L’ultimo libro di Luca Buonaguidi rappresenta un ponte fondamentale tra Poesia e Psiche: "l'ispirazione poetica e la terapia della poesia”. Riportiamo qui l’intera introduzione al libro che ha richiesto all’autore più di un decennio di studi: “Nei dieci anni successivi alla mia laurea ho continuato a cercare le risposte di psicologi, poeti e filosofi all’enigma dell’incontro tra poesia e psicologia raccogliendo molteplici e talora difformi osservazioni per immaginare che cosa possa essere successo all'evoluzione della poesia da linguaggio primigenio praticato dai primi uomini apparsi sulla terra a linguaggio iniziatico, rivolto anche alla cura del disagio psichico.”
La poesia
– ma cos’è mai la poesia?
Più d’una risposta incerta è stata già data in proposito.
Ma io non lo so, non lo so e mi aggrappo a questo
come alla salvezza di un corrimano.
(Wislawa Szymborska – Ad alcuni piace la poesia)
Mi chiedo da dove vengano le poesie dalla prima volta che ne ho scritta una.
Perché è chiaro a chiunque frequenti la poesia che qualsiasi cosa sia accaduta al poeta nell’atto di scrivere quella particolare qualità della parola, non sia accaduta qui. Un altrove – coscienziale, esperienziale, spirituale… – ha posto la sua voce dentro il poeta, trasformandolo in amanuense. È chiaro a tutti, dunque, ma nessuno ha saputo scolpire qualche verità da cui ripartire ogni volta che si rinnovi il discorso. La chimica riparte dagli amminoacidi, la matematica da “due più due fa quattro”... con la poesia si riparte sempre da zero e nessun legame è dato per certo tra gli elementi del suo mondo, tranne quello con Dio… ammesso che ne esista uno: “forse i poeti sono creature particolarmente riluttanti all’addestramento alla scienza, ed è per questo che attraverso di loro parla l’ispirazione, autentica e universale, a liberarsi di ciò che è duro, spietato, algido come la formula del due più due che fa quattro. Tuttavia, grazie alla religione certe sfere della realtà sono rimaste a lungo escluse dal potere delle leggi cieche, ed è forse per questo che tra la religione e la poesia esisteva una sorta di alleanza”, suggerisce il Czeslaw Milosz (2013, p. 56).
La poesia è questa cosa che continuiamo a sentire da migliaia di anni nonostante sia impossibile da capire una volta per tutte. Tranne che per i poeti, per quei pochi secondi in cui la poesia accade loro e tutto sembra possibile, eppure ogni volta ritornano senza memoria dalla loro avventura in terra straniera. Ce la balbettano in prosa senza sortire gli effetti definitivi che questi millantano, eppure, basta sentirli cantare una volta per credere che qualcosa sia accaduto davvero.
Questo paradosso era osservato anche da Paul Valéry, che ne scrisse così: “il potere del verso deriva dall’armonia indefinibile tra quello che il verso dice e quello che il verso è. Indefinibile è termine essenziale a quest’asserto… L’impossibilità di definire quella relazione, e a un tempo l’impossibilità di negarla, costituiscono l’essenza del verso” (in Auden, 1999, p. 51).
Cosa non avrei fatto per essere scosso e destato un momento, per ricevere a un tratto la misteriosa dettatura di una rivoluzione! Che m’ispiri Iddio o il Demonio non importa: ma che qualcuno più grande di me, più sano di me, più veggente di me, più pazzo di me, parli colla mia bocca, scriva colla mia mano pensi col mio pensiero.
(Giovanni Papini – Un uomo finito)
Quando ero studente universitario a Firenze con i miei coinquilini eravamo soliti affrontare lunghe digressioni sui grandi temi dell’umanità, affogandole con un bicchiere dopo l’altro fino a farle naufragare. Una di queste zattere, tuttavia, ha continuato a circumnavigare la mia coscienza per anni. Quella notte eravamo rimasti solo io e Gianlorenzo, all’epoca dottorando in filosofia e gran cerimoniere degli spropositi filosofici che si ribadivano nella cucina di quella comunità di metafisici anonimi. Insieme ci sembrò di ravvisare una fila di visionari dal destino particolarissimo eppure comune. Avevano pagato le loro abissali intuizioni con la tragedia personale, la follia improvvisa di Nietzsche mentre vede frustare un cavallo a Torino o una dissociazione dalla propria identità come in Rimbaud che fugge dalle proprie poesie fino in Africa. Oppure all’approssimarsi della fine scelsero la poesia come corrimano davanti alla morte “all’avvicinarsi della fine, Socrate si dedica a Esiodo e al canto. Hobbes traduce Omero in versi. L’austero Hegel scrive una poesia ricca di sentimenti profondi per Holderlin” (Steiner, 2012, p. 34).
