Valentina Selini e Paola Venezia, arteterapeute, raccontano le loro esperienze vissute attraverso casi clinici, nei quali emerge con evidenza come si concentri nella relazione paziente/arteterapetuta la chiave del principio curativo.
Le relazioni influenzano il nostro modo di pensare e di agire, la nostra percezione del mondo, la nostra capacità di rappresentare e rappresentarci.
Nei racconti dei vissuti esperienziali e terapeutici che seguono, la relazione è il principio fondativo della terapia, è elemento fondamentale che si declina in ascolto empatico, fiducia, dialogo, reciprocità, condivisione, collaborazione, tutti elementi che, in questi racconti vissuti, emergono con tutta la loro forza e significato.
E, ancora, la relazione nelle esperienze raccontate è la modalità ottimale di conoscenza e osservazione. Il terapeuta qui si racconta attraverso non solo la sua percezione ma soprattutto attraverso la sua esperienza, la sua immaginazione, la sua empatia.
Immagini, sentimenti, introiezioni, proiezioni, sensazioni sono i veri capisaldi dell'osservazione e del “fare” terapeutico più ancora dei dati sensoriali e delle relazioni logiche.
Un percorso complesso, dunque, incerto e carico di insidie, un lavoro continuo nel quale si procede in un processo osservativo, un atteggiamento mentale dove le emozioni sono sempre sottese ed è sempre necessario avere consapevolezza del proprio procedere.
E ci viene in soccorso, per un tentativo di definizione, quanto sostenuto dalle teorie relazionali della psicologia Gestaltica, dove si parla di relazione come “rapporto vero” nel quale “sia il paziente sia il terapeuta siano presenti con tutti i pregi e tutti i limiti che li caratterizzano, e si condizionino reciprocamente su un piano di uguale dignità” (Ariano, 1994).
In altri termini, citando Pearls (1968), uno dei maggiori rappresentanti di questo orientamento, “un incontro in cui due individui, rispettando la propria identità, cambiano ambedue attraverso il processo dell'incontrarsi a vicenda”.
E ancora: “il noi non esiste ma è composto dall'Io e dal Tu, è un confine sempre mutevole sul quale le due persone si incontrano. E quando ci si incontra su questo confine, allora cambio io e cambi tu, attraverso il processo dell'incontrarsi a vicenda”.
È quanto Valentina Selini e Paola Venezia ci invitano a condividere attraverso il racconto della loro esperienza, nel quale la “sperimentazione” è vivere la relazione nella sua completezza, vivere attraverso l'azione del fare nella quale non contano tanto le parole ma le emozioni, le reazioni fisiche, il “come” il paziente si comporta e si esprime nella relazione.
Ma dai racconti di queste esperienze viene fuori con forza che la relazione non è, dunque, un modo per prepararsi alla vita, ma è la vita stessa.
Fare insieme – testimonianza di Valentina Selini
L’arteterapia si fa, vuol dire che è una attività che esiste nel “fare insieme” nel dar vita ad un lavoro artistico che diventa un “medium” tra ciò che si vorrebbe essere e ciò che si può fare. Si tratta di una “terapia del fare o meglio del creare insieme” attraverso l’incontro e lo scambio di sensazioni, idee, forme, colori, sentimenti in piena libertà e con la possibilità di sentirsi accolti dall’altro per come si è. Un aspetto caratteristico del modo di operare è che non si dà nulla di concreto (non sussidi, né terapie, non si trova lavoro, non si forniscono alloggi...), non si offrono beni di prima necessità in senso stretto, ma si percepisce subito dai primi incontri che non è poi così vero.
A volte le persone cercano un “motivo” per fare le cose, non solo le cose in sé, e quell’apparentemente inutile che gli arteterapeuti maneggiano è la garanzia di uno sforzo autentico, ma nascosto. Quello che è difficile da misurare spesso viene considerato come secondario o superfluo, perché non si può racchiudere in una definizione o forse perché nessuno si può appropriare del merito.
