Inizio questo articolo sulla formazione in poetry therapy per la rivista Poetry Therapy Italia ripescando, in parte, fra i molti miei scritti già dei primi anni novanta e successivi, contenuti nella newsletter dell’Associazione Laubea, aggiungendo altresì nuove considerazioni maturate durante gli ultimi gruppi per adulti e bambini.
Innanzitutto: a chi indirizzare la formazione?
La NAPT fin dalla sua fondazione ha sempre accolto persone con diverse provenienze specialistiche. Nella mia Associazione ho scritto e iniziato formazione, rivolgendomi a psicoterapeuti di ogni tipo, ma anche a insegnanti, educatori, assistenti sociali, infermieri e naturalmente ai poeti, col desiderio di contribuire alla diffusione della poetry therapy.
Il primo aspetto da tenere presente per formare un buon poetry therapist è comprendere che il processo di consapevolezza e cambiamento all’interno delle persone potrà avvenire solo attivando il cosiddetto “guaritore interno” (Craig, 1987).
Non ci si può fissare sull’archetipo “guaritore/malato”, “io so/tu non sai”, anzi è necessario limitarlo al massimo. Come?
Tanto più il poetry therapist (o terapeuta, o altro operatore, educatore o assistente sanitario) si rende consapevole, e lavora sulla sua parte debole, sulla propria ferita, tanto più sarà efficace il lavoro con coloro che si rivolgono a lei/lui.
Mai pensare o dire: “sì, lo faccio per il bene di…”
Per mitigare il rapporto di potere, che naturalmente si instaura, diventerà importante attenuarlo all’interno di un gruppo: lavorare in gruppo diminuisce il pericolo di quanto scritto prima.
Nella poetry therapy diventa più facile perché il tramite è la poesia (o la narrativa, se si utilizzano racconti o romanzi).
Come ho scritto più volte, la poesia o la narrativa (e l’arte in genere), sono un modo per tutti di proiettare fuori di sé le problematiche interiori non riconosciute. Attraverso l’azione su di essa, la personale interpretazione, il tono percepito, la riscrittura di alcune parole, cioè attraverso l’esperienza simultanea di distacco e coinvolgimento, si arriva a rendersi “consapevoli di qualcosa che dà nuove informazioni su sé stessi” (Nana Schnache). Ciò può condurre alla creatività, primo passo per attivare il cosiddetto “guaritore interno”.
Spesso negli educatori, di qualsiasi categoria essi siano, esiste la convinzione che “essere” equivale a “sapere”, e purtroppo molto spesso accade fra insegnanti, operatori sanitari e anche psicoterapeuti. Diventa allora essenziale per un poetry therapist non cadere in questa trappola e utilizzare la letteratura non con il proposito di risanare, cioè curare, ma con quello di dare interezza, di far crescere nella completezza.
Il processo di un poetry therapist, come di ogni altro operatore, dovrebbe tendere a educare preventivamente ognuno a essere responsabile della propria vita, responsabile di quello che sente, pensa e fa, accettando la diversità intorno a noi, e non di seguire pedissequamente quello che ci viene detto.
La poetry therapy non deve aiutare a essere egoisti e critici verso chi non sente e pensa come noi, al contrario, col suo multi-significato permette di concepire ogni essere umano come un sistema molto complesso; da qui l’importanza del lavoro di gruppo, dove si ha esperienza di tutto questo.
Il secondo aspetto della formazione riguarda il modo in cui teniamo presente “il senso della poesia”.
La poesia è scritta nel linguaggio del processo primario, il nostro primitivo modo di sentire e pensare; è caratterizzata dall’assenza del tempo, oltre che da altre caratteristiche che molti poeti di questa associazione ben conoscono. È il linguaggio che il biologo Lewis Thomas (1979) chiamava “quel creatore di sogni e lapsus”.
Il processo secondario, invece, è la nostra modalità di pensiero più matura e logica, proprio della mente cosciente.
La poesia duplica il processo primario, ma lo porta a livello cosciente, dal quale può essere esaminato e compreso. La letteratura offre cioè l’opportunità di vivere un’esperienza su due livelli contemporaneamente.
