Poetry Therapy Italia

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Questo articolo completa la ricerca di Marisa Brecciaroli sulla formazione del poetaterapeuta apparso nel numero 2 di questa rivista. In questo scritto la poetessa restituisce la sua esperienza personale.

Per entrare nel vivo e nell’essenziale della mia ricerca e sperimentazione in poesiaterapia credo sia importante sottolineare come, nel passaggio dalla mia scrittura come percorso poetico personale alle mie ricerche e sperimentazioni di poesiaterapia, io mi sia trovata a riconoscermi, e quindi a seguire, una particolare concezione teorica della poesia.

È stata ed è una concezione teorica della poesiaterapia, verso cui mi sono orientata e che ho sperimentato, con risultati che mi hanno confermato la veridicità e bontà di quella teoria.

Dovendo sintetizzare, la esprimo con la famosa formula di uno dei più grandi linguisti del XX secolo, Iván Fónagy, che è stato anche psicoanalista, psicofonetista, e si è interessato ai problemi del doppio codice delle parole (emotivo e intellettuale). La formula a cui mi riferisco è quella nota equazione linguistica che recita così: “La Forma sta al Contenuto, come l’Inconscio sta al Conscio”; equazione che, sul versante lacaniano, si traduce in: “il Significante sta al Significato come l’Inconscio sta al Conscio”.

A queste acquisizioni teoriche sono arrivata gradualmente e partendo da un’osservazione attenta della mia stessa scrittura poetica; infatti fin dai miei primi testi, e anche nelle opere di poesia, ho dato intenzionalmente spazio ad una non omogeneità di stile (se si può chiamare così), perché sentivo che, a stati psichici diversi, corrispondevano forme di scrittura diverse, come se queste fossero uno specchio di territori interiori differenti fra loro. A volte erano derivate presumibilmente dalla sfera del conscio, altre volte da stati misti di preconscio e conscio, oppure di preconscio e inconscio… fino poi a scoprire forme che sentivo derivare da tutt’altra sfera interiore… quella che poi, con la successiva conoscenza di Assagioli e Steiner, ho potuto definire “sopraconscio” o “Sé superiore”.

Piano piano ho cominciato a riconoscere, dalle forme in cui scrivevo, il livello psichico corrispondente, o una loro eventuale “mistura”. A quell’epoca ero immersa in un’esperienza di psicoanalisi individuale, che mi facilitava l’auto percezione e definizione di quei vari strati psichici che si incarnavano nelle forme della scrittura di poesia.

D’altronde mi confortava, nel seguire quella direzione, anche la famosa definizione di “stile” data da Leo Spitzer: «A qualsiasi emozione, ossia a qualsiasi allontanamento dal nostro stato psichico normale, corrisponde, nel campo espressivo, un allontanamento dall’uso linguistico normale; e, viceversa, un allontanamento dal linguaggio usuale è indizio di uno stato psichico inconsueto. Una particolare espressione linguistica è, insomma, il riflesso e lo specchio di una particolare condizione di spirito» (pag. 46 di Critica stilistica e semantica storica).

Per definire ed esplicare in modo completo il concetto di Significante e quello di forme sarebbe necessaria una trattazione molto ampia, ma qui posso almeno riassumerli, in senso ampio, così: la lunghezza o meno dei versi; il loro schema di accenti; la tessitura timbrica più o meno, fonosimbolicamente, morbida o liquida o ruvida, ecc…; la lunghezza o meno dell’intera poesia, quindi il rapporto fra silenzio e voce; la punteggiatura più o meno equilibrata, o, invece, ansiogena; il tenore delle figure retoriche e quale, di queste, tende a prevalere vistosamente sulle altre; la famiglia lessicale emergente, ed altro ancora, fino a forme di poesia cosiddetta visiva. Ovviamente ognuno di questi parametri va poi contestualizzato, sia nel rapporto fra loro, sia nel contesto terapeutico-colloquiale in cui avviene l’esperienza di scrittura, oltre che la pratica di analisi maieutica e condivisa fra poetaterapeuta e fruitore di poesiaterapia.

È un po’ come avviene nell’analisi dei sogni, quando si è impegnati in una terapia psicodinamica: la figura del serpente non vuol dire, per tutti, la stessa cosa! È il contesto, la globalità, o meglio, la olisticità della relazione, sia intrapsichica sia nel lavoro col terapeuta, a significare e a svelare ciò che era come imprigionato nell’inconsapevolezza.

Senza quelle analisi rivelatrici, si rischia di restare imprigionati nell’inconsapevolezza. Ormai si sa che sia i sogni sia, aggiungo io, lo scrivere poesia, comunque, anche senza una analisi col terapeuta, hanno un potere liberante! Perché? Perché, di fatto, quel quid, specie se fosse inconscio, quel quid che voleva dirsi, ha potuto esprimersi, uscire fuori, grazie alle forme del sogno, e alle forme della poesia.

Una possibile differenza sta in quello che ho detto prima: sia nella consapevolezza che c’è, in più, durante il lavoro di cura col terapeuta, sia nel riuscire a sentire quel quid come qualcosa di sé, vivo e accoglibile. Esempio: se io scrivo un testo poetico con versi fatti di una parola o poco più, e per di più troncate da una punteggiatura di ‘punto fermo’, e che magari spezza perfino gli elementi base di un periodo (tipo: soggetto, predicato e complemento). Allora, limitandomi a scrivere così, in quella forma, magari comunque riesco a mandar fuori, a incarnare fuori di me, quindi a esprimere, ex-premere… fuori, un mio momentaneo stato ansioso e quindi di corto respiro. Ma mi fermo a questo.

