Laboratori condotti tra le pareti di una prigione, ispirati al progetto Medicamenta. Lingua di donne e altre scritture che, ideato da Silvia Rosa e da Valeria Bianchi Mian, utilizza la scrittura creativa (autobiografica e poetica) con un fine curativo e terapeutico, cercando di dare forma alle emozioni e di imparare a maneggiare, con cura, i frammenti di vita di chi vive senza tempo, in un eterno ripetitivo presente.
Sono entrata nel mondo dell’istruzione per gli adulti appena conclusi gli studi universitari, attratta dalle molteplici sfide connaturate a questo particolare settore educativo: dopo un’esperienza di insegnamento quinquennale con i migranti, ho iniziato a lavorare nella sezione carceraria dell’istituto superiore Carlo Ignazio Giulio di Torino, presso la Casa Circondariale Lorusso e Cotugno. Dietro le sbarre ho scoperto un’umanità composita, niente affatto riducibile ai tanti stereotipi e pregiudizi che la definiscono, e assai sofferente per via delle condizioni di vita a cui è costretta, in un luogo in cui mancano stimoli adeguati a favorire un reale cammino di ripensamento e trasformazione della propria traiettoria esistenziale. Sovraffollamento endemico, insufficienti iniziative di carattere educativo e artistico, assenza di spazi verdi e ambienti insalubri sono solo alcuni dei limiti che andrebbero superati al fine di restituire piena centralità alla funzione rieducativa, per la quale l’istituzione carceraria è stata pensata sulla carta. I percorsi scolastici sono forse una delle poche occasioni a cui i detenuti hanno accesso per coltivare forme di emancipazione culturale e sociale, per acquisire consapevolezza di sé, accettare la realtà e fare pace con il passato, immaginando il proprio avvenire all’insegna di un pieno reinserimento nella società. Le discipline presenti nel corso di istruzione “Servizi per la Sanità e l’Assistenza Sociale”, in cui insegno metodologie operative nei servizi sociali, sono certo d’aiuto in questo itinerario di autoriflessione e di ricomposizione del sé, soprattutto se ai momenti di didattica tradizionale si affiancano attività di laboratorio mirate a rispondere ad alcuni bisogni che non trovano ascolto altrove. È con questi presupposti che a partire dallo scorso anno scolastico ho organizzato e proposto agli studenti detenuti una serie di incontri di gruppo, adottando la scrittura poetica e le metodologie autobiografiche[1] come strumenti di lavoro per provare a dare forma alle emozioni[2] e imparare a maneggiare con cura i vissuti che di volta in volta emergono nella condivisione dei racconti di vita, frammenti più o meno incandescenti della propria storia e della geografia di esperienze che la puntellano. Le attività in genere ruotano attorno a un nucleo tematico ben definito, che si evidenzia già nel titolo del laboratorio stesso, a partire dal quale si scrive e si narra agli altri qualcosa di sé, con l’intento di risignificarlo[3] alla luce di inedite attribuzioni di senso, grazie anche al linguaggio poetico che smuove contenuti inconsci e opera attraverso simboli, analogie, metafore, coagulandosi in immagini, che hanno il potere di convogliare nuove visioni di sé e della realtà circostante[4].
Le stagioni trascorrono non viste è il titolo di uno di questi incontri laboratoriali, che ho condotto nell’autunno del 2020, nato da una riflessione su uno degli aspetti più travagliati della quotidianità carceraria: la percezione del tempo, inteso nelle sue diverse accezioni, cronologico e atmosferico. Come un fondale nero privo di direzionalità, il tempo in cui i detenuti si muovono nel perimetro asfittico dell’attesa è completamente svuotato, opaco, un eterno ripetitivo presente, in cui l’esistenza nella sua interezza viene messa in pausa e lo slancio autodeterminante che porta a progettare, cioè a “gettare avanti”, a ideare nel futuro le basi per un cambiamento strutturale, perde mordente, diventa un vago anelito procrastinato di giorno in giorno. Anche il volgere delle stagioni viene meno, tra le pareti ristrette della cella e le finestre ridotte a segmenti di cielo e di grigio, cemento, asfalto e filo spinato innalzati come una barriera a separare il microcosmo dei reclusi dal resto del mondo. Mancano la pioggia sulla pelle, l’odore delle prime fioriture in primavera, le variazioni della luce che attraversano il calendario durante i dodici mesi dell’anno solare. Mancano i riti condivisi con gli affetti più cari nelle occasioni di festa, il mare e la consistenza della terra in cui affondare i passi per andare da qualsiasi parte non sia il giro in tondo concesso nell’ora d’aria.
