Viene presentata un’esperienza nella quale, con l’avvio di un percorso di psicoterapia, ha inizio anche la scrittura di poesie ispirate sia dalla richiesta d’aiuto, sia dal rapporto terapeutico; nello specifico viene descritta una terza componente del processo di cura: la lettura in pubblico. Si è scelto di trattare, per ora, in maniera indiretta le questioni personali oggetto di psicoterapia e si è scelto di non fare distinzioni (non avendo le competenze per farlo) tra i termini: sostegno psicologico, psicoterapia, psicoanalisi, che qui, così come nelle poesie, vengono usati come equivalenti.
Come tanti, anch’io fin da bambina scrivevo poesie, ma la “poesia della psicoanalisi” (così l’ho provvisoriamente chiamata) è arrivata molti anni dopo:
Tu in poesia è lui il terapeuta.
Lui mi ha dato la parola
ed io l’ho presa e ne ho fatto poesia,
che spunta ai margini di un percorso di cura,
come erba sulla riva di un fiume.
Tu parli,
smuovono le mie emozioni le tue parole,
come remi sull’acqua
le tue parole creano onde
… e viene a galla dolore.
In realtà della sofferenza che avevo dentro era difficile parlare, anche se lui era lì per ascoltare, così accadde che scrissi le prime poesie: poesie amorose ispirate dallo psicoterapeuta. Per inciso, solo nell’estate 2019 ho scoperto quelle che Vivian Lamarque ha dedicato al suo psicanalista, poesie scritte prima, e meglio, di me.
Nel mio caso, lo psicologo accettò - e io gliene sono grata - che fosse quello il primo canale di comunicazione, scelse di lasciarmi fare e non fece obiezioni neppure quando sentii il bisogno e il desiderio di condividere quelle che, gli dicevo, consideravo “le nostre poesie”.
Dopo ogni seduta, in poesia davo voce scritta a ciò che non ero riuscita a dire, perché “le parole premevano per diventare immagini in movimento, monologhi in dialogo: premevano per diventare poesia”; poi le poesie stesse si trasformavano perché con il tempo cambiavano loro e cambiavo io, toglievo il superfluo o aggiungevo una strofa, proprio come canta Roberto Vecchioni ispirandosi al poeta Nazim Hikmet “sulla scrivania/manca solo un verso a quella poesia/puoi finirla tu”. Così è stato anche per la poesia che ho avuto l’onore di leggere il 10 maggio 2019 al Convegno Nazionale dell’A.U.P.I. (Associazione unitaria psicologi italiani):
Colui che si prende cura dell’anima e della mente,
come colei che si prende cura della mente e dell’anima
giorno dopo giorno, ora dopo ora, si siede in una stanza accogliente
e davanti ai suoi occhi scorrono immagini e nelle sue orecchie racconti, parole, silenzi;
di fronte si siedono persone e lui ricama:
trasforma ogni parola in filo resistente,
intreccia i fili del suo lavoro con i fili della loro vita.
Ricama e con i suoi fili riconcilia
il presente al passato
e collega il dentro con il fuori.
Scorge, tra oniriche visioni (mai banali),
un filo dorato
e con quel filo ricama sfumature benedette,
riveste di chiarezza memorie amare.
Non sempre riesce a sorridere, quando lavora,
ma sorride sempre, quando ricama.
Ricama e sfilaccia l’ordito e la trama
fino a che
prigioni sconosciute
e rifugi segreti
si aprono
mostrano ciò che nascondevano
e nuovi, sorprendenti, giochi di luce
riempiono i vuoti creati nella tela.
Ricama e trasforma le lacrime,
quelle trattenute e quelle improvvise,
in luccicanti perline da ricamo.
Non sempre riesce a sorridere, quando lavora,
ma sorride sempre, quando ricama.
E le vite di uomini e donne dai corpi più diversi, di età diverse,
cambiano, pian piano, diventano vite vivaci, vite viventi.
Tra l’estate 2018 e l’estate 2019 venni invitata ad alcuni Open Mic (microfono aperto) e durante un incontro d’Avvento in preparazione del Natale 2018, lessi un testo che parlava di famiglia e di angeli; venni in tali occasioni, avvicinata da sconosciuti e il loro apprezzamento, le parole le emozioni condivise, mi incoraggiarono a fare quello che stavo facendo: partecipare a incontri pubblici e contribuire con una poesia.