Questo sarebbe già qualcosa di rilevante. Tuttavia, se con il sostegno o la complicità del terapeuta, o del gruppo (qualora si fosse in un contesto gruppale), io posso rendermi consapevole del fatto che quel modo di scrivere può essere una incarnazione della mia ansia, e inoltre posso sentire che quell’ansia può essere accolta e non giudicata, addirittura amata come una delle tante sfaccettature dell’animo umano. In questo caso avviene qualcosa in più. E magari, in seguito, riesco a sentire direttamente la mia ansia, a guardarla come un osservatore benevolo, a viverla come un patrimonio del mio Sé e poi a lasciarla fluire. Chissà che, così, io non eviti anche di somatizzarla in un malanno fisico!

All’interno di questo metodo o modo di procedere mi sono basata inizialmente solo sull’osservazione delle forme della mia scrittura poetica. In realtà tutto questo avveniva su un piano intuitivo e non sistematico. Successivamente, quando ho cominciato ad osservare la mia scrittura poetica con questo tipo di intenzionalità, era già uscita l’opera fondamentale di un precursore di quella psicocritica che cominciava a sorgere. Mi riferisco a Charles Mauron con il libro Dalle metafore ossessive al mito personale. Quando ne sono venuta a conoscenza è stato come un riconoscersi, uno scoprire una conferma incoraggiante. E poi, a seguire, un’altra rassicurazione incoraggiante mi è arrivata con Jacques Lacan, Stefano Agosti e la critica stilistica di Leo Spitzer. Diciamo che, rispetto a Charles Mauron, a me è sembrato opportuno estendere la sua attenzione, che era esclusivamente riservata alle metafore, a tutte le altre forme retoriche e del significante, considerate anche nella loro inter-relazione.

A proposito di questa estensione dell’attenzione ad altre forme del significante, ho vissuto la scoperta di un’altra ‘forma’ poetica suscettibile di attenta osservazione in poesiaterapia, una forma che non esito a definire eclatante: la forma visiva del calligramma! Anche in questo caso sono partita dalla mia esperienza di scrittura visiva e spesso quasi calligrammatica. Mentre la scrivevo, avevo l’impressione di seguire solo la mia passione per il linguaggio e tutte le sue forme. Ma poi ho scoperto di essere stata agita da una interessante spinta inconscia e, quando l’ho messa a fuoco meglio, ne ho intravisto la fertilità in ambito terapeutico. Mi spiego meglio: la forma del calligramma, più di tutte le altre forme, mette in mostra il legame che c’è fra la ‘cosa’ e la ‘parola’ …

E la parola, che in genere, per suo statuto trasforma la cosa in segno (facendole perdere così la sua corporeità) nel calligramma invece cerca di ‘tornare ad essere’, visivamente, la cosa significata…cioè quella stessa cosa che, prima, nella parola comune, era stata scorporeizzata. Quando ho intuito i risvolti psichici, in me stessa, di questa specie di andari-vieni fra parola e cosa scomparsa nella parola, ne ho fatto una ricerca, molto complessa nei suoi aspetti intrapsichici. Alla fine, negli anni ’90, ne ho fatto uno spettacolo con una compagnia teatrale di Bergamo. Avevo messo in evidenza il rapporto possibile fra il fare questo tipo di poesia e l’aver subìto alcuni lutti gravi e precoci. Anche il professor Ciccuto, dell’Università di Pisa, si era interessato a questo mio lavoro. Se la mia ipotesi venisse un giorno confermata da sperimentazioni scientifiche, si potrebbe usare anche questo strumento del calligramma nei pazienti con disagi per lutti importanti. Tutto questo l’ho scoperto quando mi sono chiesta: cosa mi ha spinto a scrivere poesia visiva, e in particolare, poesia calligrammatica? All'inizio mi sono data la risposta che si può leggere nel testo Appendice. Madrigali, in fondo al mio libro La memoria dell’immemoria. Lì parlo dei miei calligrammi come fossero, sia una forma di madrigalismo, sia un modo di recuperare una benefica ‘lentezza’ nel leggere la parola scritta. Quindi, diversamente da cosa è stato detto e scritto da alcuni critici frettolosi, quella mia poesia visiva non aveva niente a che fare con riesumazioni di futurismo marinettiano! Ma allora qual era la motivazione meno conscia? Quando sono andata più a fondo, l’ho intravista e intrappolata in quei testi della rappresentazione teatrale: si trattava di un gioco rassicurante, inconscio, per tentare di riparare un lutto antico, che agisce continuamente, che ti spinge a cercare un recupero mascherato. Come? Ecco spiegato: far diventare la parola, corpo, per mezzo della poesia visiva calligramatica, era un gesto attivo, benché inconscio, per creare quella specie strana di miracolo che, in altri modi, fa tornare la persona perduta. Perché miracolo? Perché la cosa, dallo stato di parola e segno astratto ridiventava corpo e il corpo era la persona perduta sotto mentite spoglie!

 


 

azzurra d agostinoMarisa Brecciaroli, ha pubblicato diversi libri di poesia, poesia visiva e sonora.
Tra gli anni '80 e '90 ha seguito percorsi di formazione, ricerca e sperimentazione in poetry therapy e musicoterapia: psicoanalisi a indirizzo psicodinamico, formazione quadriennale in musicoterapia a indirizzo psicodinamico, corsi e seminari in Psicofonia presso Elisa Benassi (Mantova), collaborazione con la poetry therapist Antonella Zagaroli.
Recentemente ha seguito una formazione di Terapia strategica breve e di Terapia EMDR.
Conduce laboratori di poesia e musica anche in ambito psicologico.

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