La condivisione e la partecipazione saranno il terreno da percorrere per continuare a promuovere la relazione come strumento di cura reciproca. C’è spesso un disconoscimento di tutto ciò visto come superfluo, non serio; ma bisogna dargli una connotazione ricca e specificarla. Lo stile della leggerezza confonde un occhio poco attento, ma per sopportare il continuo gioco dell’equilibrio essere leggeri è indispensabile. Così come è necessario favorire la libertà di scelta e di partecipazione. Costa rinunciare all’idea di un progetto totale e controllato, perché costa pensare, ma l’arte può rappresentare una “alleanza” nella lotta alla sofferenza che rompe il potere e la distanza fra chi dà e chi riceve.
Recentemente una persona che mi è molto cara mi ha ricordato l’importanza di raccontarsi le storie, di raccontarsene tante, sempre, soprattutto quando si è lontani, soprattutto quando si è tristi. Allora ho pensato di raccontarvi una storia come mio contributo affettuoso (in gergo clinico si direbbe affettivo, ma mi piace di più affettuoso).
Ho fatto il liceo artistico e poi l’accademia di Brera. Poco dopo aver dato la tesi, forse un mese dopo, aprirono il primo corso sperimentale di arteterapia (fra le mie docenti la dottoressa Melorio e la dottoressa Baccei che gestiscono le botteghe d’arte dell’Ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini) e immediatamente ho pensato che volevo assolutamente fare quella cosa lì, non sapevo neanche benissimo cosa fosse quella cosa lì, ma questo non è molto importante, poi l’ho scoperto e ogni giorno lo riscopro.
C’entra usare quello che si ha, quello che si è, quello che ci fa brillare gli occhi e venire voglia di esserci e di lavorare. C’entra qualcosa che ha a che fare con il condividere, col mettersi a fianco di qualcuno nell’ostinata ricerca e costruzione del bello e del buono.
Ho scoperto che la cosa più importante è l'aria che la gente respira e quindi per prima cosa ci si deve occupare di quella: che sia buona, che sia bella, che sia facile per tutti respirarla (sarà il setting?).
Ho scoperto che gli occhi con cui si guardano le persone devono essere amorevoli e non tradire nessuna paura di mostri, di follie, di errori e di sporcizia. Bisogna non avere assolutamente paura della sporcizia se vuoi che qualcuno ti parli e si fidi di te (sarà lo stile operativo?).
Ho scoperto che si possono proteggere le persone dalle cose invisibili con cose visibili, e dopo molto tempo toccabili. Il tocco guarisce ma è difficilissimo… quindi toccare poco e pianissimo o prendere al volo se necessario (sarà il medium artistico e il fare insieme?).
Mi piace raccontarvi che la strada che facciamo insieme è piena di fatica, ma anche di regali e io ancora dopo ventun anni, mi sento come il ragazzino di “Millionaire” (se non avete visto quel film, guardatelo! Merita!).
Sono sicura che sono ricca grazie a tutti i racconti che mi sono stati fatti, alle informazioni, alle spiegazioni più disparate sulla vita e sul mondo che ho ascoltato dalle persone che ho incontrato e con cui ho dipinto spalla a spalla. Sono sicura che se non mi hanno fatto vincere un milione, mi hanno già salvato la pelle numerose volte e ancora e ancora lo faranno… che un giorno si rivelerà fondamentale sapere che l'oliva è una drupa, che tipota in greco vuol dire niente, che il carburante degli aerei si chiama kerosene avionico. Sono certa che parte della mia ricchezza è lì, che parte della mia salvezza è lì e non so bene spiegare perchè. Io so che sono in ottima salute, perché una vecchietta a cui ho portato le buste della spesa dentro in laboratorio ha pregato che non cadessi in motorino, che sono qui a scrivere perché Tina Turner in persona (o forse era Marzia Davoli, ma anche questo non è molto importante) ha chiesto che non mi fosse torto un capello per poter dipingere con me il giorno dopo, che posso raccontarvi questa storia perché qualcuno ha messo il braccio davanti bloccandomi mentre stavo attraversando la strada. Io sono ancora il ragazzino di “Millionaire” perché ho scelto un lavoro in cui si ascolta e si trasforma attraverso l’arte e alla capacità di creare immagini quello che si è ascoltato di detto e di non detto.
Mentre si dipinge, ci si racconta, si condivide tutto (sarà il processo creativo?) e questo tutto, passa dappertutto e diventa importante.
