Nell’ambito della più ampia cornice dell’Arteterapia, la Poetry therapy rappresenta la possibilità di lavorare con la parola e la forma poetica, sempre nell’ottica di riconoscere e dare forma a quello che sentiamo. La scelta della parola per fare questo può risultare a volte un po’ difficile, soprattutto per chi ha il pregiudizio che la poesia si inquadri in un rigido dogma formale, soprattutto per quelle generazioni o quei casi di persone che hanno studiato la poesia in un modo coercitivo che l’ha resa noiosa, o peggio seriosa, e magari legata a un forte senso del dover-essere. Nel mio approccio parto dall’offrire una visione multiprospettica della forma poetica, utile per togliere alla poesia il gravoso velo di pregiudizi, utile per aggiungere alla poesia livelli ricchi di potenzialità e sconosciuti ai più.
“Affordance” inesplorate del linguaggio poetico (e del corpo)
Freud diceva che alcuni suoi pazienti non erano bene in grado di raccontare i loro sogni a parole, ma potevano disegnarli. Non era la parola, bensì le immagini che li facevano sentire più liberi di rappresentare l’inconscio. La percezione visiva – come Freud stesso ci fa notare – precede lo sviluppo della capacità di espressione verbale, e c’è anche da considerare che la parola è da qualcuno percepita come caricata da un uso “antipoetico”, pratico e quotidiano, con una diffusa connotazione descrittiva, commerciale, logico-verbale, piatta e razionale – nel senso più negativo di questo termine. Raccontare i sogni attraverso le immagini serviva ai pazienti di Freud quindi a ovviare, probabilmente, anche a un’inadeguatezza (o meglio a una sconosciuta adeguatezza) del linguaggio verbale; meglio della parola l’arte figurativa poteva restituire all’idea la sua profonda natura. Naturalmente anche il linguaggio verbale può raccontare sogni, evocare sensazioni e questa infatti è una grande possibilità che la poesia offre. Ma a volte la poesia viene fatta studiare a scuola con modi che la rendono ostica e noiosa, che la fanno sentire come qualcosa di inarrivabile. Per arrivare a un’espressione verbale (più) libera, quindi, è spesso necessario liberare il linguaggio. Per farlo può essere utile partire da approcci diversi da quello tipicamente poetico.
Lo faccio nei laboratori che conduco perché facilita quella libertà di appropriarsi della parola, che spesso non viene sentita come possibile: non ci si dà il permesso di usare la parola per esempio come colore, come materia, come possibilità evocativa. Nella mia esperienza ho potuto osservare che la parola è spesso carica di “doverosità” descrittiva e controllante.
Soprattutto nei primi incontri di un laboratorio cerco sempre di lavorare affiancando al piano della poesia lineare conosciuta quello della poesia sperimentale, per esempio la poesia visiva e sonora. Quest’ultimo livello può risultare anche assai divertente. Restituire alla poesia un aspetto divertente è aggiungere un piano di lettura non solo interessante ma anche importante. In questo contesto è nato un approccio materico e sensoriale alla scrittura, di cui oggi vi narro.
Racconterò qualcosa che è avvenuto all’interno del LABORATORIO LA POESIA CHE CURA, che da tre anni conduco settimanalmente, attualmente al Circolo Arci Fanfulla 5A di Roma, e si tratta di un pezzo di strada che fa parte di un percorso ben più ampio e che magari può rendere l’idea del mio approccio, legato sia a un allargamento di prospettiva, un avvicinamento multidisciplinare verso il linguaggio poetico, sia – parallelamente – a un percorso che coinvolge il corpo, i sensi e la percezione, nell’ambito di un discorso di psicofisiologia integrata, che portano avanti da anni il prof. Vezio Ruggieri e i suoi collaboratori, con cui mi sono formata e che mi hanno fornito gli strumenti che ho modellato secondo i miei propositi (poetici).