Quali pensieri, quali trame emotive costellano le solitudini di chi affronta il tempo della pena, così deprivato e bidimensionale?
Il laboratorio, che si è svolto in un singolo incontro della durata di circa tre ore con gruppi diversi di studenti, ha preso le mosse dalla lettura del testo poetico Scrivere poesie in prigione, di Etheridge Knight[5], autore afroamericano dalla travagliata vicenda personale, che ho narrato brevemente ai partecipanti come introduzione, un avvio narrativo che ha aperto piano piano un varco verso il fulcro dell’attività di scrittura, rimandando a una realtà e a un tempo lontani, eppure quanto mai attualissimi. Knight, classe 1931, nacque in un ghetto della città di Corinto, in Mississippi, da una famiglia molto povera e numerosa. Abbandonati presto gli studi, iniziò a dedicarsi ai lavori più umili. Durante gli anni della guerra in Corea si arruolò e fu ferito da una raffica di schegge, ritornando alla vita civile con un infortunio e una dipendenza da sostanze stupefacenti. Nel 1960, per procurarsi il denaro necessario all’acquisto della droga, scippò un’anziana donna bianca, e venne condannato a 25 anni di reclusione, da scontare nella Indiana State Prison. La sentenza, spropositata rispetto alla gravità del reato, lo indusse a riflettere su quanto la propria esistenza fosse stata segnata da ingiustizie e razzismo. Knight scrisse che un giorno, mentre guardava la televisione nella palestra del penitenziario, ascoltò un comizio di Malcolm X: “i suoi occhi e le sue parole penetrarono nella mia mente creando nuovi simboli e miti e agitandone altri dimenticati da generazioni[6]”. Fu l’inizio di una rinascita, nutrita da diverse letture, come l'Autobiografia di Malcolm X e le poesie di Langston Hughes, poeta, scrittore e giornalista afroamericano. Ispirato da queste ultime, iniziò a raccontare le proprie esperienze, prima servendosi della tecnica del toasting[7] e poi traducendole in versi. I testi scritti in questo periodo furono pubblicati in una raccolta dal titolo Poems from Prison (1968), e Knight divenne a tutti gli effetti uno dei maggiori esponenti del “New Black Aesthetic”, una corrente artistica che afferiva al più ampio movimento del “Black Power”. Altri poeti e intellettuali del movimento, come Amiri Baraka, Don Lee, Gwendolyn Brooks e Sonia Sanchez, si batterono per aiutare Knight a ottenere la libertà su parola, che riconquistò nel 1968.
Dopo il racconto della vicenda di Knight ho letto un paio di volte la sua poesia in italiano, soffermandomi in particolare su alcuni versi. Nei gruppi in cui erano presenti studenti stranieri, è stata letta anche in inglese. Avevo preparato dei piccoli rotolini di carta legati da un nastro, che contenevano all’interno il testo nella lingua originale e nella traduzione italiana: li ho distribuiti all’inizio delle attività, ma non ho annunciato che cosa contenessero e ho invitato tutti ad aprirli solo alla fine. Insieme ai biglietti ho consegnato una vistosa foglia gialla di tiglio, senza anticipare però nessuna istruzione o spiegazione al riguardo. La poesia è rimasta dunque agli studenti come dono e ricordo del laboratorio, una sorpresa da scartare a incontro concluso e da portare via con sé.
Scrivere poesie in prigione[8]
È difficile scrivere una poesia
in prigione;
l’aria non si lascia catturare
dal poeta.