Quanti nomi di dinosauri sai? Che bandiere e capitali ricordi? Sai tracciare mappe? Sai trovare tesori? Sai allearti coi tuoi simili? Sai inventare cantilene e tiritere? Puoi farcela a combattere e vincere? Puoi farcela a combattere e perdere? Sai guardare le stelle? Sai chiedere aiuto? Ricordi il codice morse? Riconosci i segnali di fumo? Quando nevica troppo… quando c'è la bomba nella scuola, quando deraglia il treno, quando finisce la carta igienica… puoi uscire a dare calci a un barattolo o starai a casa arreso? Quando ogni tanto tutto il nostro piccolo mondo si ferma e si confonde, magari dopo essere andato dal dentista vuoi dipingere con me? Puoi dipingere tutto questo con me?
Nel nostro lavoro troviamo la strada per comprendere e accettare la diversità dei punti di vista per scoprire forse che possiamo stare più vicini di quanto si potesse immaginare. Io ho scoperto che se ci si sente amati e capaci, la propria tristezza si rimpicciolisce fino a diventare tascabile e si diventa in grado di fare molte cose e di andare anche molto lontano (sarà l’alleanza terapeutica?).
Si cerca di reinventare il mondo con quel fermento creativo che parte sempre dal basso, che raccoglie e trasforma invece di buttare via, che dà un'altra possibilità.
Certi giorni, fuori dalle botteghe d'arte, seduti sulla panchina sentiamo il rumore del mare… lo sentiamo tutti. Giuro. Abbiamo i capelli al vento e fumiamo sigari da marinai. Abbiamo sguardi attenti, coltelli fra i denti e sorrisi complici… a nessuno sembra strano quando la panchina si stacca da terra e comincia a navigare spinta dal vento. A nessuno sembra strana la balena gigante che vola sopra le nostre teste, nel cielo di Milano color manganese. È un po’ strana questa storia, è un po’ confusa? È tutta piena di immagini avete notato?
Ma se il nostro lavoro dovesse essere definito come privo di serietà e di rispettabilità scientifica il giudizio non può che lusingarci dato che esso ci accomuna finalmente alla mancanza di serietà e rispettabilità da sempre riconosciuta al malato mentale e a tutti gli esclusi.
(Franco Basaglia)
(Nelle immagini, dall'alto: Paesaggio, La mia sera, di Valentina Selini)
Il caso di Lilla – testimonianza di Paola Venezia
Sono nata a Milano nel 1958, ma ho trascorso la mia infanzia nella bella Toscana dove ho nutrito un grande interesse per ogni forma d'arte. Nonostante io abbia compiuto studi di tipo tecnico, la passione intima per l'arte è cresciuta fino ad essere parte integrante della mia vita. Le forme espressive che meglio mi hanno rappresentato e che tuttora mi rappresentano contengono la Carta, materiale che uso per raccontarmi quando scrivo poesie o quando con essa realizzo sculture.
Questa premessa per arrivare a spiegare perché sono diventata Arteterapeuta. Perché scrivere o plasmare un materiale è metafora della mia vita e ho capito che avrei potuto portare la mia esperienza laddove esprimersi era necessario. Mi sono diplomata in Arteterapia perché capivo che ovunque io portassi creatività, non lo facevo da “maestra d'arte”, ma ero altro e questo “altro” era il mondo che volevo approfondire perché acquistasse senso e regalasse senso a chiunque io mi rivolgessi. Le persone a cui mi sono rivolta sono le più svariate, dal bambino all'anziano, dalla persona con problemi di solitudine, a chi invece si sente perso per i motivi più svariati. Ma l'esperienza più importante che ho affrontato, e che affronto tuttora, è la disabilità grave e gravissima.
Ho scoperto un mondo, ma per meglio dire un'infinità di mondi che non conoscevo. Ho scoperto la bellezza della meraviglia in un sorriso dopo un cosiddetto “pasticcio”: io che ho sempre cercato l’essenza nell’arte, nella scrittura, l'ho ritrovata nelle vite di coloro a cui il mondo non sa dare un senso. Le ho viste diventare maestre di nuove e personali tecniche e sperimentazioni. Persone con gravi compromissioni fisiche e intellettive richiedono di entrare nella loro anima e ti regalano soddisfazioni e gratificazioni mai provate prima: ti permettono di incontrare la semplicità.