Sappiamo bene che quando leggiamo un romanzo, o vediamo un film o un atto teatrale avvincente, ci sentiamo coinvolti in un modo particolare che non riguarda né la fantasia né la realtà; quando l’eroe si trova in pericolo, ci interessiamo al suo destino e non vogliamo che la storia finisca. Interpretiamo i comportamenti dei personaggi sulla base delle nostre esperienze, eppure la storia è semplicemente un’illusione di realtà, anche se il lettore, o lo spettatore, reagisce come se fosse reale; egli compie delle azioni – identificazione, proiezione, introiezione – e contemporaneamente non le compie; sta seduto su una sedia, anche se la sua testa e il suo corpo si comportano come se stesse agendo.
La letteratura, l’arte e, in particolare, la poesia, creano esperienze vicarie: distacco e coinvolgimento simultaneo che il poetry therapist offre a tutti coloro che chiedono di provare questa esperienza.
Se colpiti da un brano letterario diciamo: – Mi ha colpito. Sono stato toccato – oppure – Mi ha commosso. –
Possiamo esprimerci così per ogni arte, ma il linguaggio della letteratura rende ciò ripetibile e condivisibile.
Usiamo la poesia per le sue qualità: ritmo e metro, immagine e simbolo.
Il teorico Joost Merloo crede che sia il ritmo di una poesia a renderla salutare. Scrive che quando entriamo nel ritmo di una poesia (chiariamo che non si tratta di rima) siamo impegnati in una co-oscillazione, una co-vibrazione con i movimenti dell’universo, con i ritmi del neonato al seno della madre o quello degli amanti, con le onde, i pianeti, le stelle e “regrediamo”.
Il poetry therapist aiuta a rendere conscio questo ritmo.
Nel mio libro Counseling e poesia – linguaggio poetico e comprensione di sé (1994) quando scrivevo che ognuno di noi è un poeta intendevo quanto appena scritto sopra. Ognuno di noi, al di là se faccia il poeta o no (non amo l’espressione “essere poeta”), se diventa consapevole di come poter accedere a questi due livelli di linguaggio all’interno di se stesso, può creare la sua vita come una poesia.
Nel 1991, durante il breve intervento per il “Congresso Internazionale di Psicoterapia della Gestalt” (Siena 1991) dissi che, poiché la poesia è poiesis – fare, agire – essa significa mettere in atto lo sguardo nell’invisibile che separa ed è strada. Si tratta di un’azione volontaria non impulsiva. Se il poetry therapist agevola il gruppo, o il suo cliente, a entrare nella percezione della sua realtà attraverso il continuo collegamento fra ritmo, sintassi, lessico di una poesia, o anche a scrivere tramite la sollecitazione che questa gli ha provocato, lo avrà stimolato e facilitato a comprendere meglio anche le sue emozioni, le sensazioni psico-corporee, i gesti, gli atteggiamenti.
Aristotele, per primo, introdusse il concetto di psicagogia, cioè dell’anima che viene fatta uscire tramite la verità e il potere dell’arte. Nei libri sacri di tutte le religioni le frasi poetiche sono spesso accompagnate dalla musica, si pensi solo alle preghiere ripetute più e più volte che hanno dato e continuano a dare sostegno, se non cura, ai fedeli (anche se a volte possono essere percepite in modo distruttivo).
La lettura e la scrittura, secondo Owen Heninger, sono percorsi che conducono ad una definizione di emozioni esplosive, e lentamente restaurano l’equilibrio psico-fisiologico.
Il terzo aspetto fondamentale nella formazione è tenere presente “il servizio”.
Il poetry therapist è un servitore, nel senso che si rende utile a coloro che soffrono, e questo suo lavoro è reale. Anche i genitori, e tutti gli educatori, hanno la responsabilità di far crescere i giovani secondo questa idea.
Robert Coles, uno psichiatra sociale, già negli anni settanta sostenne una tesi secondo me ancora valida: molti giovani evitano le battaglie, pensano che siano qualcosa che bisognerebbe evitare; appena si trovano davanti a una minima difficoltà ne vengono sovrastati, non sanno nulla di come risolvere i problemi perché non è stato loro insegnato. Il loro mondo è quello delle soluzioni facili e immediate, non conoscono la via di mezzo, ma soltanto l’inizio e la fine. Hanno perso il processo e il “linguaggio”.