Le stagioni trascorrono non viste
e non accendono un fuoco giovane
in questo palazzo cupo e vuoto di passione.
Le parole delicate sono rare e ubriache
contro il metallo delle chiavi;
occhi spalancati fissano enormi zeri
e chiedono soltanto compassione.
Ma la compassione non ispira il poeta.
E tuttavia la poesia ha bisogno di un suggerimento.
Qui non vi è neanche la tristezza del canto,
neanche un meraviglioso furore,
gli uccelli non battono le ali. E l’amore?
Ebbene l’amore se ne è andato,
l’amore è volato verso la Cina.
To Make a Poem in Prison
It is hard to make a poem
In prison;
The air lends itself not
To the singer.
The Seasons creep by unseen
And spark no fresh fìre
In this dark palace of no passion.
Soft words are rare and drunk drink
Against the clang of keys;
Wide eyes stare fat zeros
And plea only for pity.
But pity is not for the poet.
Yet poems must be primed.
Here is not even sadness for singing,
Not even a beautiful rage ragù,
No birds are winging. The air
Is empty of laughter. And love?
Why, love has gone,
Love has flown to China.
Dalla poesia di Knight ho estrapolato il verso Le stagioni trascorrono non viste e ho invitato il gruppo a scrivere su un foglio tutto quanto veniva loro in mente a partire dalla parola immaginale “stagioni”: dieci minuti di scrittura[9], in cui ognuno ha avuto la possibilità di lasciarsi andare all’eco di ricordi, riflessioni, esperienze, immagini interiori, per indagare i significati più soggettivi del termine e il suo ventaglio evocativo di emozioni e sentimenti al seguito. Mentre gli studenti si dedicavano alla scrittura autobiografica, ho riportato il verso con colori vivaci su un cartellone, che ho appeso a una parete dell’aula.
Dopo il momento destinato alla scrittura, si è passati alla restituzione[10]: ogni partecipante ha letto agli altri il proprio scritto. Prima di avviare le attività sono solita esplicitare due regole fondamentali che tutti sono tenuti a rispettare, quando si condividono memorie autobiografiche: non esprimere alcun giudizio sulle vicende narrate dagli altri e mantenere assoluto riserbo in merito. Quanto emerge durante il laboratorio deve rimanere confinato nel tempo e nello spazio dell’incontro. Queste regole, soprattutto quando si lavora con gruppi già coesi come quello di classe, sono in genere sufficienti a creare un clima di fiducia in cui si accetta di leggere i propri resoconti, rassicurati dal fatto che la cornice in cui saranno inseriti è accogliente e protettiva.
Una volta che ciascuno ha letto il proprio testo, è iniziato il lavoro sulle immagini contenute in esso, quelle più pregnanti dal punto di vista emotivo: ho chiesto dunque agli studenti di sceglierne un paio, sintetizzando in versi le frasi che le descrivevano, in modo che ogni racconto prendesse le sembianze essenziali di una poesia. Questa riscrittura, a differenza di quanto avvenuto nella compilazione del primo testo, si è svolta ad alta voce, e tutto il gruppo si è posto in ascolto, è stato coinvolto anche nella scelta delle parole e dei tagli alla prosa più efficaci: i contenuti scritti, così densi di riferimenti affettivi difficili da maneggiare, sono stati presi in carico da tutti, insieme, e alleggeriti così del loro peso[11].
Il prodotto finale di questa operazione è stato un breve testo poetico che ho chiesto di copiare sulla foglia di tiglio gialla, consegnata in pegno all’inizio. Operazione tutt’altro che banale, perché le foglie sono delicatissime, dunque c’è voluta arte e pazienza per riportare il brano sul loro palmo fragile, senza strapparle, seguendone le nervature come linee di una mano che racchiude un destino in miniatura.
Prima che il testo fosse fissato sulla foglia, ciascun partecipante ha regalato un proprio verso a tutto il gruppo, per comporre una poesia corale: man mano che i versi mi venivano dettati li scrivevo alla lavagna, senza un ordine logico preciso, seguendo piuttosto il turno con cui le voci si alternavano in cerchio.