Fare arteterapia con loro significa cercare nuove forme di comunicazione più profonde, perché spesso non ci sono le parole, bensì solo versi, suoni... e se loro ti offrono la propria autenticità, anche tu, arteterapeuta dovrai accettare la tua autenticità per essere credibile.
Sono arrivata nel mondo della disabilità un po' per caso, un po' perché forse la vita ha voluto questo ed io non potevo immaginarlo.
Centinaia sono i “casi” di cui potrei scrivere. Ma scelgo Lilla, la persona che mi ha confermato ogni giorno l'importanza dell'istinto rispetto a speculazioni razionali o teorie. Perché per stabilire una relazione efficace e di fiducia con lei ho dovuto scavare tra le mie risorse più inaspettate.
Non sapevo neanche che potessero esistere persone così, tanto ero lontana da quel mondo. L'Arteterapia è stata anche in questo caso un potente strumento d'aiuto e supporto nonostante le capacità manuali e intellettuali ridotte al limite. Lilla soffriva di una grave e rarissima malattia genetica multisistemica e durante il nostro percorso, durato circa due anni, ho dato e ricevuto allo stesso modo. Ho fatto i conti ogni giorno con le mie e le sue difficoltà, limiti di entrambe.
Lilla emetteva un fischio caratterizzato da brevi rantoli dovuti a mancanza d'aria e questa era la caratteristica che mi aveva colpita di più nonostante la sua strana corporatura. C'era anche un sorta di lallazione che ogni tanto si inseriva. Lilla aveva circa vent'anni, anche se la sua altezza era di una bambina di circa cinque. La sua bocca era quasi sempre socchiusa per poter fischiare. Muoveva solo il capo che spostava verso la sorgente di un rumore o di una voce alta improvvisa. Il resto del corpo non rispondeva a nessuna sollecitazione, tranne nelle dita della mano sinistra e nella torsione del polso. Mi dicevano che Lilla fischiava per paura, o in momenti di stress, ma la cosa non mi convinceva. Lilla aveva frequentato la scuola d'infanzia e, per nove anni, la scuola primaria; presentava epilessia, insufficienza respiratoria, cardiopatia, apnee, ritardo mentale grave, assenza di linguaggio, difficoltà nella deglutizione. Lilla veniva inserita in altre attività in cui però rimaneva passiva, senza alcuna interazione. In uno dei miei laboratori avevo utilizzato la sabbia come materiale artistico, anche contro qualche titubanza degli operatori. Ma ero decisa a inserire Lilla in quel laboratorio. Non avevo molte notizie di lei, ma da voci di corridoio, avevo saputo che durante le elementari veniva forzata a svolgere alcune attività tra le quali disegnare o manipolare. Lilla reagiva a queste forzature facendosi la cacca addosso.
Lilla aveva imparato a riconoscere la mia voce. Con tutta la delicatezza immaginabile, riuscii a imbastire una sorta di colloquio con lei attraverso quel materiale tiepido perché lo avevo fatto scaldare al sole.
Lasciavo scivolare le sue mani molto lentamente nella vaschetta che conteneva la sabbia, lei lasciava fare e si rilassava fino ad appisolarsi.
Riuscii quindi a prendere in carico anche Lilla.
Con lei avrei dovuto creare una base comune sicura, sulla quale iniziare un percorso di esplorazione Accettarla in modo incondizionato e senza preconcetti. Era difficile da contattare, dovevo trovare una chiave d'accesso diversa dalle solite ed avere l'umiltà di cambiare di momento in momento, imparare nuovi ritmi. Dovevo fare appello all'improvvisazione perchè non sarebbero bastati i materiali artistici e le varie teorie su di essi.