Gianlorenzo mi raccontò di altri casi di studiosi andati fuori dai gangheri dopo aver toccato il cielo con un’idea rivoluzionaria. Io enumerai tutti i poeti diventati pazzi o suicidi. Sembrava che ci fosse un prezzo per quella conoscenza ulteriore che l’elemento poetico dell’esperienza sembrava poter offrire ai più dotati e temerari. La conversazione accese in me la curiosità sul tema dei rapporti tra poesia e follia: non tanto su cosa accadesse dopo esser stati colpiti dalla seconda, ma su come la prima predisponesse a una conoscenza più profonda del mondo e di se stessi. A volte, una coscienza insostenibile.
In quei giorni stavo leggendo l’Amleto di Shakespeare, e nel lamento di Ofelia per l’abbandono dell’amato trovai l’umana vicenda di questi uomini irrimediabilmente toccati dal fuoco del proprio genio bruciante. Amleto, nella mia lettura, assurse a simbolo dell’ispirazione, mozione interna che nella sua vicenda lo porterà a scegliere momentaneamente la follia della verità al compimento del proprio destino dentro i recinti dell’esistenza comune, sebbene poi nella follia accorse Ofelia. Ma nella discussione con Gianlorenzo per me l’Amleto finì lì, in quell’abbandono finale presagio di tragedia per aver troppo cercato fuori da sé il pezzo che manca per dirci interi. Per Ofelia l’amore, per i filosofi la sapienza, per i poeti quel bagliore. E poi nulla. Mi resi conto solo dopo, grazie alla successiva lettura de Il mulino di Amleto di Giorgio de Santillana ed Helena von Dechend di quanto poco strampalato fosse mio parallelismo, sebbene lo fosse nel metodo… e lo riporto qui perché se di quella domanda restò in me traccia, fu una traccia poetica. Questa:
Oh, qual nobil mente è qui sconvolta!
… E io, la più infelice e derelitta
delle donne, ch’ho assaporato il miele
degli armoniosi voti del suo cuore,
debbo mirare adesso, desolata,
questo sublime, nobile intelletto
risuonare d’un suono fesso, stridulo,
come una bella campana stonata;
l’ineguagliata sua forma, e l’aspetto
fiorente di bellezza giovanile
guaste da questa specie di delirio!...
Me misera, che ho visto quel che ho visto,
e vedo quel che seguito a vedere!
(William Shakespeare – Amleto)
La poesia la incontrai per la prima volta nei testi delle canzoni. Come capitato a tanti esseri umani prima e dopo di me, ho iniziato a scrivere versi torrenzialmente, durante la mia adolescenza, into the great wide open per dirla con una canzone di Tom Petty & The Heartbreakers. Quel grande spazio aperto in cui ognuno cerca la sua propria voce attraverso gli altri. Io la trovai nei poeti. Da quel momento cercai di diventare uno di loro, di entrare a far parte di quell’agenzia segreta che scava tunnel sopraterranei per far passare il senso ultimo delle cose da una parte all’altra del pianeta e di noi stessi.
E dire che a scuola odiavo la poesia, a causa di “quell’assurdo esercizio scolastico che consiste nel far mettere versi in prosa che è la parafrasi. Ecco come inculcare l’idea più fatale per la poesia, perché significa insegnare che è possibile dividere la sua essenza in parti che possono sussistere separate. È credere che la poesia sia un accidente della prosa”, come sosteneva Paul Valéry nella prefazione ai suoi Charmes. Solo coloro che riconoscono alla poesia questa impossibilità possono davvero entrare e riconoscersi nella poesia. Quanto agli altri, continua Valéry, “chiamano capire la poesia il sostituirgli un altro linguaggio la cui condizione che essi impongono è di non essere poetico”. Non ho altro da aggiungere sullo sciagurato insegnamento della poesia che subii a scuola, e che tuttavia persiste.
C’è nessuno che voglia unirsi a me
nel lanciare alcuni sassi verso
quegli insegnanti che amano porre la domanda:
“Che cosa sta cercando di dire il poeta?”come se Thomas Hardy e Emily Dickinson
si fossero sforzati ma alla fine avessero fallito:
disgraziati incapaci di parlare, che altro non erano,
con la penna in bocca a guardare fuori dalla finestra in attesa d’un idea.Sì, sembra che Whitman, Amy Lowell
e tutti gli altri potessero solo tentare e fallire,
ma noi nella classe di Inglese della terza ora della prof Parker
qui al Liceo di Springfield ce la faremocon l’aiuto di questi questionari di comprensione
a dire quel che il povero poeta non riusciva a dire,
e faremo tutto questo prima
dell’orgia dell’insalata di uova e tonno nota come pranzo.