Il testo collettivo è stato poi copiato su un foglio a parte, ed è stato disposto sulla parete, vicino al cartellone che riportava il verso di Knight, al cui intorno ognuno ha incollato la propria foglia poetica. Questo intervento ha portato in classe un accenno di autunno e nei mesi successivi è stato interessante osservare le conseguenze dello scorrere del tempo sulla materia deperibile delle foglie, che si sono accartocciate e seccate. Inoltre ha personalizzato l’aula con un alone di bellezza, stimolando nei detenuti un atteggiamento di attenzione e di cura: se una foglia dava segno di scollarsi dal cartellone, c’era sempre qualcuno pronto a risistemarla.
A conclusione del laboratorio ho chiesto a ogni studente di congedarsi con una sola parola pronunciata ad alta voce, la prima che venisse loro in mente, e ho dato l’autorizzazione a scartare il rotolino di carta consegnato all’inizio. Non tutti hanno voluto farlo, qualcuno ha preferito scoprirne il segreto da solo, altrove.
Le stagioni trascorrono non viste, così come gli altri laboratori che ho condotto in carcere[12], si ispirano al metodo di un progetto di più ampio respiro, che ho co-ideato insieme alla psicologa e scrittrice Valeria Bianchi Mian: Medicamenta. Lingua di donne e altre scritture[13]. Si tratta di un percorso “medicamentoso”, che utilizza la scrittura creativa (autobiografica e poetica) con un fine curativo e terapeutico, e in cui si lavora anche alla realizzazione di piccoli manufatti artistici (librini, origami, carte con immagini variegate, ecc.) che portano impresse le parole trasformate durante gli incontri laboratoriali.
Per concludere, riporto i testi collettivi prodotti dai tre diversi gruppi che hanno partecipato al laboratorio, preceduti da una piccola nota sulla composizione in termini di età e competenze linguistiche dei loro membri. La lettera maiuscola segnala l’inizio del verso condiviso da ognuno.
Gruppo 1: composto da cinque ragazzi tra i venti e i trenta anni, quattro di origine straniera, uno straniero di seconda generazione. L’italiano risulta dunque una lingua seconda, limitante rispetto alle possibilità di esprimere con precisione certi vissuti.
Non esiste più l’estate e l’inverno
solo caldo e freddo
In questo istante vorrei il mare
stare lì con la mia famiglia
Vorrei di nuovo sentire la pioggia
addosso, le gocce d’acqua che cadono
su parti di me dimenticate
Mi ricordo la neve, le foglie per terra,
il rumore della pioggia, l’aria fresca
che gela la faccia e le mani
In carcere tutte le stagioni sono uguali:
il mio pensiero va all’estate e al mare.
Gruppo 2: composto da otto uomini italiani di età compresa tra i trentacinque e i sessanta anni.
Quando ero fuori in primavera
vedevo sbocciare le mandorle
L’estate in carcere solo cemento
e caldo, mi sento di morire
Mi viene in mente l’inverno, la casa calda,
il Natale e la famiglia unita
La nostra vita è come le stagioni:
in inverno hai il cuore freddo
per tutte le intemperie passate
Mi manca il profumo dell’erba, l’odore
del fieno, il canto degli uccelli,
vedere i colori delle foglie prima di cadere
Mi manca la primavera, la campagna,
il fieno e piantare gli ortaggi
Adesso è freddo e tutti i giorni sono uguali
Mi manca l’estate, la stagione della gioia,
le farfalle che riempiono di colori
la campagna e le cicale che cantano.
Gruppo 3: composto da cinque donne di età e provenienza eterogenee (dai 25 ai 50, non solo italiane). Questo gruppo si caratterizza per la presenza di studentesse con un una buona padronanza linguistica. A questo incontro ha partecipato anche la docente di italiano Gianna Cannì, e si è lavorato molto in profondità al testo collettivo, cesellando minuziosamente i versi grezzi proposti da ognuna. “Patio del sol” si riferisce al nome del cortile di un carcere sudamericano, in cui le detenute sono solite trascorrere alcune ore all’aperto.
