Questa è la postfazione a un libro curato da Azzurra D’Agostino, insieme a Francesca Matteoni, nel 2016. Il volume, dal titolo Un ponte gettato sul mare, è la raccolta delle poesie esito del progetto “La Casa della Poesia”, laboratorio realizzato in collaborazione con l’associazione culturale Perda Sonadora e la Cooperativa Sociale CTR e rivolto alle persone con sofferenza mentale, ospiti della casa famiglia Su Foghile di Samugheo, delle comunità ad alta intensità terapeutica di Busachi e Santa Giusta e del Centro per l’Autonomia di Oristano, in Sardegna.
Sono passati alcuni anni e posso dire, certa di farmi portavoce anche di chi quell’esperienza l’ha fortemente voluta e resa possibile, in primis l’allora presidente dell’Associazione Perda Sonadora Mario Cubeddu, che si è trattato di un percorso che ha cambiato per sempre il mio (il nostro) approccio alla poesia. La visione su cosa la poesia possa essere, sulle enormi potenzialità che in sé contiene. Qualcosa di molto più grande, complesso, articolato e potente di quanto un lettore, un critico e persino un poeta possano immaginare fermandosi alla pagina scritta o alla sola comprensione intellettuale. La poesia ha qualcosa di fondativo. Questo mi è ormai chiaro al punto da essere innegabile, e mi è chiaro non come concetto, ma come esperienza. Come tale, cioè come tutto ciò che sta alla base, può essere strumento conoscitivo, di crescita, di costruzione e, infine, terapeutico. Mi pare a volte che ci sia una sorta di sospetto, specie tra gli ‘addetti ai lavori’, nel pensare la poesia in questo modo. Probabilmente perché il confine con l’ingenuità e l’orfismo è sottile, in questo campo. Ma è semplice la controprova che smaschera sia pregiudizio, da un lato, sia semplicioneria, dall’altro: basta provare. Trovarsi in una condizione di allarme, qualsiasi esso sia, e vedere cosa succede a stare nei versi”.
Nel risistemare tutti i testi raccolti in questo volume, nel rileggere le parole delle introduzioni scritte da chi ha voluto e condiviso con me questo viaggio, uno strano stupore e una certa commozione mi hanno presa. E credo che questa commozione e questo stupore siano gli ingredienti fondamentali che rendono il senso stesso di questo volume, che lo vivificano come un oggetto prezioso e destinato a durare. La scelta di realizzare un’antologia di poeti non riconosciuti come poeti, di esordienti assoluti, di scrittori quasi improvvisati e tratti fuori da luoghi in cui solitamente si preferisce non entrare, può essere letta in vari modi. Potrebbe essere un atto meramente documentaristico, a testimonianza insomma di un percorso svolto. Potrebbe essere una dedica, il desiderio di donare a chi ha partecipato a questa avventura un piccolo lascito concreto di quello che è stato vissuto. Potrebbe essere un esempio, un monito, un’indicazione di possibilità da porgere a tutte quelle realtà che desiderassero sperimentare nuove pratiche per lavorare insieme dentro alle cooperative sociali, alle case famiglie, ai centri di accoglienza. In parte è tutte queste cose, ma c’è anche altro. Potrei definirlo un piccolo manifesto. Non solo di poetica, ma anche di etica del fare. Del fare poesia, del fare educativo, del fare in generale.
Cosa dichiara questo manifesto? Innanzi tutto, che la poesia non è né un luogo astratto né un valore in sé. Per gli addetti ai lavori, soprattutto, ogni tanto è bene ribadire che la letteratura non è un valore. Lo sono la ricerca dell’onestà, l’amicizia, la compassione in senso classico. E se la poesia può diventare uno strumento di pratica di questi valori, io credo che assuma un senso ancora più forte al di là degli esiti artistici che vengono raggiunti.
Personalmente trovo tra l’altro che in questo volume ci siano non solo tentativi talvolta naïf, anche poesie di buona fattura. Considerando che molte sono state scritte in modo estemporaneo, tanto che anche per persone che abitualmente scrivono poesia come Francesca e la sottoscritta non siamo forse davanti ai testi in assoluto migliori, alcune liriche hanno davvero del buono. Riescono a far emergere tutto il precipitato che la vita fa sedimentare sul fondo dell’anima (questa parola violentata) con levità, con trasparente e generosa limpidezza.
Quello che volevamo Francesca e io, che è quello per cui e con cui lottiamo quasi quotidianamente, è che si potesse vivere tutti insieme la libertà di un’esperienza al di là dell’ansia per i risultati. Ogni poeta, ogni artista, deve certamente fare i conti con l’esito del proprio fare, ma nell’ambito della creazione deve poter essere libero dal tormento che la nostra società impone verso la prestazione. Trovarsi ad agire questo all’interno di un gruppo di persone completamente e definitivamente e concretamente sganciate dalla logica della riuscita, dell’efficienza, dello stare al passo, ha permesso a noi tutti un fare diverso, più puro quasi, e ci ha messi in discussione io credo profondamente in merito alla sincerità del nostro essere, o meno, in consonanza con la società. Questo piccolo libro-manifesto dunque si presenta al lettore come un luogo della riflessione sul nostro mondo, sui suoi canali, sui suoi ritmi, sul suo linguaggio.