Il servizio del poetry therapist è fornire modelli e restituire il linguaggio, l’espressione attraverso racconti, poesie, atti teatrali, arte, cioè dare la fiamma alle persone così da riempirle di amore per il linguaggio, per imparare di più di se stessi e muoversi verso la crescita.
Non soltanto è difficile dare una definizione precisa di Poetry Therapy, lo è altresì formalizzare tecniche vere e proprie, anche perché dipendono dalla preparazione iniziale del poetry therapist.
Il quarto aspetto potrebbe essere la “preparazione della formazione”, e per questo non si può prescindere da:
– un ampio bagaglio letterario, e lasciare che si ampli sempre di più;
– un ampio bagaglio filosofico, scientifico, psicologico.
Non basta essere poeti per praticare la poetry therapy.
Se si è poeti, mai utilizzare poesie proprie. Studiare la poesia anche come scienza psicologica, oltre che comprenderla dapprima su se stessi.
– Approfondire la propria interiorità con una supervisione che faccia comprendere le deviazioni che operiamo per non ri-conoscere le nostre debolezze e le loro origini, e quanto queste nel conscio ci facciano agire in modo non realmente autentico e tale da metterci a servizio degli altri.
– Imparare a scegliere le poesie in base alle problematiche del gruppo (di massimo sei persone).
È bene suddividere questo punto in due parti.
- La scelta delle poesie è complessa.
Seguire sempre “l’isoprincipio” voluto dai fondatori americani (Jack Leedy e Arthur Lerner lo mettono alla base), il principio secondo cui la poesia scelta deve essere in sintonia col sentire della persona, mai consolatoria o opposta rispetto alla problematica della persona perché serve a stabilire il contatto.
Ecco perché durante i diversi incontri, secondo la mia esperienza, è sempre meglio scegliere almeno tre poesie. Aiutano a seguire l’evoluzione emotiva delle persone.
La prima poesia è necessaria per entrare nel cuore della problematica, poiché è lo scritto di un altro che permette alla persona di non sentirsi sola (personalmente non dico nemmeno chi è l’autore).
La seconda poesia è necessaria per amplificare il paradosso, l’ambivalenza della situazione emotiva. Un esempio facile e molto conosciuto è “T’amo e t’odio” (Catullo).
Infine, la terza poesia può permettere di uscire dall’impasse emotiva attraverso una soluzione trovata da un poeta ma che la persona può cercare in modo autonomo. Qui è necessario che il poetry therapist utilizzi tutta la sua conoscenza e capacità di distacco emotivo, per sollecitare una soluzione diversa da quella che sarebbe stata la propria.
Naturalmente per fare tutto occorre avere a disposizione perlomeno più incontri di gruppo di tre ore che permetteranno a ognuno di partecipare con le proprie interpretazioni. Gli incontri, poi, dovrebbero continuare per un mese. - Nell’appuntamento preliminare è necessario comprendere la problematica primaria di ognuno e quelle che possono dividere e unire il gruppo.
Capire ciò dipende molto dalle conoscenze psicologiche del poetry therapist, dalla personale evoluzione emotiva e anche dai blocchi sui quali non ha lavorato. Essere consapevole del proprio blocco lo potrà aiutare a essere alla pari di tutti gli altri. L’evoluzione e la comprensione della sua emotività lo faciliterà a guidare gli altri, allontanandolo dalla dicotomia “io sano/tu malato”, “io so/tu non sai”, di cui scrivevo all’inizio, da cui ci si deve distaccare il più possibile.
Esempio di poetry therapy di gruppo.
Ora passiamo sinteticamente all’esempio di come personalmente mi pongo in un gruppo di poetry therapy (e in parte anche negli incontri realizzati nelle scuole).
Faccio precedere tutto da una musica tranquillizzante, poi lascio le persone in un silenzio assoluto per penetrare nell’immaginazione che subito dopo sottolineeranno tramite un colore o una parola.
A questo punto applico diverse tecniche:
- Ascolto attivo: partecipare e ricordare ogni parola pronunciata dalle persone.
- Attenzione alla postura.
- Lettura dei testi da parte di più persone, tutte quelle che si rendono disponibili. Far notare differenza di tono e cadenza di ognuno.
- Ripetizione delle parole da cui le persone sono state più colpite, per poi farle scrivere su un foglio.