Nonostante, durante la seduta, Lilla si appisolasse, ero riuscita a creare un minimo di struttura che desse l'idea di uno spazio-tempo diverso dagli altri e che fosse per Lilla riconoscibile. Lei si appisolava spesso e durante i suoi sonnellini le prendevo le mani tenendole tra le mie fino al successivo risveglio, gliele accarezzavo leggermente, accarezzavo il suo volto e quando riapriva gli occhi mi sorrideva. Mentre dormiva seguivo il suo respiro, ora silenzioso, ora in apnea o difficoltoso. Mi stavo sintonizzando sui suoi ritmi vitali, per imparare a non averne paura. E qualche volta paura ne ho avuta, mentre tossiva in modo convulso e non respirava! Trascorremmo diversi incontri così. Tra un appisolamento, un sorriso, un'apnea, finchè tutto diventò normale ed avevamo fiducia l'una dell'altra. Eravamo due normalità, lei con la sua, io con la mia. Finchè mi sentii pronta a proporle qualcosa di nuovo. Avevo letto una frase di Saramago, “mettiamo la barca in acqua, il remo si troverà!”, ed ero disposta a trovarlo quel remo ed iniziare un viaggio con lei.
Dopo ogni seduta qualche operatore mi chiedeva: “cosa avete fatto?”
Io sapevo cosa avevamo fatto... avevamo respirato insieme, ma come potevo dirlo a loro che volevano stilassi un progetto?
Un giorno Lilla non si addormentò come al solito, ci guardammo incredule. Lei fischiava, ma il suo fischio era completamente diverso dal solito ed in più aveva iniziato una lallazione particolare, come se volesse dirmi qualcosa. Decisi di riponderle allo stesso modo ed iniziammo a “dialogare”: DAppadappappà...
Da allora le sedute avevano un suono ed un sapore diverso.
Iniziai a portarle cartoncini colorati, glieli mostravo per varie volte stando attenta alla sua mimica facciale, lei dopo ogni colore si voltava verso di me e mi diceva qualcosa. Imparai così quali erano i suoi colori preferiti. Sorrideva o faceva smorfie. Quando lallava non sapevo di preciso cosa mi dicesse, ma io gli rispondevo allo stesso modo e lei era sempre più felice. Arrivai a metterle un foglio davanti ed un grosso pennarello nella sua mano sinistra, del colore che avevo intuito piacerle di più. Cambiai pennarelli molte volte finché trovai quello che Lilla riusciva a tenere. E cominciarono le esplorazioni sul foglio. Lasciava segni che io le facevo vedere, ma all'inizio erano così leggeri che era impossibile per lei vederli. Ma gliene parlavo.
Provai allora con le tempere; la incitavo dicendole che era bravissima, che aveva realizzato una cosa bellissima. Parlare di tutto il percorso sarebbe lunghissimo, ma riuscimmo a parlarci attraverso i colori. Mi parlava della mamma con il rosso, del papà col verde, di se stessa col nero...
Quando un bambino lascia le sue prime tracce su un foglio, o sulla sabbia, sul muro o nella pappa fa una scoperta che gli aprirà le porte della vita. Lilla si meravigliava di ogni suo segno ed era bellissimo! I suoi segni testimoniavano che lei non era più un essere passivo, ma parte integrante di una comunità. Le sue tracce prima erano solo sonore, ma erano una richiesta di riceverne. Tra me e lei era diventato tutto naturale e se non imitavo il suo respiro ne battevo il tempo con le mani. Diventava una danza e lei rideva.
Lilla dopo alcuni disegni era così felice che metteva un suono molto simile a IEAAMA!
Purtroppo il suo stato di salute peggiorava, ma lei fino alla fine mi ha parlato della sua mamma, del suo papà e di se stessa. Finché un giorno il suo colore, il nero, non rientrò più tra i suoi segni. Forse sono stata la prima persona a sapere che Lilla ci avrebbe lasciato.
Sono ancora commossa.
(Nelle immagini, dall'alto: Fili, di Paola Venezia; disegno di Lilla)
Raffaella Fossati
» La sua scheda personale.
Valentina Selini è pittrice e arteterapeuta.
Diplomata all'Accademia di Brera in pittura ha poi scelto di approfondire il tema dell'arte come cura in un master di specializzazione in arteterapia.
Da sempre appassionata di arte e di persone lavora nel campo della salute mentale e della disabilità dal 1998.
» La sua scheda personale.
Paola Venezia, artista e arteterapeuta, il materiale che predilege e che rappresenta la sua passione intima è la Carta, sulla quale scrive poesie (soprattutto Haiku) e che modella per farne sculture.
Da oltre quindici è arteterapeuta presso Centri per disabili , ma la sua esperienza abbraccia ogni tipo di utenza.