Un’altra dichiarazione implicita contenuta in questo testo è la grande fiducia nel linguaggio. Il linguaggio come possibilità non tanto o non solo di esprimere se stessi, ma soprattutto di riuscire a dire – tramite il passaggio attraverso il personale – quello “strambo”, quell’extra-ordinario che sempre ci accompagna mentre ci aggiriamo per la terra. “C’è sempre uno che ti cammina accanto” diceva Eliot, e nel segreto di questa frase sta tutto: l’Oltre, ma anche il nostro passato, i nostri disagi, le possibilità mancate, il linguaggio stesso che come un’apertura di cesoia squarcia il noto per aprire all’ignoto contenuto nelle parole. Mettersi attorno a un tavolo tra sconosciuti con vissuti diversissimi, alcuni dei quali particolarmente complessi, e iniziare a usare lingue altre (la poesia, come lingua sempre ulteriore, ma anche il sardo o il dialetto di altre regioni italiane, con tutto il loro denso composto di vita e terra) per raccontare stralci di infanzia, di sogni, di paure, di visioni, è il gesto più poetico e più politico che credo si possa fare oggi.
C’è dunque qualcosa di non personale, né personalistico, anche nelle poesie più intime e “confessionali” che stanno in questo libro. C’è il tempo dedicato alla ideazione e realizzazione di un progetto, che è una parola che ha a che fare col ponte gettato sul mare a cui allude Pascoli. E c’è qualcosa di anarchico, scandaloso e profondamente scardinante nello scrivere poesia oggi, in questo modo collettivo che è stato praticato. Un ribaltamento dei luoghi più banali, che secondo me è raccontato ne Il paradiso è brutto, primo verso di una poesia di Tonino Guerra che è stata usata come punto di partenza per la scrittura di una serie di poesie dedicate al proprio Paradiso. Guerra ha un attacco fulminante: il paradiso è brutto, per poi, come dopo una caduta lunghissima, connettersi al secondo verso che comincia con “se”. La sorpresa che è questo primo verso, sorpresa provocatoria e quasi ironicamente blasfema, diventa una possibilità di azione nel suo proseguo “se” Mi pronuncio sul Paradiso, sul luogo che dagli altri, forse gli dei, forse gli avi, forse semplicemente tutti gli altri, hanno deciso essere il luogo perfetto, il luogo bello per eccellenza. Ma io, con il mio “se”, metto in discussione quello che dovrebbe essere un dato di fatto condiviso, e affermo un’alterità. Il Paradiso diventa allora il “mio” paradiso, un posto che è brutto se non ci sono, ad esempio, gli animali (come dice Guerra).
Ecco, la poesia agita in modo corale come noi abbiamo fatto, è un po’ come questa poesia di Guerra. Apre possibilità altre a ciò che sembra assodato. Permette di pronunciarsi con la propria testa e soprattutto di ribaltare il noto, di trasgredire e spostare i confini, allargare un po’ il trattino che separa il “sì” dal “no”, il “giusto” dallo “sbagliato”, il “normale” da ciò che viene definito non essere tale.
Per questa ragione sono convinta che il libro che ora è tra le nostre mani è come un oggetto che viene da un altro mondo, un oggetto che ha fatto un lunghissimo viaggio e ci arriva come un dono inaspettato. Il dono di concederci una possibilità in più, quella di credere che un altro mondo non solo sia possibile, ma esiste proprio nel momento in cui lo pensiamo o, semplicemente, lo desideriamo.