Per circa un anno, quindi, ogni volta che si presentava l’occasione mi proponevo con garbo e decisione e quando la risposta era un invito, allora, avevo cura di incastonare una poesia nel contesto e la leggevo, mi ha detto un caro amico poeta, “con spontanea dolcezza”. Infine il 13 luglio 2019 avvenne l’ultima lettura in pubblico, quando, per un pugno di circostanze favorevoli, ebbi modo di partecipare all’Evento Internazionale Poesiaeuropa, portando con me una mia poesia adatta per l’occasione:
La poesia è zona franca
è libertà di parola.
(omissis)
Poeti, prima di me,
nella mia Sarajevo assediata
hanno cantato la libertà
di prigionieri
di un’Europa malata,
di una grande famiglia disgregata.
La poesia è zona franca
Per loro, per me,
per chi la legge,
per chi l’ascolta.
E sente:
sente cosa ha dentro
e decide di dirlo.
La poesia è libertà.
La lessi, alzandomi in piedi tra il pubblico, consapevole di essere tra poeti, critici letterari, editori e traduttori di altissimo livello e per infondermi coraggio mi ripetevo “Anche fosse per un verso soltanto, la mia è poesia”.
Per inciso, nello stesso arco temporale di poco più di un anno, ho incontrato e/o contattato numerosi psicolog*, poet*ed appassionat* di poesia o psicologia e dato loro mie poesie, di persona o via mail, sperando in un arricchimento reciproco; non ero consapevole di espormi “senza rete”, uno degli obiettivi della psicoterapia era aprirmi a “buoni incontri”. Tra i tanti tentativi (alcuni maldestri, altri ingenui), uno mi ha ripagato ampiamente delle delusioni: ho ricevuto da una delle più grandi poetesse italiane viventi un incantevole incoraggiamento e augurio; l’unico piccolo dispiacere è di aver consegnato stesure che in seguito, con il procedere della relazione terapeutica, ho riscritte, accorpate, ridotte, ampliate oppure accantonate, poiché, come me, la mia poesia è un essere vivente.
Tornando alla lettura in pubblico, io stessa mi sorprendo a constatare come - complementare ed in sinergia con la psicoterapia e la narrazione in poesia - essa sia stata davvero una “imprevista e inattesa esperienza di autoguarigione”, avente molteplici fattori ed effetti curativi:
- l’incontro con persone che si riconoscevano nelle mie parole oppure nelle emozioni che esprimevo con la voce e mi si avvicinano per dirmelo;
- il procedere nel “conosci te stesso” grazie al contatto con la parte di me che mi veniva restituita dalle persone sensibili che si confrontavano volentieri con me;
- il fare esperienza del dare e del ricevere gratuitamente qualcosa di “impagabile” e in maniera inaspettata, profonda e complessa;
- il vedere con i propri occhi una poesia diventare realtà, forse perché scritta come desiderio o forse presagio. E’ successo con entrambe le poesie facenti parti di questo contributo. Per la prima: tra le vite vivaci, vite viventi c’è quella della sottoscritta nel momento in cui decine di persone l’ascoltano attente. Per la seconda occorre dire che c’è una quartina che ho omesso di leggere a Poesiaeuropa, per evidenti ragioni e che per altrettanto evidenti ragioni riporto qui:
Non mi verrà rinfacciata,
non verrò picchiata
per averla scritta,
per averla parlata *
- il sapere - forse per la prima volta - cosa si prova a non tacere;
- il sapere cosa si “sente” a parlare e ricevere risposta (non in seduta con il terapeuta);
- il sentire fisicamente “la paura andarsene”;
- il prendere vita in me di stati nascenti di slancio verso un nuovo inizio,
- il poter dire la propria verità senza ferire inutilmente ma facendo del bene utilmente.
Mi sembra di poter concludere, quindi, che il mio lavoro poetico ha una forza estetico-letteraria limitata, eppure è poesia del tipo che fa bene, fatta cioè per fare bene a coloro che scrivendola, leggendola, ascoltandola, si prendono cura delle ferite proprie e altrui.
Mi auguro pertanto che questo mio contributo al numero zero della Rivista “Poetry Therapy Italia” sia d’aiuto, di incoraggiamento e di ispirazione a molti.
* Il soggetto è la poesia.
Chiara Pent, vive e lavora Torino, ha due figli meravigliosi ed un simpatico coniglio. Dopo la laurea in scienze politiche indirizzo internazionale, ha partecipato ad iniziative di aiuto umanitario durante le guerre nei Balcani: nei campi profughi, al seguito di convogli e nella città assediata. IZET SARAJLIĆ ha detto: “Non compete al poeta cercare la poesia, ma alla poesia cercare il proprio poeta e trovarlo” e Chiara, sospesa tra i due mondi, della poesia e della psicanalisi, sente vera questa considerazione del grande poeta sarajevese.
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