- Risposte mai risolutive ma di riformulazione, per sollecitare l’avvicinamento alla personale intimità, al linguaggio primario, con i bambini lo faccio inventandomi un gioco.
- Discussione sulla poesia: riconoscimento di alcune parole che ritengono personalmente importanti ed eventualmente loro scrittura.
- Ascolto delle risposte di ognuno, e riconoscimento diverso o uguale in qualcuno.
- Scrittura di quanto suggerito da qualcuno e scelta di qualche parola da aggiungere alle proprie finora scritte.
- Rilettura delle parole in silenzio e scelta di eventuali cambiamenti.
- Scrittura di quanto scritto in forma personale.
- Lettura al gruppo.
- Nell’incontro successivo: ripartenza da quanto scritto e sempre in silenzio per rafforzare la propria autostima; segue la lettura ad alta voce.
- Ascolto di tutti su quanto è avvenuto nel quotidiano dopo l’esperienza di poetry therapy,
- Nell’ultimo incontro: lasciar parlare del proprio sentire senza alcuna interferenza dopo la rilettura dello scritto e feedback non giudicante da parte di tutti. Personalmente esprimo un feedback empatico, in cui sottolineo i blocchi interiori persistenti e insieme la capacità di trovare soluzioni per superarli.
- Se possibile lascio lo spazio per una poesia del gruppo, come se fosse un gioco; questo vale anche per gli adulti.
Indicazioni di bibliografia.
Per quanto riguarda la bibliografia necessaria per un poetry therapist ho già scritto che deve essere molto ampia, e acquisirla richiede molto sforzo. Sarà per questo che pochi vi si dedicano?
Ora vorrei dare qualche consiglio, anche se rimango a disposizione per ulteriori approfondimenti.
Fra le letture che mi piace indicare: il maggior numero possibile di testi della poetry therapy americana, molta poesia e letteratura italiana e straniera con buone traduzioni, la conoscenza di svariati brani musicali, classici e moderni, nonché l’acquisizione di qualche conoscenza di fisica, biologia, studio del corpo ma anche di filosofia, sociologia, religioni.
Per le letture psicologiche consiglio fra i primi Jung, Freud, Hillman, Rogers, Perls, Horney, Reich, Lacan e poi quelli che personalmente si ritengono più stimolanti e consoni al personale lavoro.
Naturalmente c’è molto di più, pur se, a mio avviso, è sempre importante andare a ricercare le origini, coloro che per primi e compiutamente si sono occupati di una materia.
La base di un buon poetry therapist, lo ripeto per l’ennesima volta, è avere consapevolezza di stessi. Perché come possiamo condurre se non sappiamo condurre noi stessi?
Come comprendere gli altri e accettare che esista la diversità se non sappiamo farlo per la nostra interiorità, se non abbiamo ricercato e accettato il nostro linguaggio primario?
E poi sapere che le conquiste non sono mai definitive, che gli ostacoli da superare ci saranno sempre e che nella vita è così.
Ora farebbe bene una poesia.
Parlami. Tre
parole
si muovono con piedi pesanti
attraverso spazi aperti.
Un segno,
o l’inizio di una poesia.
Parlami. Ma non per dire
“come vanno le cose?” Non per dire
“non possono farti questo”
(loro possono, lo fanno)
e nemmeno
“cosa posso fare per aiutarti?”
Fallo, questo è tutto.
Per favore.
Niente più domande, non più
dichiarazioni risapute.
Tre parole. Comincia una poesia. Prenditi la vita
Usala.
Margaret Randall, Early Ripening, in “American Women’s Poetry Now”, Pandora, 1987 (trad. Antonella Zagaroli, 1996)
Antonella Zagaroli (Roma 1955), è poetessa, scrittrice, counselor e poetry therapist italiana. Laurea nel 1978 in Letterature Straniere moderne; master in Gestalt Counseling 1994 e master in Poetry Therapy 1996 in USA.
Pioniera in Italia, propone i primi incontri di Poetry Therapy già dal 1991. Nel 1995 fonda LAUBEA Associazione Italiana Linguaggio Poetico e Consapevolezza per l’utilizzo della poesia terapia e la consapevolezza sociale, di cui è ancora il Presidente. (Foto di Mariangela Rasi)
» La sua scheda personale.