(Billy Collins – Lo sforzo)
All’epoca avevo già verificato su me stesso la potenzialità della poesia come farmaco per l’anima, e come si capisce dal fatto che a vent’anni pensassi a questo invece che alle ragazze, ricorsi spesso ai suoi benefici effetti. La scoperta della poesia era un’alternativa al disincanto che mi circondava, uno strumento per conoscere le emozioni e per interrogarmi su cose più alte di me. Le grandi domande che mi ponevo e continuo a pormi oggi come allora, riguardavano “il rapporto che c’è fra chi scrive e la sua parola; chi è l’io che parla; che caratteristiche hanno quelle intuizioni improvvise, intorno a cui si organizza una poesia” (Krumm, in Bertoni, 2006, p. 135). In altre parole, il mistero dell’ispirazione poetica. La filosofa della poesia María Zambrano pensava che l’unicità di questa arte fosse nel suo rendere possibile, contemporaneamente, il sentire e il capire. L’ipotesi mi convinse e la feci mia. Le pagine memorabili di questa donna, al cui ricordo ancora mi commuovo, mi guidarono per anni dentro altre pagine, che mi guidarono verso altre pagine ancora, e ancora, e ancora.
Vent’anni dopo quella mia prima poesia e dieci dopo il mio incontro con la Zambrano, sono uno psicologo che quotidianamente si occupa dei bisogni delle persone, spesso inascoltati o inascoltati o dimenticati.
Il mio credo terapeutico si potrebbe riassumere così: aiutare le persone a sentire e capire insieme... proprio come nella poesia. Questa notevole somiglianza tra il processo poetico e quello psicologico ha iniziato ad apparirmi con chiarezza durante l’ultimo anno di studi alla facoltà di Psicologia di Firenze, in cui, grazie alla fiducia del Prof. Gianni Marocci, ebbi la possibilità di trasformare queste mie domande in una tesi di laurea.
Inizialmente la mia idea era quella di svignarmela in fretta e senza troppo impegno, all’epoca studiavo e lavoravo per pagarmi un semestre in India e non avevo voglia di complicarmi la vita. Pensai che con una rassegna compilativa delle esperienze di terapia della poesia me la sarei cavata con dignità, rispetto a un argomento che comunque suscitava il mio interesse. Del resto mi immaginavo che l’utilizzo terapeutico della poesia fosse qualcosa di noto, diffuso e documentato. Con mia grande sorpresa invece mi imbattei in un’area di ricerca sterminata e indefinita, salvo eccezioni che provenivano dagli Stati Uniti, che erano comunque parziali rispetto al tema trattato. Ma anche nel resto del mondo non era rinvenibile quel librone/manuale/pietra miliare da cui ogni studente attinge a piene mani rispetto a ogni argomento umanamente scibile. Il libro irrinunciabile per chiunque volesse, come me, approcciarsi al tema, non c’era.
Pensai che avrei potuto cimentarmi personalmente nell’impresa e mi misi all’opera. Ho scritto il libro che avrei voluto leggere. Questo libro è l’esito del mio lavoro dell’epoca, implementato da ulteriori dieci anni di ricerche autonome. Un’ossessione inesauribile, che il lungo corteggiamento di Dome Bulfaro mi suggerisce intanto di assestare in una prima edizione per Mille Gru, che cura anche Poetry Therapy Italia, la rivista italiana dedicata alla poesiaterapia (www.poetrytherapy.it), a beneficio dei sempre più numerosi colleghi (e non solo colleghi) interessati al legame tra poesia e psiche, all’enigma dell’ispirazione poetica e alla terapia della poesia.
L’utilità della poesia sta nel ricordarci
quanto sia difficile rimanere la stessa persona,
perché la nostra casa è aperta, la porta senza chiave
e ospiti invisibili entrano ed escono.
(Czesław Miłosz – Arte Poetica)
Nei dieci anni successivi alla mia laurea ho continuato a cercare le risposte di psicologi, poeti e filosofi all’enigma dell’incontro tra poesia e psicologia raccogliendo molteplici e talora difformi osservazioni per immaginare che cosa possa essere successo all’evoluzione della poesia da linguaggio primigenio, praticato dai primi uomini apparsi sulla terra, a linguaggio iniziatico, rivolto anche alla cura del disagio psichico.
