Poetry Therapy Italia

L’esperienza di Lidia Trenta – coordinatrice dell’Ufficio di Mediazione presso il C.P.A./Centro Diurno Polifunzionale di Lecce – che utilizza la poesia kintsugi® ideata da Dome Bulfaro nella fase finale del setting di mediazione penale, con lo scopo di far avvicinare ciò che di regola è considerato inavvicinabile, ossia vittima e reo, e di accogliere ciò che non trova accoglienza nella nostra società, ossia la sofferenza e il disordine.

 

Un uomo che ha commesso un errore e non ha riparato
ha commesso un altro errore
(Confucio)

Quando parliamo di Giustizia ci riferiamo molto spesso al sistema che prevede:

  • per chi ha commesso un reato, di essere retribuito attraverso l’applicazione di una pena che richiami il male che ha cagionato,
  • per la vittima, di soddisfare il desiderio di vendetta e restituzione.

Per il resto, sia la vittima che il responsabile del suo dolore vengono lasciati completamente da soli.

D’altro canto, applicare la legge non corrisponde a fare giustizia! Un processo non risponde, non può rispondere a domande come “perché proprio a me?”, “che cosa accade quando un reato viene commesso?”, “cosa si rompe quando un reato viene commesso?”

Per dare una risposta a queste domande, che richiedono una “riparazione altra”, si fa riferimento a quella che ormai viene unanimemente denominata “giustizia riparativa”, tra i cui strumenti di base troviamo la mediazione penale diretta tra autore e vittima.

Le parole chiave di questa tipologia di intervento sono dunque “mediazione”, “riparazione”, attraverso la “cura delle relazioni”. In mediazione penale, dove l’asimmetria delle parti costituisce un fattore specifico, lo scopo è di far avvicinare ciò che di regola è considerato inavvicinabile, ossia vittima e reo, e di accogliere ciò che non trova accoglienza nella nostra società, ossia la sofferenza e il disordine.

I mediatori conducono i soggetti coinvolti a rileggere la vicenda di danno vissuta, partendo non solo dall’oggettività dei fatti accaduti, ma, soprattutto, dal vissuto emotivo soggettivo che quell’esperienza ha causato. Significa dare uno spazio-tempo dedicato, alla vittima per “dire” il suo dolore al reo e a quest’ultimo, un’opportunità di riflessione riguardo al “costo emotivo” che la sua condotta ha prodotto e una responsabilizzazione verso i suoi agiti che va al di là della mera qualificazione giuridica dei fatti.

Lavorare su come il reato ha modificato la vita di chi lo ha subito significa operare all’interno di un solco di cura, per costruire una possibile riparazione simbolica, emozionale e relazionale.

Uno dei modelli di mediazione che opera in tal senso è la “mediazione umanistica” di Jacqueline Morineau che così definisce il suo modello:

La mediazione per me è come la nascita del fiore di loto. Come può rinascere l’uomo in mezzo a tanta sofferenza, in mezzo a una tale devastazione dell’anima? Solo utilizzando la sua stessa sofferenza per vivere e sentirsi uomo. Ecco perché questa è una mediazione umanistica, perché la trasformazione avviene a livello più elevato dell’uomo. Non è un concetto, è una realtà, perché noi tutti quando vediamo la luce non vogliamo più tornare nelle tenebre. La mediazione non si basa sulla ricerca esclusiva della soluzione, ma sulla via da percorrere per arrivare alla conoscenza di sé. Prima di tutto bisogna ascoltare il grido di questa sofferenza. Poi avviene la trasformazione.

L’esperienza non è quello che accade a un uomo,
ma quello che l’uomo realizza utilizzando ciò che gli è accaduto
(Adolf Huxley)

Avete presente il kintsugi giapponese, il vaso rotto che viene sapientemente riparato con foglia d’oro nelle crepe? Ecco, questa è un’ottima metafora dell’arte della mediazione: uno spazio-tempo per riparare e rigenerare le relazioni, in fondo, una via su cui tutti camminiamo durante l’intera esistenza, inevitabilmente abitata dal conflitto.

L’arte del kintsugi insegna a non disprezzare il passato, ma a valorizzarlo; possiamo guardare alle esperienze negative come terribili momenti della nostra vita o vederle come una fase di crescita essenziale e inevitabile che ci ha fatto crescere e diventare più consapevoli.