Approdare al linguaggio verbale dopo incursioni nei vari linguaggi sensoriali (materici, visivi, sonori ecc.) restituisce allo strumento linguistico molto del suo potenziale espressivo, che è molto più esteso di quello che normalmente si immagina. Lo strumento-linguaggio liberato dai pesi morti moltiplica le sue possibilità di invito all’uso. Immagine che, tra l’altro, potrebbe essere benissimo usata anche come metafora del corpo e del suo peso (peso filosoficamente inteso come valore); un livello importante che il modello ruggeriano rende protagonista è proprio quello di avvicinarsi a una rieducazione esistenziale della gestione del peso del corpo, arte che coinvolge livelli psichici e fisici, con tutto un lavoro dietro complesso e profondo.
L’approdo alla scrittura: dal gesto al segno
Vi racconterò dunque un modulo del laboratorio, a cui ho dato il nome di PROVE DI SCRITTURA PRIMORDIALE. È stato proposto in un momento del percorso di un gruppo già avviato, già coeso e con tanto lavoro fatto. All’inizio dell’incontro è stato consegnato a ogni partecipante un pezzo di creta già tagliato; come fase di preparazione l’abbiamo un po’ lavorato e poi battuto. Dopodiché ho invitato i partecipanti – su mio esempio – ad appiattire il pezzo, in modo da farlo diventare una tavoletta di circa un centimetro di spessore. Ai bordi si poteva decidere come gestirla: si poteva tagliare con un coltello, qualcuno l’ha resa irregolare.
A questo punto ho invitato il gruppo ad allontanarsi dal tavolo da lavoro, a riunirsi in cerchio, a chiudere gli occhi, a rilassarsi, a entrare in contatto con la frase che ripetevo: “io lascio un segno”, coniugata in un primo momento nella modulazione “io lascio un segno a te”, che in un secondo momento è diventata “io lascio un segno a me”. Ogni partecipante veniva invitato a prendersi il tempo per lasciare fiorire nel corpo un movimento, un gesto, per ognuna delle due possibilità. Quello che è emerso è stato condiviso e mostrato al gruppo: chi sentiva il gesto partire dalle braccia, chi dalle gambe, chi dal capo.
Poi siamo tornati al tavolo da lavoro. Ai partecipanti sono stati consegnati dei lunghi e robusti stecchini di legno. Innanzitutto è stato chiesto di dividere con questo supporto lo spazio della tavoletta in due parti, poi di scegliere una parte per esprimere il gesto “io lascio un segno a te” (se il movimento gestuale ad esempio partiva dalla gamba si trattava di farlo arrivare al braccio e poi alla mano che quindi segnava la creta). Nell’altra parte della tavoletta, ognuno ha poi inciso allo stesso modo il gesto che corrispondeva a “io lascio un segno a me”.
Così sono state incise le tavolette. Siamo approdati a una zona presemantica del segno, protomentale nel senso squisitamente ruggeriano del termine.
Dal segno alla poesia
Dopo una condivisione la sessione si è conclusa e dopo alcuni mesi le tavolette – che nel frattempo erano state cotte in un forno apposito – sono state ripresentate di fronte ai partecipanti, durante un’altra sessione. Di per sé il primo incontro in cui era uscita fuori questa scrittura era già piuttosto interessante, i segni incisi nella creta si sono rivelati piuttosto emblematici, al di là di ogni interpretazione. Qualcuno non ricordava cosa fosse esattamente accaduto nella sessione in cui la tavoletta era stata incisa, infatti era stato esplorato un livello molto profondo, in cui rilassamento ed espressione andavano perfettamente d’accordo, era uscito veramente qualcosa di molto spontaneo.
Di fronte alla propria tavoletta di terracotta c’era chi si stupiva, c’era chi ricordava perfettamente, c’era chi ricordava la tavoletta ma non ricordava il procedimento, c’era chi ricordava il procedimento ma non la tavoletta, e così via. La seconda fase è stata questa: durante un rilassamento guidato è stata data l’immagine di stare nel proprio giardino, in mezzo alla natura, in un posto tranquillo e sicuro, e di vedere a un certo punto la tavoletta che sbucava un pochino dalla terra e poi veniva trovata. Dopo una condivisione è stato chiesto ai partecipanti di trascrivere la traduzione della tavoletta che avevano trovato, che aveva incisi questi caratteri quasi sconosciuti: è stato chiesto se poteva essere immaginabile una possibile traduzione della scrittura di questa tavoletta. Sono nati così i testi qui riportati.