Sento le stagioni nel profumo dell’aria,
tra quattro mura non esistono
Passa il tempo come nulla fosse
nel freddo della cella
I colori non si vedono, tutto è uguale,
tutto si è fermato
Il sole è quasi spento – come perdere
la bussola – il presente è fermo nell’inverno
Solo pioggia e sole, la stagione della sofferenza
e quella dell’amore in questo Patio del sol.
Note
[1] Il riferimento è alle metodologie autobiografiche codificate dalla Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari. Come scrive Lucia Portis, antropologa e decana dei corsi di scrittura autobiografica della Libera Università di Anghiari: «L’approccio autobiografico si sviluppa, oltre che in ambito formativo, anche in ambito di cura e di ricerca e pone al centro l’interesse per le storie di vita, le condizioni e i processi cognitivi che consentono il racconto in una prospettiva riflessiva, formativa e auto-educativa: un processo autopoietico in cui si dà ordine e si attribuisce senso a eventi, decisioni, sentimenti; un percorso di apprendimento legato al nesso centrale esperienza-conoscenza, e al tempo stesso, contestualmente, di rilancio della propria progettualità e di apertura e curiosità verso la soggettività “dell’altro”. Nei percorsi formativi o di cura attivati che utilizzano metodologie autobiografiche, si distinguono due diversi momenti: il dispositivo autoriflessivo (ricognizione autobiografica) che ripercorre e trae il senso della propria storia, produce un testo organizzato e complesso che utilizza un medium (un’autobiografia scritta o un’intervista narrativa), e un secondo dispositivo “negoziale”, un lavoro di interazione negoziata sui significati collettivi in cui il gruppo che è in gioco nel percorso scopre, esalta, rilancia, compara senso e significati delle esperienze (un coro greco che sottolinea le salienze). La storia individuale diviene appartenente al suo contesto (temporale, sociale, culturale, comunitario) e al tempo stesso getta sul contesto la luce della sua originale unicità.»
[2] L’espressione qui usata si richiama al titolo di un libro della poeta Isabella Leardini, Domare il drago. Laboratorio di poesia per dare forma alle emozioni nascoste (Mondadori 2018). Questo testo è molto più di un saggio, di un manuale di scrittura creativa o di una raccolta di esperienze laboratoriali, è al contempo un libro sulla poesia e un libro di poesia, in cui si racconta come il linguaggio poetico possa diventare concreta possibilità di cura, territorio liminale, confine e soglia in cui coltivare la propria verità e sanare le proprie ferite.
[3] L’itinerario che porta dal testo scritto a quello lavorato in versi, passando per la condivisione orale del racconto all’interno gruppo, favorisce il processo di risignificazione dell’esperienza. L’uso della scrittura attiva la bi-locazione cognitiva perché fissando sulle pagine aspetti o eventi della propria storia, i narratori hanno la possibilità di gestirli, modificarli e riconnotarli in senso cognitivo. Le storie così evocate e riscritte perdono la loro opacità e si modificano, aprendosi alle possibilità di una nuova assegnazione di senso.
[4] La poesia ha il potere di trasformare il linguaggio, di forzarlo in direzione di nuovi significati e permette a chi scrive di narrare e di narrarsi attraverso un codice, una formula magica che ribalta il senso comune attraverso l’impiego di similitudini, metafore e analogie, riuscendo a dare una forma anche al non detto, a quanto alberga in ognuno di noi senza avere ancora assunto un volto familiare nel magma psichico indistinto. Le parole delle poesie hanno la capacità di mostrare, di svelare ciò che l’uso abituale della lingua non è in grado nemmeno di nominare.
[5] https://www.poetryfoundation.org/poets/etheridge-knight
[6] L’idea degli antenati. Poesia del Black Power (Gwynplaine 2013), a cura di J. Lussu, introduzione di Roberto Giammanco, postfazione di Silvia Baraldini.