Ciò che ci prefiggiamo nel setting di mediazione è di spronare a riconoscere le proprie ferite, guardarle in faccia senza paura, nominarle, al contempo lasciando che l’altro con cui si è in conflitto, faccia lo stesso, per intraprendere la strada della riparazione, una riparazione che ci rende più forti e più preziosi.

Seguendo la metafora del kintsugi come fattore di resilienza, durante il percorso di mediazione seguiamo simbolicamente le sei fasi principali dell’arte del kintsugi:

  • la rottura,
  • l’assemblaggio,
  • la pazienza,
  • la riparazione,
  • la rivelazione,
  • l’esaltazione,

tenendo a sostare soprattutto in alcune delle seguenti queste fasi.

Fase 1: Rottura

Quando si parla di rottura riferita alla nostra psiche e alla nostra anima, possiamo intuire di essere dinanzi alla fase più difficile, in quanto è il momento di soffrire, di nominare questa sofferenza e di non rigettarla.

Fase 2: Assemblaggio

Durante la seconda fase, nel kintsugi, si puliscono i pezzi dell’oggetto rotto, così come simbolicamente si purifica la propria anima dalle impurità causate dalla situazione di dolore che crea una nebulosa di emozioni che i mediatori aiutano a districare.

Fase 3: Pazienza

Questa fase è la più delicata, perché bisogna trovare la forza di aspettare che il dolore delle parti decanti, in vista di una trasformazione generativa.

Nella mia attività di coordinatrice dell’Ufficio di Mediazione presso il C.P.A./Centro Diurno Polifunzionale di Lecce (uno dei Servizi Minorili della Giustizia), ho avuto modo di incontrare una preziosa declinazione poetica dell’arte del kintsugi, ideata dall’artista e performer Dome Bulfaro: la poesia kintsugi®[1], che traduce in versi o prosa poetica l’arte del kintsugi, con lo scopo di aiutare a rigenerare simbolicamente le fratture interiori.

Tra tutti i tipi di poesia ideati da Dome Bulfaro, quella che mi ha colpito maggiormente è la poesia kintsugi a specchio reale che ormai propongo alle parti, nella fase finale del setting di mediazione, come fosse un distillato dell’avvenuta sublimazione dell’intero percorso mediativo.

Ho pensato che in mediazione fosse più calzante una poesia in sei versi, in cui il reo e la vittima alternassero i versi, secondo questo schema di massima:

  • Primo verso: è della vittima di reato: serve a dire cosa è accaduto (la contesa)
  • Secondo verso: risponde il reo: serve a riconoscere l’errore (equivale a dire mi dispiace)
  • Terzo verso: la vittima dice cosa ha provato
  • Quarto verso: serve al reo per dire “come posso sistemare le cose?” Equivale a chiedere scusa
  • Quinto verso: la vittima dice cosa cosa si porta nel futuro dall’esperienza fatta
  • Sesto verso: il reo esprime ciò che ha imparato.

Lavorando con adolescenti con problemi di giustizia, noto spesso come trovino difficile esprimersi in forma poetica (ne hanno quasi timore!), ma – vi assicuro – che quando accade è veramente un momento toccante!

Riporto qui l’ultimo componimento realizzato da un adolescente e da sua madre, alla quale – in preda all’effetto della cocaina – aveva estorto denaro, stringendole le mani al collo e facendole temere per la sua stessa vita.

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Nel setting di mediazione vi è la possibilità di risvegliare nelle parti, attraverso un linguaggio e un atteggiamento di tipo maieutico, quella responsabilità e quella partecipazione che renderanno le parti protagoniste, nel qui e ora, delle loro esistenze e ciò non potrà che tradursi in una restituzione; restituzione della libertà, ma prima ancora della fiducia. Fiducia nelle mie possibilità, fiducia – che era stata persa – nelle possibilità dell’altro, fiducia nell’investimento personale, nel percorso di mediazione.

E allora il mediatore ricorderà alle parti che esiste il “diritto alla tregua”, il diritto di fermarsi e riprendere fiato, il diritto alla riparazione, il diritto a riempire di oro le proprie cicatrici. 

[1] vedi l’articolo “Poesia e prosa kintsugi”  nel Numero 0 di questa rivista.

 


 Lidia Trenta, vive in Salento e da 30 anni si occupa di adolescenti devianti nel ruolo di funzionario della professionalità pedagogica nei servizi minorili della Giustizia a Lecce.