Da psicologo, ho rivolto particolare attenzione agli incontri della poesia con la clinica psicologica. Abitualmente, la psicologia è considerata in rapporto con la poesia in qualità di strumento per spiegarne la genesi. Invece, secondo quella che è l’ipotesi suggerita da questo libro, la psicologia non solo è limitata nel dare spiegazioni di questo fenomeno, ma è una conseguenza della poesia. È semmai la poesia, dunque, a poterci dire qualcosa in più sulla psicologia perché è da una sua costola che quest’ultima disciplina è nata.
Per poeti come Celan e Valéry “solo la poesia può realizzare l’a priori della filosofia”, e quindi anche della psicologia, “raggiungendo delle forme che circoscrivono la conoscenza prima che ci sia modo di conoscere” (in Steiner, 2012, p. 90). Di nuovo con María Zambrano, “poesia e filosofia si abbracciano” (1939/2010, p. 94) ed è a questo abbraccio spezzato da secoli di studi viziati da pregiudizi epistemologici, disposti in compartimenti stagni, che è andata la mia attenzione.
Ma come nasce e si interrompe quell’abbraccio?
Quale effetto ha sulle persone il verificarsi di questa intimità?
Infine, come e quando e perché possiamo attingervi per trarne beneficio?
Sono le risposte che ho cercato di dare in questo libro.
Credo che qualsiasi poeta, nel momento in cui scrive una poesia, si trovi nell’impossibilità di cogliere con precisione assoluta il processo del suo comporre, di stabilire con una qualche certezza quanta parte del risultato finale sia dovuta a un’attività inconscia che sfugge al suo controllo, e quanta invece sia frutto di un consapevole artificio. (Auden, 1999, p. 87)
Questo libro è dedicato ai poeti ed è stato scritto per tutti gli appassionati di poesia.
Delle sei parti che lo compongono, solo la quinta è particolarmente indicata per gli operatori del settore; tuttavia anche l’amatore della terapia della poesia, che utilizza la scrittura poetica come automedicazione, potrà trarre ispirazione dagli esercizi proposti come da un inventario da esplorare.
È importante ricordare che per poesia, in questo libro, non intendo soltanto l’utilizzo di quei componimenti in cui si va a capo. Come avrò modo di chiarire, l’elemento poetico del linguaggio si annida anche nella prosa, nelle lettere, persino nelle liste e nelle altre arti, questo anche perché la credenza che non sono riuscito ad eludere in questa mia prova scientifica è che la poesia sia alla base del linguaggio stesso, come uno strumento più originario di espressione “che usa la lingua come una delle sue componenti e non come la principale” (Antomarini, 2013, p.67).
La mia giustificazione è che quasi tutte le persone che si sono occupate di questo tema finivano per affermare qualcosa di molto simile e, similarmente a me, non riuscivano a dimostrarlo fino in fondo.
Sinteticamente, la struttura del libro è la seguente:
– La prima parte definisce l’area di indagine, tratteggiandone le inesplorate e inesauribili vastità al confine tra gli estremi psichici della terapia e della follia.
– La seconda parte compie un tentativo, soltanto abbozzato nelle altre opere, sull’utilizzo terapeutico della poesia: una ricognizione delle incredibili vicende dell’ispirazione poetica, dalla comparsa dei primi uomini agli esiti recenti.
– Nella terza parte racconto di quel momento in cui alcuni pionieri hanno intravisto la possibilità di riunire sotto il paradigma sanitario l’istituzione poetica e di come essa si è trasformata nelle varie declinazioni formali in tutto il mondo.
– Nella quarta parte mi occupo della psicologia della poesia, ovvero di come i professionisti della salute psicologica si siano posti nei confronti della base poetica della psiche.
– La quinta parte è un’esposizione dei principi teorici e metodologici dell’utilizzo terapeutico della poesia attraverso il canone del genere offerto dalla Poetry Therapy, molto più di un ombrello sotto cui riunire professionisti diversi.
– Infine, le mie considerazioni conclusive, con cui mi riallaccio a questa introduzione soltanto dopo aver permesso al lettore di farsi la propria idea della questione in essere.
Straniera giunge a noi la parola che forma gli uomini.
(Friedrich Holderlin)
Prima di iniziare questo inesaurito viaggio di ricognizione mi è cara una premessa, offerta dalle parole di un poeta italiano del XIX secolo, che ho incontrato per caso alla biblioteca della facoltà di Lettere dell’Università di Firenze in cui mi rinchiusi per iniziare a scrivere la prima versione di questo testo, la mia tesi di laurea, nell’autunno del 2011. Queste parole ispirarono la mia ricerca, al pari della musa col poeta, e sarei lieto ispirassero anche quella del lettore, attraverso questo libro e tutti gli altri che hanno fatto luce sull’enigma, la storia e l’incontro del mondo poetico con la psicologia, libri che troverete suggeriti in bibliografia e di cui questa opera è una proposta inedita di sintesi integrativa.