[7] Il toasting fa parte della tradizione urbana afroamericana dalla fine della Guerra di secessione americana come parte della tradizione orale, derivata dall'esperienza africana dei griot. Le storie afroamericane parlano solitamente di eroi intelligenti e non del tutto sottoposti alle regole, più o meno antropomorfi, che utilizzano la loro arguzia per sconfiggere gli avversari. I toaster continuano la tradizione orale del racconto di leggende e mitologie delle comunità in riunioni per strada, o negli angoli delle vie, nei bar e nei centri della comunità, biblioteche e campus universitari. Così come le tradizioni orali, in generale, e assieme ad altre forme d'arte afroamericane come il blues, il toasting è una mistura di ripetizione ed improvvisazione.
[8] Etheridge Knight, in L’idea degli antenati. Poesia del Black Power, cit. https://www.poesiadelnostrotempo.it/lidea-degli-antenati-poesia-del-black-power/
[9] L’uso della scrittura è fondamentale nelle pratiche autobiografiche, perché è una forma del pensiero che si può osservare attraverso la lettura; è una descrizione di secondo ordine poiché non è immediata come l’oralità e opera una lontananza di riferimento. La scrittura obbliga a fare opera di sintesi e a riflettere sulla descrizione delle esperienze vissute; il pensiero prende forma fisica ed è ridefinito.
[10] In questa fase i narratori sono invitati a condividere le loro scritture e a riflettere su quanto hanno scritto. La rilettura e l’analisi dei testi consentono ai partecipanti la comprensione delle scelte narrative, delle interpretazioni e un’ulteriore attribuzione di significato. Analizzare il proprio testo significa: trovare gli elementi testuali spiazzanti, gli elementi ricorsivi, ciò che è mancante, ciò che interroga, gli elementi di comunanza e similitudine con gli altri.
[11] La scrittura poetica in questo laboratorio è stata attivata a partire da uno scritto autobiografico, ma in altre occasioni è chiamata in campo attraverso giochi ed esercizi specifici. Porto ad esempio l’esperienza di un altro laboratorio condotto in carcere, intitolato “Questo è un uomo”, nato dall'idea di ribaltare il noto verso di Primo Levi, "Se questo è un uomo", trasformandolo in una affermazione. Il lavoro era finalizzato a favorire in ogni partecipante la volontà di posizionarsi nel mondo dichiarando la propria piena umanità: non più fantasma macchiato di colpe da punire, e tutto l'elenco a seguire di etichette che riducono alle sole zone d'ombra la complessità di una esistenza intera, ma essere umano in grado nonostante tutto di coltivare ancora la propria luce e di condividerne il calore. La scrittura poetica era lo strumento con cui creare un'immagine di sé tridimensionale, ricca di tutte le sfumature possibili. Ho proposto diversi giochi tra cui uno molto potente, che ho trovato nel libro Domare il drago di Isabella Leardini (cit.), “Il mio cuore è..": usando le metafore scrivi almeno dieci immagini che traducano visivamente l'idea di che cos'è il tuo cuore”. "Il mio cuore è..". Sono nati componimenti preziosi e densi, a tratti oscuri e dolorosi, a tratti pieni di vitalità.
[12] In particolare quello rivolto a sole donne, intitolato Ricordo di una donna di famiglia (2019).
[13] https://www.poetrytherapy.it/i-numeri-della-rivista/numero-001/medicamenta-lingua-di-donna-e-altre-scritture
Pagina FB: https://www.facebook.com/MEDICAMENTAlinguadidonnaealtrescritture/
Silvia Rosa, vive e lavora a Torino. Laureata in Scienze dell’Educazione, con una specializzazione in educazione e formazione degli adulti, ha frequentato diversi corsi sull’approccio autobiografico tenuti da Lucia Portis della Libera Università di Anghiari, e il Corso di Storytelling della Scuola Holden (2008/2009). Insegna italiano agli stranieri e metodologie operative nei servizi sociali.
Ha pubblicato diverse raccolte poetiche e un saggio di storia contemporanea.