Un libro, questo, dove poesia e analisi del profondo si danno la mano, due luoghi frequentati e fertilizzati da Cesare Viviani, luoghi di quell’onestà intellettuale e spirituale che oggi difetta, oggi che la serietà, l’introspezione, il dialogo, l’ascolto del silenzio sono visti come – permettetemi il termine – “cose da sfigati”.
Per chi ancora non lo conosce, una breve presentazione di Viviani: nasce il 22 aprile 1947 sotto il segno del toro a Siena dove si laurea in giurisprudenza nel ’71. Allo stesso anno risale l’inizio di un’esperienza psicanalitica che porterà avanti prima a Firenze e poi a Milano, con analisti junghiani. Nel ‘72 si trasferisce a Milano dove sperimenta varie collaborazioni, in psichiatria, ricerche di mercato, editoria, nel ‘73 esce la sua prima raccolta di poesia L’ostrabismo.
Dopo un anno di lavoro giornalistico – raccontato nel libro – avvia l’attività di psicologo che durerà per 5 anni nelle istituzioni sanitarie locali, si laurea poi in pedagogia con indirizzo psicologico sino a dare il via all’attività di psicanalista che dura a tutt’oggi.
In questi anni diverse le pubblicazioni poetiche: La scena, Pensieri per una veste poetica, Il mondo non è uno spettacolo, La voce inimitabile; è con La preghiera nel nome che nel 1990 vince il premio Viareggio e nel 2009, con Credere all’invisibile, il prestigioso premio Pen.
I più recenti libri di Poesia: La forma della vita e Infinita fine.
Non date le parole ai porci, non sono poesie, sono come lui stesso le definisce nel sottotitolo: prove di libertà di pensiero su cose della mente e cose del mondo, dove Viviani si offre interamente a noi, nella sua veste di saggista, di poeta, in quella di psicanalista, e in quella veste che tutti tentiamo di tenere ben nascosta sotto il letto o dentro l’armadio, quella del nostro essere umani: fragili e limitati, e potremmo anche dire, parafrasando il titolo di un suo libro: infinitamente finiti.
Un nascondimento, questo, all’arte stessa della vita, dove la difesa inevitabilmente crea sempre anche un’offesa davanti a quello che ci costringe a stare di fronte alla nostra umana finitezza, togliendo ogni appiglio di sollievo alle nostre paure e spesso ogni alibi alle nostre speranze.
Questa è l’immagine che mi è venuta davanti agli occhi leggendolo, confortata anche dai colori della copertina, questo libro è come il gioco che tutti abbiamo giocato, quello delle freccette; davanti a noi il bersaglio tondo, giallo e nero con dentro tutte le nostre umane viltà e virtù: l’attaccamento, l’indifferenza, l’angoscia, l’onnipotenza, la nostalgia la corruzione, la saturazione dei sentimenti, l’omosessualità, la morte, le incessanti domande e le amnesie senili; ma anche i ricordi poetici, come il cappello di mio padre, il sentire della poesia, l’erotismo, la sessualità, l’amicizia, l’amore, l’assoluto, il sacro, il tempo, il bene e il male, e… come nel fertile sogno di Jung: “Dio e la cacca”.
“La poesia”, ci dice Viviani, “è il luogo dove la mancanza di speranze non diventa disperazione...”
ed entrando, da bravo geologo qual è, ancora più nelle profondità umane ne sonda le possibilità,
“perdonare significa capire il dolore dell’aggressore…”,
ma anche le impossibilità, “la vita è portare dentro di sé un irrisolto”,
sino ad illuminare l’ombra della nostra esistenza:
“quando non ci si fida di nessuno, ci si fida solo della propria angoscia le prime persone che possono essere comprate con i soldi sono i familiari… la nostalgia è una necessità andando avanti con gli anni si diventa più tolleranti ai cattivi odori… l’unico senso accertabile è la conservazione della specie”.
Ogni parola che Viviani toglie dalla sua faretra è una freccia che va dritta dentro il cuore del bersaglio e il bersaglio siamo noi. Davvero in questo libro ti senti nudo, forse come Eva e Adamo si sono sentiti, nessuna foglia, e una disperazione totale davanti a…
La disperazione, come la fede non ha oggetto.
L’amore esige spietatezza, le parole di Viviani, da non dare ai porci, proprio perché non sono e non siano vane, sono spietate, ma anche sempre corroborate dalla pietas, di cui possiamo dire solo se abbiamo osato stare nel dolore, nella solitudine e nel silenzio delle molte notti dell’anima che l’umano ha da sopportare per essere davvero umano.
Ci sono pensieri che non vorremmo pensare, che allontaniamo da noi subito, spaventati, ma è proprio accettando in noi il limite, la capacità di essere “il male” e non solo di farlo, che possiamo dirigere tutte le nostre energie verso un umano più responsabile e consapevole.
In questo libro l'autore ci invita a tornare al valore dell’esperienza, ad essere autori del nostro pensiero critico e della nostra bruciante passione del cuore, creatori della nostra azione che è anche e soprattutto politica.
Il pensiero quando è vero ha a che fare con la Vita, cioè ci serve per respirare e per vivere meglio, ed è inseparabile dalla spiritualità che altro non è che la capacità di liberazione: liberare la forza dirompente di una parola che libera dai ruoli, dogma, legge, dottrina…
Come il cosmo siamo infiniti ma anche indeterminati, ecco perché possiamo chiederci con Viviani: “Se ai ragazzi che crescono, i genitori, gli insegnanti, i maestri di vita invece di insegnare i tanti significati che costituiscono il senso della vita, insegnassero che la vita non ha senso, cosa accadrebbe?
Forse accadrebbe che la maggior parte dei giovani si toglierebbe la vita prima dei trent’anni?
O forse accadrebbe che, non più attaccati ai propri significati con i quali difendersi e aggredire, imparerebbero un nuovo modo di stare al mondo, non più generatori o trasmettitori di illusioni, ma invece più attenti alla propria e all’altrui umanità, alla comune verità, non più di una sorte particolare, ma uniti dal medesimo destino?”
“Sono diventato brutto e ingombrante come l’Altare della Patria”, confessa di se stesso nel libro, “ed è a questo altare della patria che lascio a voi lettori la parola, chiedendo venia per le mie, che mi auguro non siano da dare ai porci!”
Non date le parole ai porci, di Cesare Viviani, Melangolo editore, 2014
Patrizia Gioia, designer e poetessa, cofondatrice di Mille Gru (2006), è responsabile del settore arte e cultura di Fondazione Arbor, che ha avuto come primo presidente Raimon Panikkar. Opera per diffondere il dialogo inter/intra culturale e religioso, organizzando giornate di lavoro e incontro con studiosi di fama mondiale. Membro di ARPA ( Associazione per la Ricerca in Psicologia Analitica ) scrive libri di poesia e articoli per riviste e giornali web, rivitalizzando il pensiero mistico simbolico al crocevia tra oriente e occidente. Nel 2000 fonda SpazioStudio13 a Milano, luogo di incontro e confronto.
» La sua scheda personale.