Io non faccio poesia per sistema, come veggio che da taluno costumasi. Dunque, misero a me, se vorrò giudicato da certi presenti critici, i quali vogliono a ogni costo trovar formole sopra formole, nei termini più rigorosi, e poi non sanno trovar quella del loro cervello. Costoro, ardisco dire, poco pensano e poco sentono. La eterna verità e i modi accidentali e passeggeri di essa debbono essere il sangue e le lagrime del poeta, e non le ciance dei filosofastri. Lasciateci cantare, nel nome di Dio, e qualche cosa dell’anima appassionata uscirà. Non abbiam tempo di attendere a quella vostra litania eterna di frasi, che per mali abusi hanno perduto l’intendimento e il valore. Il dono del pensiero è dato anche a noi, ma noi spremiamo per distillazioni a lambicco, come voi fate. Che cos’è questo gergo di poesia umana che ci venite insegnando? … I grandi problemi dell’umanità, che voi dite di andare indagando, li meditiamo anche noi, perché, vi ripeto, il dono del pensiero non vi è dato né a monopolio, né a privilegio. Ma per voi s’interroga, si cerca, si discute, si parla; per noi si canta, si spera, si diffida, si piange; e persuadetevi che questa nostra individuale amarezza, che vi dà tanto sui nervi, è assai più vera e più grande di tutto quel vostro umanitario dolore. Il poeta ha bisogno di convertire in sé l’universo, e vuol cantare con la propria sua voce, vuol sentire col proprio suo cuore, e non riceve da voi né la legge dello spirito, né quella della parola.
(Giovanni Prati, 1876)
Mi piace l’idea di offrire la mia conoscenza dell’utilizzo terapeutico della poesia ai curiosi e ricordare ai colleghi psicologi che non è possibile prendersi cura dell’altro e di noi stessi senza sentimento poetico.
Soltanto attraverso parzialità e mutilazioni è possibile inserire l’intero discorso sulla poesia nel discorso contemporaneo sulla scienza psicologica. Elefantiaca, la poesia ha occasionale timore dei topolini ma non può neppure una volta essere contenuta tutta intera in una gabbia chiamata metodo. Come vedremo, la poesia è espressione del puro Essere, la sua voce ci guida lungo l’antico sentiero verso l’Intero di cui conserva l’immagine intatta, in direzione ostinata e contraria a ogni riduzionismo. La poesia è una pratica oltre qualsiasi dualità. Sempre è e non è.
La psicologia è una scienza che i poeti cantano dalla notte dei tempi eppure gli psicologi hanno trascurato simili tesori. La poesia precede la scienza, la nascita della coscienza e, secondo alcune mitologie, la nostra stessa esistenza. Come nel mito hindu, in cui l’om sanscrito – aum – è la voce dell’universo prima del big bang, la disgiunzione fondativa dall’Intero. Bisogna immaginare il cosmo come una pagina bianca su cui si riversano tutte le parole improvvisamente liberate da quel nucleo primordiale, espressione immanente di tutti i significati potenziali.
Tutte le poesie dentro tutto il silenzio, qui e ora.
Io dimorava all’interno dello spazio pulsante dell’immensità.
L’universo giaceva nelle tenebre, con acqua in ogni dove.
Non esisteva alcun barlume di alba, alcuna chiarità, alcuna luce.
E il suo inizio fu in quelle parole,
per cessare, lui, di essere inerte:
«tenebre, divenite tenebre sature di luce»;
e immediatamente la luce apparve.
(Anonimo – Antico Canto Maori)
Tratto da: Luca Buonaguidi, Poesia e Psiche. Dall'ispirazione poetica alla terapia della poesia, pagg. 23/31 (introduzione dell'autore), Edizioni Mille gru, 2023
Luca Buonaguidi (1987, Pistoia) ha una lunga frequentazione con l’Asia e l’Appennino tosco-emiliano. Psicologo specializzando in Psicoterapia Bioenegertica, si occupa di Poetry Therapy dal 2012. Ha scritto saggi musicali, quaderni di viaggio, libri di poesia e suoi scritti compaiono su varie antologie, riviste, radio e blog. Promotore di festival di controcultura, collabora come co-autore di testi e altri progetti multimediali con musicisti e fotografi. Ha curato con Francesca Gori “L’isola che c’è - Un laboratorio autobiografico in comunità”, il primo libro in Italia scritto dai pazienti delle comunità terapeutiche.
» La sua scheda personale.