Un’avventura per mare
di Francesca Matteoni
Quando nell’estate del 2015 Azzurra mi ha telefonato per propormi di unirmi a lei nella conduzione di un laboratorio di poesia con gli ospiti di alcune case famiglia della provincia di Oristano, ho accettato subito, senza rifletterci troppo su. E perché avrei dovuto? Si trattava di andare via alcuni giorni in ottima compagnia a lavorare con la scrittura, mettendone in atto il suo aspetto terapeutico, che cura perché libera l’immaginazione, la lascia essere com’è, senza giudizio, prima di incastonarla nei versi e nel ritmo. Perfino nei momenti più cupi, mi sono sempre detta, si può trovare una storia, aggrapparcisi fino a che non diventa vera. Si può imparare qualcosa, anche se all’inizio nemmeno ce ne accorgiamo, perché la vita fa troppo male e noi ci siamo immersi senza quasi lo spazio per un respiro. Non so se ero davvero pronta all’esperienza che ho trovato. Ma in fondo non lo si è mica mai: l’esperienza autentica ha come componente principale la sorpresa, quella forza con cui l’altro, là fuori, ci investe, mentre siamo occupati nel nostro progetto. Siamo partite, abbiamo attraversato quel poco mare che divide la Sardegna dal continente, abbiamo accettato implicitamente di fare naufragio, armate solo di poesie come legni, in un altro mare, che è, senza farla troppo lunga, quello dell’anima. Durante i due giorni del primo laboratorio dicembrino ero emozionata, contenta che ci fosse Azzurra. Poteva succedere di tutto, che in questo caso significa principalmente ritrovarci con tanti fogli bianchi e nessuno che volesse provare a scrivere. Scrivere in pubblico non è cosa facile – temiamo sempre il ridicolo e il nulla. In quel momento non ha così tanta importanza che si scriva in un luogo oppure in un altro, che si sia nella stanza di una casa famiglia o nello spazio autogestito di qualche associazione culturale – in quel momento si è al pari. Lo si è perché tutti veniamo portati via dall’uso comune del linguaggio, quello stesso che ci dice come e dove, secondo quali schemi vivere, verso il posto segreto dove le parole si rigenerano, si fanno nuove e a volte volano nelle poesie. Chi è più fantasioso? Chi scriverà con la penna e chi con il suo silenzio? Non esiste una classifica. Esistono gli oggetti, i ricordi, i suoni che fanno le frasi, gli occhi che guardano un’altra volta qualcosa di familiare. Siamo state accolte, l’imbarazzo vinto, sono iniziati i commenti, il lavoro, i volti e i gesti – forse ci veniva un po’ da ridere, forse avevamo paura, forse non sapevamo come terminare un testo… ma tutte le parole davvero importanti erano lì. A marzo, quando siamo tornate, sembrava di aver lasciato l’isola il giorno prima. Chissà se il ponte che abbiamo creato tutti insieme assomiglia non alla parola “eternità”, che nella fiaba della Regina delle Nevi il bambino non riuscirà mai a comporre, ma a “intensità”. Un’intensità che richiede pudore, che non può essere espressa in un’introduzione, sebbene abiti le pagine di questo libro.
Io e Azzurra con Bianca, la sua bambina, e la nostra amica Ambrogina eravamo ospiti a Seneghe, nella casa di Mattea. Da una casa di quattro donne di varie età, Mario ci traghettava con un viaggio di circa un’ora nelle case famiglia. Il tragitto del ritorno era strano, mi sentivo il cuore pieno di gratitudine, di lacrime, del mio passato e del passato sconosciuto degli uomini e delle donne con cui avevo scritto. Una sera ho pensato che c’è un pozzo fondo nel centro di tutte le vite, qualcuno lo ignora per sempre, qualcuno vi sbircia dentro, qualcuno vi cade e qualcuno risale. Chi risale deve riconoscere la profonda dignità di chi resiste sul fondo, deve riconoscere la fortuna o gli strumenti per cui alla fine può dire la sua storia. E ho pensato infine che mentre eravamo lì per insegnare stavamo in realtà imparando molto sul significato dell’uguaglianza e della condivisione. Della trama fragile che ci tiene tutti e che possiamo sempre ricucire se si spezza. Ho pensato che stavo ricevendo un dono, che c’è un coraggio inaspettato in chi decide di scrivere una poesia sull’infanzia, sul mare, sugli animali, sulle stagioni, mentre la sua vita è ai margini, mentre, con un vocabolo che non amo affatto, cerca di riabilitarsi per la società. Non bisognerebbe dimenticare che ognuno ha una sua abilità come ognuno ha un suo dolore che forse il mondo non riconosce, ma lo contiene. Ognuno può restare a galla con il coraggio della sua propria parola. Sono sempre gli altri che remano fino a noi e ci salvano, mentre credevamo di essere noi a trarli in salvo.
Azzurra D'Agostino è nata e vive sull’Appennino tosco-emiliano. Ha pubblicato raccolte di poesie tra cui D'aria sottile (Transeuropa 2011), e Alfabetiere privato (Lietocolle, 2016), albi illustrati e libri di poesie per bambini tra cui Poesie della neve (Fatatrac 2019), Quando piove ho visto le rane (Valigie Rosse, 2019) e Da grande voglio fare il poeta (Electa Mondadori, 2019), traduzioni. Sta per uscire il suo primo romanzo per ragazzi. Scrive per il teatro, conduce laboratori di lettura e scrittura poetica e si occupa di organizzazione culturale come presidente dell’Associazione Culturale SassiScritti. (Foto di Fabio Sebastiano)
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Francesca Matteoni conduce laboratori di poesia e fiaba e di tarocchi intuitivi. Vive sulle colline pistoiesi. Ha pubblicato vari libri di poesia fra cui Artico (Crocetti 2005), Acquabuia (Aragno 2014) e Libro di Hor con le immagini di Ginevra Ballati (Vydia 2019); il romanzo Tutti gli altri (Tunué 2014) e il saggio Dal Matto al Mondo. Viaggio poetico nei tarocchi (effequ 2019).
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