All’inizio questo modulo si intitolava “asemic tavoletta”
Come praticante di scritture asemantiche ho trovato con questo modulo un modo per proporre questa esperienza ai partecipanti dei laboratori che conduco. Trovo la sequenza interessante per i risultati ottenuti: sono fiorite delle scritture asemantiche che provengono da una dimensione profonda e ancestrale, queste scritture si sono poi trasformate in semantiche attraverso una operazione di “traduzione”. Il testo che chiude il modulo ha così, in qualche modo, attraversato mille secoli interiori, ha ripercorso la quintessenza del processo evolutivo contenuto nella frase IO LASCIO UN SEGNO. Un testo lineare che è frutto di un processo essenzialmente sensoriale e figlio di concretezza: questa tavoletta, che ha avuto una cottura, un oggetto concreto da poter tenere in mano, che è stato inciso con l’odore forte della terra fresca. Se consideriamo che oggi molti scrivono quasi soltanto al computer, tornare alle origini della scrittura porta con sé un aspetto direi importante: far parlare insieme diversi “linguaggi” del linguaggio, mettere in comunicazione e facilitare una buona integrazione tra il piano astratto e cognitivo e quello più intuitivo e sensoriale, livelli a volte disgiunti fra loro.
Lascio un segno a me
Vorrei per chiudere accennare al fatto che in questo lavoro viene valorizzata la possibilità di parlare a se stessi. Ogni volta che si fa arte naturalmente questo aspetto c’è, e in questo modulo ho voluto dargli risalto. Quando si fa arte si lancia (volenti o nolenti) un messaggio agli altri, sì, ma anche – e chissà a volte soprattutto – a se stessi, e questo tipo di messaggio, quello che sta sotto la grande cupola del IO LASCIO UN SEGNO A ME, io lo considero un aspetto veramente interessante e degno di essere preso in maggior considerazione, perché offre nuove strade alla possibilità di sentirsi, di riconoscersi, di rafforzare il proprio io, di integrarsi, quest’ultimo verbo inteso come piacere di percepirsi in un’interezza identitaria, cose che in questi tempi di frantumazione seriale dell’io, a mio avviso, sono poesia pura al 100%.
Testi
Non c’è prigione
Non esiste paura
Che il respiro della vita incessante
Non possa dissolvere
Come il vento consuma la pietra
Inesorabile, paziente
Patrizia
Per Raggiungere la Montagna, Proseguire Sempre Dritto
Stando Attenti
ai Tratti Dissestati
E Alle Curve
Che Possono Essere
Pericolose
Carlo Ricciardelli
Sopra l’acqua
papera o animale acquatico che si muove
sotto l’acqua serpe di fiume.
sopra la terra
un albero grande
un otto rovesciato infinito
una elle come un legaccio
o un legame.
sotto terra il filo di ferro, il cappio, l’uncino.
di lato tentativi di un otto incerto
a finire con un otto in alto
di lato andare verso l’alto
come un triangolo divino
e di là solitudine, ripiegarsi
Giovanni
Gli alberi contava
Meticolosamente
Erano pini, forse
Nemmeno troppo belli
Sicuramente
Non importava
Ne sentiva il respiro
Il puro messaggio:
“Proteggere gli alberi
Quando le genti smetteranno
Una crepa
Dividerà il mondo”
Nudo,
Solo ed offeso
Così gli uomini
Perduti
Michela
Ritorno a te
Piccola alcova profumata
Umida, tiepida, socchiusa
Una piccola chiazza chiara
Sonora, frammentata e scomposta
Dentro di te il passato antico
Chi ti ha sotterrato?
Lea Via
Bibliografia
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Malchiodi Cathy A. (2009) Arteterapia. L’arte che cura - Giunti Editore - Milano
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Laura Cingolani è poeta, artista, arteterapeuta. Suoi testi compaiono in numerose antologie e riviste, nel 2019 è uscito il suo libro Mangio alberi e altre poesie (edizioni del verri, Milano). La sua formazione umanistica ha incontrato l'Arteterapia nel modello psicofisiologico del Prof. Vezio Ruggieri. Collabora con l'associazione Hairam Onlus. (Foto di Dino Ignani)
» La sua scheda personale.