarda, vegliandoci, continuando a generare per noi il filo che ci tiene uniti. Le lacrime che versiamo sono questa possibilità di uscire dai confini dell’identità, per tornare a essere attraversati dalla vita nella sua purezza. È questa l’immagine che vorrei di fronte al letto, l’immagine che può guidarmi ad affrontare il buio.

Non sono buoni i demoni che accompagnano il mio cammino e quando li dimentico, si fanno ricordare. Scrivo per affrontarli, per ricomporre i miei frammenti. Devo creare per non essere distrutta.

È importante onorare le forze della distruzione. Onorarle significa riconoscere il loro potere, la loro presenza, concedere loro uno spazio dove possano ricevere il tuo sguardo, i doni che porti ogni giorno. Altrimenti si risvegliano, esigono il tuo tributo di sangue. Gli induisti hanno una divinità femminile che le incarna, Kali, la madre devastatrice. L’ho incontrata lo scorso inverno a Calcutta, in uno dei suoi templi più antichi, a poco più di un chilometro da dove vivevo. E ho sentito quanto fosse vitale riconoscere quella carica distruttrice che, lasciata dentro di noi, affiora nell’altro a cui prestiamo il coltello. Mentre se impariamo ad accoglierla, possiamo dirigerla verso ciò che ci limita, che ci sbarra il cammino, illuminando parti di noi che erano rimaste buie, avvicinandoci a ciò che siamo.

La scrittura ci porta dentro la nostra camera oscura, nel luogo del non conosciuto, lì dove si annidano i nostri demoni, le nostre più tenaci e impenetrabili ombre. È un luogo che ha precise leggi, scansioni del tempo, e un fondamentale rapporto con il buio perché la visione si compia. La scrittura si nutre di questo buio, di questa possibilità di perdita e di distruzione che si fa conoscenza necessaria. Scriviamo per vedere dentro la nostra camera oscura.

Nel trauma viviamo come in una sorta di apnea, di sprofondamento e distacco dalla realtà: uno stato di stordimento, quasi di narcosi, che rende il mondo attenuato, attutito, come sott’acqua, come in un’altra frequenza. Continua a svolgersi a pochi passi da noi eppure non ci riguarda. La realtà si riduce a un punto solo, quello in cui siamo stati uccisi. Poche sequenze in cui è avvenuto qualcosa che continua a rilasciare il suo oscuro significato nel tempo. Se da una parte la nostra percezione è come sfuocata, affievolita, dall’altra si è fatto chiaro esattamente il nucleo essenziale della vita, ciò che non possiamo perdere, ciò a cui dobbiamo tenerci saldi. Quelli che, nella tempesta, sono i nostri alberi maestri, le nostre guide.

Queste zone morte che portiamo in noi sono spesso le parti più fragili e inermi, quelle che si sono tragicamente scontrate con l’esistenza. Possiamo percorrerle con la scrittura, come in una pratica di autopsia interiore, riconoscere le cause della loro morte, e riuscire così a seppellirle. Queste parti di noi attendono un rito che le liberi, che le consegni alla pace, perché la nostra vita possa continuare. La poesia che si è sempre confrontata con la fine-inizio, con la necessità di sacrificare al silenzio, per andare a capo e ricominciare, può esserci di aiuto in questo. «In my beginning is my end. […] In my end is my beginning» come ci ricorda Eliot.

La scrittura è una chirurgia dell’anima che chiede mano ferma, e un luogo profondo in cui convogliare l’incertezza e il tremore. È una pratica di autochirurgia interiore. Può condurci a riaprire condotti vitali che si erano intasati, donandoci energie e possibilità di conoscenza che non immaginavamo di avere. Può aiutarci ad abbandonare finalmente una parte malata che comprometteva la nostra esistenza, o impiantarci l’organo che può salvarla. Per questo chiede soltanto noi stessi, la nostra più alta capacità di attenzione e di presenza.

Ciò che continua a vorticare in noi, prendendo altre forme e nomi, generando altri accadimenti che riverberano uno stesso dolore, potrebbe entrare nel nitore di una parola che è gesto compiuto nella piena presenza di noi stessi, gesto che ci salva. Quando ciò accade, siamo come un arciere di fronte al bersaglio. Prima che la freccia giunga a destinazione sente se è riuscito a essere lì dove è chiamato a essere, nella propria coordinata dello spazio; se ciò avviene, anche quei luoghi che portano a chiudere gli occhi e a fuggire, sono stati attraversati dalla luce della presenza. Allora la freccia lanciata centra il bersaglio. L’operazione chirurgica ha buon esito.

 

 


 

azzurra d agostinoFranca Mancinelli, è autrice dei libri di poesia Mala kruna (Manni, 2007), Pasta madre (Nino Aragno, 2013), Libretto di transito (Amos Edizioni, 2018), uscito nello stesso anno con traduzione inglese di John Taylor. Una silloge di suoi testi è compresa in Nuovi poeti italiani 6 (Einaudi, 2012) e nel Tredicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2017). Ha partecipato ad alcuni progetti internazionali.  Il suo nuovo libro di poesie, Tutti gli occhi che ho aperto, è in uscita per Marcos y Marcos nel 2020. (foto di Chiara De Luca).
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